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Gaetano Minafra, Arte sacra 15. Madonna
Pubblicato in Arte, Artisti contemporanei galatinesi
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La vita di Edoardo De Filippo: arte, lotta, amore. È calato il sipario sull’ultimo atto della sua straordinaria vita
di Maurizio Nocera
Nella mia vita ho visto il grande drammaturgo napoletano più di una volta, a Roma ma anche nel suo teatro San Ferdinando di Napoli. Ero assieme ad un suo ammiratore, Amedeo Curatoli, pittore e politico anch’egli di Napoli, che lo conosceva personalmente. Allora, assieme ad Amedeo, scrivevo su un settimanale – «Nuova Unità», stampato a Firenze. Quando Eduardo volò nel più alto dei cieli, scrissi questo articolo, che ripropongo oggi ai lettori del «Il Pensiero Mediterraneo», in occasione dei 40 anni della sua morte.
Eduardo De Filippo (Napoli, 24 maggio 1900 – Roma, 31 ottobre 1984), il dolce e acuto interprete della «Napoli amara» di questo secolo, silenziosamente, quasi senza che nessuno se ne accorgesse, se n’è andato calando definitivamente il sipario sull’ultimo atto della sua straordinaria vita di autore-attore-regista. Pensare ad Eduardo come ad un qualsiasi morto non è possibile: la sua figura macilenta, la sua scavata «maschera d’attore», la sua tenera e penetrante voce sono così vive, così pulsanti di vita nel nostro ricordo che siamo indotti a pensare che ancora domani lo rivedremo apparire nello scenario di un palcoscenico a raccontarci le sofferte ed amare storie della sua Napoli, del suo sacrificato Meridione. Perché Eduardo, oggi amato cittadino del mondo, era prima di ogni cosa napoletano e figlio del Sud.
Arte e carattere di Marzio Mori. Una sospensione tra attualità e moralità della storia
di Mauro Di Ruvo
Oggi noi dovremmo comprendere come questo nostro retaggio cristiano-umanistico, privo oramai di co-essenzialità reciproca, possa ulteriormente evolversi nella direzione delle nuove esigenze della civiltà, oppure se lo si debba ritenere concluso.
Questo solo un precetto che contengono le pagine finali del nuovo libro di Marzio Mori, Arte e carattere. Dalla città ideale alla strada di Delft. Viaggio nelle certezze e nelle angosce dell’uomo moderno, edito quest’anno a Perugia da Volumnia Editrice. Una pubblicazione che forse attendeva da anni il suolo perugino per ripercorrere le vie strette dell’Arte, inoltrandosi nei nascosti vicoli che portano a scoprire nuove gallerie della storia.
Aspettandosi un lungo e corposo viaggio denso di pause e riflessioni presso le numerose stazioni cronologiche, il lettore rimane meravigliato alla vista di un così snello opuscolo, (63 pagine esclusa la bibliografia), assopendosi nello sguardo della copertina raffigurante Il principe di Miaz Brothers. Chi ancora deve alzare il piatto di coperta per giungere alla lettura inedita del testo, è già attratto e raggomitolato dal tepore quasi domestico e confuso dell’assenza di contorni e di definizioni grafiche dell’acrilico dei Brothers. Anzi recupera la calma per iniziare un viaggio che si dipana nella complessità del racconto.
Mori lo anticipa nel sottotitolo, un “viaggio nelle certezze e nelle angosce dell’uomo moderno” che si avvia, dopo una breve introduzione dell’autore, da una citazione di Jürgen Habermas che slaccia il filo del gomitolo narrativo.
E il filo slacciato è proprio quello di Giotto, dalla sua concorrente rivoluzione formale per quella novità francescana morale, che attraverso un «concetto estetico e ideale estremo» è riconosciuto dall’autore come promotore di quell’armonia che sarà propria del Rinascimento tra la Natura e Dio.
Pasifae e la vacca dedalica
di Gianluca Virgilio
“Nel mito di Pasifae, la donna che si fa costruire da Dedalo una vacca artificiale per potersi accoppiare con un toro, è lecito vedere un paradigma della tecnologia. La tecnica appare in questa prospettiva come il dispositivo attraverso cui l’uomo cerca di raggiungere – o di raggiungere nuovamente – l’animalità. Ma proprio questo è il rischio che l’umanità sta oggi correndo attraverso l’ipertrofia tecnologica. L’intelligenza artificiale, alla quale la tecnica sembra voler affidare il suo esito estremo, cerca di produrre un’intelligenza che, come l’istinto animale, funzioni per così dire da sola, senza l’intervento di un soggetto pensante. Essa è la vacca dedalica attraverso la quale l’intelligenza umana crede di potersi felicemente accoppiare all’istinto del toro, diventando o ridiventando animale. E non sorprende che da questa unione nasca un essere mostruoso, col corpo umano e il capo taurino, il Minotauro, che viene rinchiuso in un labirinto e nutrito di carne umana.”
Giorgio Agamben, Il toro di Pasifae e la tecnica, in Una voce. Rubrica di Giorgio Agamben, dell’ 8 luglio 2024
La vacca dedalica è la tecnologia, che l’uomo usa per raggiungere ciò a cui mirava Pasifae quando si fece costruire la vacca artificiale, il piacere smodato di congiungersi carnalmente con il toro, la bestia priva di pensiero e dal vigore immane. Nel desiderio di Pasifae Agamben ci fa scorgere quello dell’uomo contemporaneo, la creazione di un’intelligenza artificiale priva di soggetto pensante, che dunque assicuri a chi ne fa uso un godimento puramente istintuale, come è quello che si suppone essere proprio dell’animale. Infatti, l’IA è semplicemente un algoritmo, che, pur essendo stato pensato attraverso l’ottimizzazione delle funzioni matematiche, non pensa a sua volta, ma si ciba del pensiero altrui in modo cannibalico. Pasifae è l’intelligenza umana in grado di pensare e di mettere in pratica il pensiero più mostruoso che si possa pensare, l’accoppiamento col toro nella vacca artificiale, ovvero con l’IA. Il risultato è la nascita di un mostro, il moderno tecno-Minotauro, ovvero l’uomo tecnologico contemporaneo, che si aggira come l’antico bestione vichiano nel labirinto del mondo, senza vie d’uscita, cibandosi di carne umana.
La dubbia efficacia delle agevolazioni fiscali per le imprese del Mezzogiorno
di Guglielmo Forges Davanzati
L’economia meridionale è caratterizzata da una struttura produttiva composta da imprese di piccole e medie dimensioni che operano in settori con basso valore aggiunto e con bassa propensione alle esportazioni. Ne costituiscono esempi la ristorazione, il turismo balneare, il settore delle costruzioni (quest’ultimo trainato dagli incentivi del Superbonus 110%) che, infatti, negli ultimi anni, sono i comparti che hanno espresso la maggiore domanda di lavoro nelle aree più povere del Paese. Come mostrato da una ricerca dell’Università della Campania (F. Isco, N. Moscariello e P., Fiera, I processi di crescita dimensionale delle aziende nel Mezzogiorno Strategie e performance delle medie imprese industriali, Università della Campania “Luigi Vanvitelli”, Napoli, 2018), l’impresa di grandi dimensioni, nel Mezzogiorno, è oggi esclusivamente l’eredità degli anni dell’intervento straordinario (1950-1993) e, a seguito delle privatizzazioni – avviate, in Italia, a partire dai primi anni Novanta e reiterate dai Governi degli ultimi decenni, incluso il governo Meloni – è prevalentemente di proprietà estera.
Memorialistica meridionale del Risorgimento: nuove acquisizioni (seconda parte)
di Antonio Lucio Giannone
(continuazione)
Ma adesso, anche per offrire un contributo nuovo per la Giornata di studi dedicata a Marco Sirtori, vorrei dare notizia di due altre opere che trattano questi avvenimenti e che si aggiungono al già ricco corpus di scritti or ora citati, una di carattere memorialistica e una che rientra nel genere drammatico. Sugli autori non si hanno molte notizie anche perché queste loro opere sono state scritte in inglese (e questa è una delle loro caratteristiche) e solo una è stata pubblicata anche in italiano. I loro nomi non figurano nemmeno nell’ampio repertorio di Guido Mazzoni sull’Ottocento, ricordato poc’anzi[1].
La prima è un libro di Antonio Nicolò, Ten years’ imprisonment in the dungeons of Naples, pubblicato a Londra in inglese nel 1861. Dell’autore, che nel frontespizio è definito «political exile», sappiamo che era nato a Sinopoli, in provincia di Reggio Calabria, nel 1823 ed era medico di professione. Anch’egli, nel 1848, aveva partecipato ai moti popolari scoppiati in vari centri del Regno delle due Sicilie dopo che Ferdinando II di Borbone aveva revocato lo Statuto costituzionale ed era stato imprigionato nelle carceri di Nisida e Procida per dieci anni, come tanti patrioti. Dopo lo sbarco in Irlanda nel 1859 si stabilisce definitivamente a Cork dove resta probabilmente fino alla morte.
La sua opera rievoca appunto i dieci anni di lotta e di prigionia, dalla latitanza alla cattura, dalla condanna al carcere alla liberazione. Il libro è inedito in Italia ed è stato solo in parte tradotto in italiano, forse dall’autore stesso. Nell’Archivio di Stato di Reggio Calabria è conservata la traduzione molto parziale di quest’opera, recuperata e presa attentamente in esame nella tesi di laurea su Antonio Nicolò di Cristina Bonvenga[2]. La versione comprende soltanto la sezione iniziale e quella conclusiva, mentre risulta assente la parte centrale, la più ampia, relativa agli anni passati nelle galere borboniche. Non sappiamo se la traduzione integrale sia andata perduta o se l’autore abbia tradotto solo queste parti. Ma esaminiamolo ora più da vicino.
A proposito di vecchiaia
di Paolo Vincenti
“Compa’, la vecchiaia è una brutta bestia”, ripeteva sempre mio nonno Uccio e si era in tempi in cui i vecchi erano ancora vecchi. Gli anziani cioè dimostravano anche nel fisico il peso dei loro anni ed erano considerati depositari di quella antica saggezza che, salvo rari casi, veniva da tutti loro riconosciuta. Erano dei punti di riferimento per le piccole comunità in cui noi siamo cresciuti. Per un diffuso senso di rispetto verso chi è più adulto e maturo l’età avanzata è sempre stata sinonimo di autorevolezza ed agli anziani, di più in passato, ci si rivolgeva per chiedere consigli, suggerimenti, indicazioni di vita. Addirittura essi suscitavano un timor reverentialis nei più giovani. Gli è che i vecchi, quand’io ero bambino, non somigliavano ai finti giovani di oggi e la senescenza comportava delle condizioni morfologiche e funzionali in decadimento rispetto alla giovane età. Oggi, grazie ai progressi della scienza medica e ad una generalizzata condizione di benessere che ha investito l’Occidente, le funzioni psico fisiche di chi è in età avanzata perdurano ottimali e infatti, secondo le statistiche, l’età media della popolazione europea si è notevolmente innalzata. Attualmente si parla di “quarta età” per intendere quell’arco temporale che va dagli ottant’anni ai cento. Bene, benissimo? Mica tanto. Il progresso della ricerca, se da un lato ci fa vivere meglio, dall’altro comporta grandi disagi. Apprendiamo spesso di centenari del tutto in grado di intendere e volere a quella veneranda età. Ma poiché ogni medaglia ha due facce, come Giano bifronte, tutto sta nel guardare l’altra faccia della stessa.
Antonio Stanca, Universum A-34
Pubblicato in Arte, Artisti contemporanei galatinesi
Contrassegnato Antonio Stanca
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Quei cantautori che raccontano le stagioni della nostra vita
di Antonio Errico
Calava un’afa che ristagnava l’aria, una sera del mese di giugno del Duemilauno. Francesco Guccini si era avventurato in Salento, da Pàvana a Serrano, per ritirare il premio “L’olio della poesia”. Si andava per i vicoli di Otranto, e lui raccontava di quando scese a Lecce nel Sessantadue per fare il militare, che era anche estate allora, e faceva un caldo d’inferno anche allora, e intercalava il racconto con la frase c’è troppa pianura qui, c’è troppa pianura. Allora gli citai questi versi di Bodini: “Sulle pianure del Sud non passa un sogno./ Sostantivi e le capre senza musica,/con un segno di croce sulla schiena,/o un cerchio,/quivi accampati aspettano un’altra vita”.
Lui ripeté per due volte: sostantivi e le capre senza musica. Quel verso gli piaceva.
Quelli che erano con lui, quella sera, le sue canzoni le conoscevano a memoria.
Poi passarono gli anni: undici; e uscì “L’ultima Thule”. Guccini disse che avrebbe smesso di scrivere canzoni, che prima non c’era giorno che non prendesse la chitarra ma che oramai non la toccava quasi più. Allora uno pensa che forse non era soltanto una canzonetta quella che diceva “Ogni cosa alla lunga mi molesta/ e cerco un’altra festa/ e poi le feste in fondo mi han stancato”.
Taccuino di traduzioni 10. Pierre-Albert Jourdan: Scavando
di Antonio Devicienti
Il
silenzio è la nostra camera da sempre
non è possibile raggiungere le solitudini
se non attraverso molti strappi
ed è senza dubbio il senso ultimo
della penetrazione lenta della terra nei nostri corpi.
*
Abito
il silenzio da sempre –
ma non si può raggiungere la solitudine
se non dopo numerosi strappi:
ed è senz’altro questo il senso finale
del penetrare lento della terra nel corpo.
EN CREUSANT
Le silence est notre chambre depuis toujours
les solitudes ne peuvent s’atteindre
qu’à travers de multiples déchirures
et c’est sans doute le sens ultime
de la lente pénétration de la terre dans nos corps.
In Le bonjour et l’adieu (Mercure de France, 1991)
VERSIONI
Propongo due mie versioni del medesimo testo di Pierre-Albert
Jourdan (Parigi 1924 – Caromb in Valchiusa 1981); la prima si potrebbe dire più
“fedele” al testo originale, mentre mi piacerebbe definire la seconda una
“traduzione-interpretazione” che, tra l’altro, s’innesta perfettamente su di
una linea di ricerca che seguo da qualche tempo e che è l’idea dell’abitare la
lingua (e il mondo) da una parte, il silenzio dall’altra. In questa seconda
proposta mi sono concesso la felice libertà di reinterpretare i versi del
poeta, di provare a immaginare che cosa lui stesso avrebbe forse scritto se
avesse voluto ripensare il testo (mi scuso per una tale temerità e arroganza) –
e, nel medesimo tempo, ho cercato di rileggere il testo esplicitando quelli che
mi sembravano i sensi velati dei versi.
Triangolo
di Antonio Prete
Il tempo sta nella nostra mente – si percepisce in essa – come disposto in tre cerchi. In uno c’è tutto quello che il ricordo salva dal naufragio: volti, profili di città, paesaggi. Nell’altro sta, velato, quel che l’oblio ha rinserrato nelle sue segrete. Nell’altro ancora si affollano voci e figure del momento :
respiro di presenze,
bussola e vento alla tua incerta vela.
.
Sopra, in suprema lontananza, un grande
triangolo splende, con Deneb, azzurra
coda del Cigno, Altair e Vega,
vertici
dell’ oltretempo, stille di mancanza
nella tua intima, deserta stanza.
Pubblicato in Poesia, Tutto è sempre ora di Antonio Prete
Contrassegnato Antonio Prete
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L’ostacolo del “fabulare”. La finzione autobiografica dantesca nell’opera volgare dell’Alighieri. Capitolo XI. Memoria, allegoria ed escatologia nel canto II del “Purgatorio”
di Gianluca Virgilio
Canto dell’amicizia – è stato detto -, il II del Purgatorio, di quell'”amicizia nata dall’arte”[1], dalla comunione di esperienze culturali e spirituali, dalla vita o da un brano di vita comune, in cui i sodali pensarono e sentirono allo stesso modo, finché, consumate quelle esperienze, le strade non si divisero, impedendo che le affinità si consolidassero in costume, così forse inaridendo. Ed ora, trascorsi gli anni della giovinezza, quei casi e quegli eventi Dante li rivive come pervasi da uno stato di grazia, alla luce della memoria, come “una reminiscenza remota”[2]; e guarda ad essi col distacco che consente la serenità (che non esclude la severità) del giudizio, cosicché vero è che l'”autobiografismo realistico” del canto assume un aspetto “pudico e dissimulato”, “dolce poesia della memoria, nel preciso, realistico ricordo di giorni cari e lontani”[3].
Il canto II del Purgatorio è anche un canto pervaso da nostalgia, ed ha la sua premessa drammatica nel recupero memoriale cui l’arrivo di Casella sulla spiaggia dell’antipurgatorio induce Dante, riportandogli alla mente il suo, il loro mondo poetico giovanile e offrendo al lettore un privilegiato punto d’osservazione per comprendere il significato del passaggio dalla poesia tardo-stilnovistica che si copre d’un manto allegorico (all’altezza del Convivio) alla poesia sacra della Divina commedia, a cui ha posto mano e cielo e terra.
Pubblicato in Scritti giovanili danteschi di Gianluca Virgilio
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Gaetano Minafra, Arte sacra 14. Madonna con bambino
Pubblicato in Arte, Artisti contemporanei galatinesi
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Buon compleanno, Mister Darwin!
di Ferdinando Boero
Il 24 novembre 1859 fu pubblicato un libro che cambiò la nostra visione del mondo: On the Origin of Species by Means of Natural Selection, or the Preservation of Favoured Races in the Struggle for Life, da noi conosciuto come L’origine delle specie. L’autore è Charles Robert Darwin che, 165 anni fa, iniziò la rivoluzione darwiniana, e la proseguì nel 1871 con un altro libro fondamentale: The Descent of Man, and Selection in Relation to Sex da noi conosciuto come L’Origine dell’uomo. Questi due libri tolsero la nostra specie dal “centro” dell’universo e spiegarono che quella che chiamiamo “Creazione” si verificò con un processo che oggi chiamiamo Evoluzione. La parola non è presente nella prima edizione de L’Origine, anche se il libro termina con la parola “evolved”. La teoria dell’evoluzione, subì molte modificazioni nei secoli successivi, ma rimane una solida teoria scientifica, e non esistono alternative in grado di spiegare con altrettanta efficacia perché le cose stanno come stanno, nel mondo vivente, costituito da innumerevoli forme di vita: le specie. Noi siamo una di quelle e siamo il prodotto, assieme a tutte le altre, di processi naturali basati sulla selezione. Darwin spiegò l’affermazione delle “razze favorite” con argomenti che non appartengono alla moderna teoria dell’evoluzione, basata sulla genetica, ma che considerano le interazioni tra le specie attraverso la “lotta per l’esistenza”.
Pubblicato in Anniversari, Necrologi, Commemorazioni e Ricordi, Ecologia
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Parole, parole, parole 37. Il basic italian di Mike Bongiorno
di Rosario Coluccia
«Mike Bongiorno parla un basic italian. Il suo discorso realizza il massimo di semplicità. Abolisce i congiuntivi, le proposizioni subordinate, riesce quasi a rendere invisibile la dimensione sintassi. Evita i pronomi, ripetendo sempre per esteso il soggetto, impiega un numero stragrande di punti fermi. Non si avventura mai in incisi o parentesi, non usa espressioni ellittiche, non allude, utilizza solo metafore ormai assorbite dal lessico comune. Il suo linguaggio è rigorosamente referenziale e farebbe la gioia di un neo-positivista. Non è necessario fare alcuno sforzo per capirlo. Qualsiasi spettatore avverte che, all’occasione, egli potrebbe essere più facondo di lui» […] Mike Bongiorno convince dunque il pubblico, con un esempio vivente e trionfante, del valore della mediocrità. Non provoca complessi di inferiorità pur offrendosi come idolo, e il pubblico lo ripaga, grato, amandolo. Egli rappresenta un ideale che nessuno deve sforzarsi di raggiungere perché chiunque si trova già al suo livello. Nessuna religione è mai stata così indulgente coi suoi fedeli. In lui si annulla la tensione tra essere e dover essere. Egli dice ai suoi adoranti: voi siete Dio, restate immoti».
Pubblicato in Linguistica, Parole, parole, parole di Rosario Coluccia
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Per Aldo D’Antico, per Mino Castrignanò, per questi tempi ma anche per quelli che ci hanno visto ciarlare all’ombra del grande carrubo di Parabita
di Maurizio Nocera
Quando Mino Castrignanò mi diede il manoscritto del libro È successo un’altra volta! Opere teatrali 1993-2023, ad esso c’era già l’Introduzione di Monia Rosato (Segretaria provinciale dello Slc Cgil Lecce), mentre invece mancava la Premessa di Aldo D’Antico. Era un po’ di tempo che Aldo teneva una copia del manoscritto, però non aveva ancora inviato all’autore la sua premessa. Mino mi chiese allora se potevo telefonargli io per chiedergli a che punto stava. Gli risposi che lo avrei fatto volentieri anche perché era da un bel po’ che non sentivo Aldo.
Così gli telefonai. Era un pomeriggio avanzato del mese di gennaio 2024. Scelsi questo tempo perché sapevo che Aldo era solito farsi la pennichella. Mi rispose quasi immediatamente. Sentii la sua voce un po’ appesantita, perciò gli chiesi.
– Aldo come stai?
– Ultimamente non tanto bene. L’anno scorso ho avuto una piccola ischemia e sono ancora costretto ad usare le stampelle per muovermi. Però adesso va meglio. Spero quanto prima di rimettermi del tutto e ricominciare a fare il mio lavoro nella biblioteca.
Aldo amava i libri e ad essi aveva dedicato gran parte della sua vita. Lì, a Parabita, quel suo ombelico del mondo tanto amato, nell’ex palazzo Ferrari, era riuscito a costruire una biblioteca quasi simile a quella costruita dai monaci del libro Il nome della rosa di Umberto Eco. Non nel numero degli esemplari, ma nelle caratteristiche librarie specifiche. Egli non era un bibliofilo nel vero senso della parola, ma non era neanche un bibliomane: i libri li raccoglieva, li schedava, li impilava, ecc., semplicemente perché sapeva il loro valore educativo e comunicativo. E poi, molti di essi li leggeva anche.
Memorialistica meridionale del Risorgimento: nuove acquisizioni (prima parte)
di Antonio Lucio Giannone
In occasione di questa Giornata di studi in ricordo di Marco Sirtori, ho scelto di ritornare su un argomento che ci permise di conoscerci e di iniziare una fruttuosa collaborazione, interrotta soltanto dalla prematura e improvvisa scomparsa di Marco. E vorrei cominciare questa relazione rievocando brevemente quell’incontro. Nel giugno del 2015, in qualità di presidente del Centro studi “Sigismondo Castromediano e Gino Rizzo”, di Cavallino di Lecce, mi misi in contato con lui che aveva collaborato con Matilde Dillon Wanke alla realizzazione dell’Atlante letterario del Risorgimento[1], inviandogli gli Atti di un Convegno dedicato a Sigismondo Castromediano, un patriota e memorialista del nostro Risorgimento[2]. Poi proposi a lui e a Matilde di presentare l’Atlante proprio a Cavallino di Lecce, il comune di nascita del duca Castromediano. Entrambi accettarono il mio invito molto volentieri e dalla mail di risposta di Marco appresi anzi che amava il Salento in quanto veniva qui quasi ogni estate a villeggiare in una località marina dell’Adriatico, denominata Torre Specchia. Lui ricambiò mandandomi alcune sue pubblicazioni e alcune copie dell’Atlante. L’11 dicembre 2015 si svolse la Tavola rotonda «Sigismondo Castromediano e il Risorgimento italiano», nel corso della quale Fabio D’Astore e io parlammo dell’Atlante, mentre Marco si soffermò sugli scritti giovanili del duca[3], curati da D’Astore[4], e Matilde Dillon tenne un intervento sulle Memorie di Castromediano. Entrambi i loro contributi figurano poi in volume, da me curato, che raccoglie una serie di saggi su questa importante figura di patriota e letterato [5].
Nuove segnalazioni bibliografiche 35. Per Antonio Vallone
di Gianluca Virgilio
Mi raccontava mio padre (classe 1921) che, da ragazzo, dunque, verso la fine degli anni Venti o al massimo ai primi dei Trenta, sulla parete del laboratorio d’un calzolaio, in uno sgabuzzino piuttosto angusto sito nell’ottocentesca Via Luce a Galatina, v’era il ritratto di un uomo canuto e rubicondo, dal viso paffuto, con dei baffi di tutto rispetto, lunghi e bianchi, e dagli occhi buoni e appena sorridenti: era il ritratto dell’on. Antonio Vallone, defunto il 7 febbraio 1925 (era nato il 6 maggio 1858) tra il compianto generale dell’intera cittadinanza. Mi diceva queste cose per chiarire con un esempio quale fosse la popolarità del Vallone, che per molti anni era stato l’esponente di punta della classe dirigente locale, e quale vuoto politico avesse lasciato anche tra il ceto umile della città. Oggi ne rimane testimonianza in due busti conservati rispettivamente nella sede della Società operaia in Via Umberto I e nell’atrio del Liceo Artistico di Via Gaetano Martinez (opera di Numa Ghinelli) e in due lapidi, una nel Palazzo della cultura ed un’altra nell’atrio del Liceo Scientifico e Linguistico “Antonio Vallone”, che quest’anno festeggia il 50° anniversario della sua fondazione (i festeggiamenti sono previsti per il pomeriggio del 19 ottobre). V’è poi un bassorilievo in gesso nel Museo civico “P. Cavoti” e una strada a lui intitolata nel centro cittadino. Ricordo infine che, alla morte del Vallone, gli fu intitolato l’ospedale di Galatina.
Nel breve spazio di questa Segnalazione bibliografica, certo non potrò dire chi era Antonio Vallone, ma forse potrò fare utile cosa al lettore, fornendogli alcune indicazioni, che, se egli vorrà, potranno condurlo alla scoperta del personaggio, del quale, nel prossimo 7 febbraio, ricorrerà il 100° anniversario della morte.
Pubblicato in Anniversari, Necrologi, Commemorazioni e Ricordi
Contrassegnato Gianluca Virgilio
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# noino! Giornata mondiale per l’eliminazione della violenza contro le donne – Galatina, 24 novembre 2024
Pubblicato in Avvisi locandine e comunicati stampa
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I tria corda di Gino Giovanni Chirizzi
di Mario Spedicato
Tria corda è il titolo di un sonetto che illumina più di un’autobiografia ragionata i solidi riferimenti esistenziali di Gino Giovanni Chirizzi. Nel redigere queste note l’abbiamo riletto (cfr. Canti di una vita, 2023 quarta di copertina) per focalizzare, senza disperderci in discorsi astratti, il percorso intellettuale al fine di spiegare la miscellanea di studi che la Società di Storia Patria di Lecce ha voluto donare ad un socio meritevole e degno di entrare nel pantheon della cultura salentina. In questo sonetto Chirizzi confida al lettore i “tre ardenti amori intensi e saldamente radicati” che vivono dentro di lui, fornendo “sostegno all’esistenza e fertil dignità ad ogni azione”. Li ricorda questi tre “cuori” a partire dall’Epiro “con i boschi sconfinati, le rocce, l’indomabile avvenenza” riconosciuta come la terra dei suoi avi, poi “l’aperto ed ospital caldo Salento, approdo dei fuggiaschi generoso, dimora familiare, forte terra” ed infine “la cara Capodistria, struggimento tenace ed istintivo, doloroso, da lei mi separò la triste guerra” per ricordare il luogo di nascita costretto ad abbandonare in seguito al secondo conflitto mondiale. Una triade che segna le sue vicende umane e nello stesso tempo il carattere apolide del suo incessante impegno nella ricerca storica e nella declinazione letteraria dei suoi testi poetici.