Marcello Toma, Due pennellate ispirate da “La città e le sue mura incerte” di Murakami


Gouache su cartoncino
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Incontro con Antonio Tabucchi

di Antonio Lucio Giannone

Antonio Tabucchi (Pisa, 1943 – Lisbona, Portogallo, 2012) è stato uno degli scrittori più significativi degli ultimi decenni del Novecento e dei primi anni Duemila, ma ha svolto anche un’intensa attività di studioso della letteratura portoghese, che ha insegnato presso l’Università di Siena,  di traduttore, in particolare di Fernando Pessoa, e di notista politico. Il suo romanzo più famoso è Sostiene Pereira (1994) da cui venne tratto un film di grande successo diretto da Roberto Faenza e interpretato  da Marcello Mastroianni nella parte del protagonista. Come è noto, Pereira è un anziano giornalista e l’azione si svolge in un mese d’estate del 1938 a Lisbona durante la dittatura di Salazar. La storia è quella della progressiva presa di coscienza da parte di Pereira del proprio ruolo sociale e della propria dignità umana e culturale, attraverso la conoscenza del giovane amico Monteiro Rossi, oppositore del regime, che verrà ammazzato dai sicari del dittatore, e il cui omicidio verrà denunciato proprio da lui.

Tabucchi era legato al Salento dove veniva spesso in villeggiatura. In particolare, amava il mare del Salento e la costa che va da Castro a Otranto. In una intervista pubblicata sul “Quotidiano di Lecce” il 24 aprile 2004, realizzata da Claudia Presicce, lo scrittore confessava di nutrire un “grande affetto” per questa terra che frequentava “da tempi non sospetti, per via di ‘antiche amicizie’ leccesi”. Rispondendo poi a una domanda dell’intervistatrice a proposito di ciò che gli piaceva, più in generale,  della Puglia, così diceva:

“La Puglia mi piace per tanti motivi, per le sue tradizioni culturali, per il mio affetto per la tradizione classica, per la Grecia e dunque per la grecità della Puglia. E mi piace vedere come gli stessi pugliesi stiano riscoprendo  questa grecità. In questo momento di globalizzazione essa ha costituito un ìncentivo  per ritrovare le proprie radici, la propria cultura. Apprezzo molto il fatto che i pugliesi stiano rifrequentando con questo affetto quella che è la base della civiltà mediterranea. E a questa civiltà, sento di appartenere anch’io. Inoltre devo aggiungere un aspetto antropologico: oggi si parla sempre di ‘gente’ come di qualcosa che non ha più un volto. Qui è bello scoprire sempre che a gente ha un volto e il fatto che sia molto riconoscibile è per me motivo di conforto. Ci sono poi tanti altri aspetti, le bellezze del paesaggio, la dolcezza della terra, le sue qualità gastronomiche, tante cose che rischierebbero di sembrare luoghi comuni, ma che sono invece vissuti da parte mia con mota adesione, in modo autentico”.

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Taccuino di traduzioni 11. Leonida di Taranto

di Antonio Devicienti

La nascita di Leonida si colloca intorno al 315 a. C. Dopo che Taranto fu conquistata dai Romani (272 a. C.) probabilmente il poeta andò vagando tra varie località della Grecia e dell’Asia; è anche probabile che morì in tarda età senza mai rivedere Taranto.

Poeta essenzialmente epigrammatico, i suoi testi sono giunti a noi grazie all’Antologia Palatina (silloge di epigrammi attribuiti a una cinquantina di poeti greci e compilata a Bisanzio nel X secolo d. C.).

L’epigramma è un breve componimento di carattere dedicatorio, encomiastico e, spesso, funerario (ma non mancano epigrammi erotici), caratterizzato da arguzia ed efficacia espressiva.

L’epigramma di Leonida tarantino si contraddistingue per la maestria con cui vengono impiegate le figure retoriche e di suono e per la scelta tematica: si va, infatti, dall’autobiografismo (il poeta parla di sé come uomo privo di mezzi e costretto a spostarsi di terra in terra) alla rappresentazione di umili persone d’estrazione popolare, alla descrizione paesaggistica.

Ho scelto alcuni testi nei quali il poeta medita sulla brevità e sulla fragilità dell’esistenza umana, altri in cui descrive vite umili o segnate da un destino particolare; in un testo Leonida rende omaggio al poeta Ipponatte, noto per i suoi versi particolarmente pungenti e fortemente satirici, in un altro compie, in forma poetica elegante e raffinata, un atto usuale nel mondo greco antico, ossia quello di dedicare un oggetto (anche umile) a una divinità.

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Le contraddizioni delle politiche repressive della Destra in materia di immigrazioni

di Guglielmo Forges Davanzati

La paura della sostituzione etnica, alla quale ha fatto riferimento il Ministro Lollobrigida seguito, più di recente, dal Ministro Valditara, ha due caratteristiche: non ha fondamento razionale (nel senso che è una pulsione che non regge all’analisi dei costi e dei benefici, per le ragioni che vedremo a seguire) e rientra nel novero delle profezie che si auto-avverano. Uno dei massimi studiosi delle discriminazioni razziali – lo svedese Gunnar Myrdal, autore, nel 1944 dell’opera An American Dilemma: The Negro Problem and Modern Democracy – osservava che il razzismo (riferendosi alla discriminazione nel mercato del lavoro statunitense degli immigrati africani negli anni cinquanta), e il suo correlato nativista (la tesi della superiorità morale e produttiva dei nativi) origina da pulsioni, istinti, paure, false credenze sulla “normalità”, che, tuttavia, nel momento in cui si realizzano, si perpetuano spontaneamente acquisendo, nel tempo, un fondamento logico o plausibile. Un esempio utile per comprendere il meccanismo ipotizzato da Myrdal è il seguente: la discriminazione espelle dal mercato del lavoro o tiene basse le retribuzioni di individui appartenenti a date etnie, del tutto indipendentemente dalle loro competenze; questi individui tendono a reagire, per effetti di scoraggiamento o, per converso, di conflittualità, non intenzionalmente, in modo tale da rafforzare la convinzione – in coloro che li discriminano – della razionalità della loro azione. Ad esempio, osserva Myrdal, gli immigrati discriminati tendono a vestirsi in modo inappropriato rispetto agli standard richiesti per ottenere un posto di lavoro, date le convenzioni prevalenti, avvalorando la convinzione che siano meno affidabili – e meno produttivi – dei nativi.

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Sugli scogli 24. Poesie 2. Lasciatemi qui, sul mare

di Nello De Pascalis

Foto di Annie Gamet

Ho sfidato il vento

e i giorni della merla,

tuttora apro sentieri sulla costa

e vi sverno.

Lasciatemi qui, sul mare,

ove i profumi della notte

mi stordiscono

e il godimento è pieno.

Del mio paese, a quest’ora

la bruma bagna il selciato,

un roteare d’auto

ammorba piazza Alighieri

e fanciulle svelte

come gazzelle, vanno.

Chissà tu, adesso.

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Gaetano Minafra, Arte sacra 16. Deposizione

Pastelli a olio, acquerello e grafite su carta, cm. 100 X 70, 1966.
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Intervista a Pupi Avati: la mia pace parlare con i morti

di Adele Errico

Nell’ultimo romanzo di Pupi Avati, “L’orto americano” (Solferino 2024), la vicenda ha inizio da uno sguardo nella bottega di un barbiere. Un giovane che sogna di diventare scrittore incrocia lo sguardo di un’ausiliaria americana. “Archetipo di tutti gli sguardi”, quello che fa innamorare. “Così comincia l’amore di un ventenne nella Bologna appena liberata dagli alleati”. Con addosso le voci dei morti che non lo abbandonano mai, l’aspirante scrittore, pochi anni dopo quello sguardo, partirà per l’America e la sua avventura si intingerà dei colori del gotico.

Come accade con il suo ultimo film, “L’orto americano”, ha spesso legato la scrittura di un romanzo alla produzione cinematografica. Qual è, nel suo lavoro, il rapporto tra scrittura e cinema?

Credo che sia un passaggio logico perché in realtà tutto il cinema narrativo che faccio parte da un racconto. Voglio che assomigli a qualcosa che dovrebbe avere un’origine orale e non scritta, qualcosa che possa essere raccontato come una favola. Nella scrittura è possibile indugiare su aspetti che nel film verranno solo dedotti e non scritti, i pensieri dei personaggi ad esempio. Scrivere un romanzo significa avere la possibilità di dilatare il racconto anche oltre i limiti del budget, che non sempre consente di mettere in scena quanto scritto: il cinema si confronta continuamente col denaro, invece la scrittura non ha budget, è la fantasia che la alimenta. Il potere di disporre di un romanzo da poter consegnare agli interpreti e a tutti coloro che collaborano alla produzione di un film mi esenta dal dover spiegare troppo, perché il romanzo contiene tutto quello che la sceneggiatura non può contenere e l’interprete ha a disposizione tutte le informazioni di cui ha bisogno. C’è qualcosa che va oltre.

Nell’orto americano c’è una vecchia madre. Mi viene in mente l’ultimo ricordo che John Fante diceva di avere della propria, ovvero “il ciabattare di mia madre verso la cucina”. Che ricordo ha di sua madre? Qual è l’immagine di lei che ricorre più spesso nella sua memoria?

L’ultima immagine che mia madre mi ha lasciato appartiene, probabilmente, alla volontà di stigmatizzare se stessa. Mia madre stava soffrendo molto, era malata. L’avevano dimessa definendola guarita, eppure continuava a soffrire. Ed era arrabbiata, perché aveva la convinzione di morire. Si intuiva dal fatto che era rancorosa perché sapeva che se ne sarebbe andata. Allora la ricordo così: io ero seduto su una poltrona di fronte a lei e le tenevo braccia e mani. Lei si è assopita e poi si è svegliata all’improvviso, mi ha guardato e mi ha fatto un sorriso che mi ha totalmente tranquillizzato. Poi ha chiuso gli occhi ed è morta. Era come se volesse riservare a me solo quel sorriso, in quell’ultimo istante. Voleva che io la ricordassi così.

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Un Convegno urbinate su Bruno Gentili

di Pietro Giannini

Il 20 e 21 novembre si è tenuto a Urbino un Convegno su Bruno Gentili a 10 anni dalla morte, avvenuta a Roma il 7 gennaio 2014, e nell’anniversario della nascita, avvenuta a Valmontone il 20 novembre del 1915. Il titolo del Convegno è abbastanza eloquente: “Urbino ricorda Bruno Gentili. Eredità e prospettive”. Il Convegno voleva essere dunque in primo luogo un atto di omaggio a Bruno Gentili, che è stato professore ordinario di Letteratura greca presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di quella Università (i particolari storico-biografici nelle voci di Wikipedia e della Enciclopedia Treccani), senza dimenticare che per alcuni anni fu anche docente presso l’Università di Lecce (ora Università del Salento), lasciando una forte traccia negli studenti che frequentarono le sue lezioni. Nella sua lunga attività presso l’Università di Urbino egli costituì, insieme a Carlo Bo, una colonna portante degli studi letterari, segnatamente nel campo classico, tanto che nel giro di pochi anni Urbino, la cui Facoltà di Lettere fu istituita nel 1956, acquisì, per merito di Bruno Gentili, fama internazionale e divenne polo di attrazione per molti studenti e studiosi, anche stranieri, attratti dalla novità delle sue ricerche che, fondate su un rigoroso metodo filologico, si proiettavano verso metodologie attinte dalle moderne scienze linguistiche e sociali. Ne sono testimonianza due iniziative, tra le tante, dovute a lui: il “Centro di studi sulla lirica greca e sulla metrica greca e latina” e la Rivista “Quaderni Urbinati di cultura classica”, ancora attiva.

Ma, come recita il titolo, il Convegno aveva anche la finalità di parlare della “eredità” e delle “prospettive” del suo insegnamento. A ciò sono state dedicate le diverse relazioni che hanno toccato molti (non tutti) dei temi da lui trattati nel corso della sua lunga attività scientifica. Dal momento che i relatori sono stati in contatto diretto con Gentili, le relazioni hanno avuto due componenti: una di ricordo personale, l’altra di approfondimento critico che ha mostrato come gli insegnamenti di Gentili hanno fruttificato in ciascuno. Tenendo conto di ciò, cercherò di riassumere brevemente il contenuto dei vari contributi agganciandoli alle tematiche generali in cui il Convegno si è articolato (i dati completi nella locandina allegata).

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Presentazione de “Le storie dello scirocco” di Paolo Vincenti – Casarano, 5 dicembre 2024

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Quell’estate della vita in cui si diventa grandi

di Antonio Errico


James Ensor, L’entrata di Cristo a Bruxelles nel 1889, 1888, olio su tela, c
m 253×431, Getty Museum, Los Angeles.

Quando raccontava questa storia aveva quarant’anni.  Da ventidue sognava con una frequenza costante, quasi una volta al mese, quel tema da fare su Pirandello e i significati delle sue maschere. Che cosa significassero le maschere per Pirandello lui l’aveva studiato, lo sapeva bene. Però se ne stava lì, con lo sguardo sprofondato nel vuoto del deserto sterminato e bianco del foglio a righe, mentre una folla di maschere prendevano forma nella sua testa, e tra quelle maschere c’era il suo volto: dilatato, deformato, come in un dipinto di James Ensor.

Davanti a lui, dietro di lui, accanto a lui, gli altri scrivevano, scrivevano, senza alzare la testa dal banco, e ogni tanto, nel sogno, chiedevano un foglio, ancora un altro foglio, e poi un altro, e i fogli cadevano per terra, si accumulavano tra le due file di banchi e poi un uomo si alzava da una cattedra all’inizio del corridoio, del corridoio lungo e stretto, del corridoio senza una finestra,  un uomo stempiato, con il pizzo grigio, si alzava dalla cattedra e si avvicinava al suo banco, gli diceva Pirandello sono io, perché non scrivi, guardami, perché non scrivi, Pirandello sono io.

A quel punto si svegliava, con il respiro affannoso, madido di sudore.

Una mattina, dopo aver fatto il sogno, si alzò, telefonò in amministrazione, prese un giorno di ferie, uscì, dal tabaccaio comprò sei fogli usobollo, tornò a casa, si mise alla scrivania. In testa al foglio scrisse: Pirandello e i significati delle sue maschere.

Cominciò a scrivere. In sei ore precise fece il tema. Otto facciate, un rigo sì e uno no, direttamente in bella. Uno spettacolo di tema.

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Johann Georg Wirsung, scopritore del dotto pancreatico nell’uomo

di Rocco Orlando


Particolare dell’opera su tela raffigurante Johann Georg Wirsung, Sala dei Quaranta del Palazzo del Bo a Padova.

     Johann Georg Wirsung, italianizzato in Giovanni Giorgio Wirsung, è stato un medico, anatomista, chirurgo tedesco, noto principalmente per essere stato lo scopritore del dotto pancreatico nell’uomo. 1

B. Gonzati 2 (vol. 2, p. 269)  scrive: “Giangiorgio Wirsung, nobile patrizio di Monaco aveva appreso l’arte anatomica, in cui riuscì tanto valente, dal celebre professore Giovanni Veslingio 3 Ma non contento di rimanere là dove l’aveva condotto il maestro, andò più innanzi di lui; e nel 1642 pubblicava per le stampe l’importantissima scoperta del condotto pancreatico, aggiungendo alla sua descrizione un’incisione in rame fatta da lui medesimo nella quale arte era peritissimo”. E Gonzati riporta che la famiglia aveva per stemma “uno scudo con soprascudo. Quello nel primo e quarto punto è inquartato d’una foglia, nel secondo e nel terzo d’una cicogna; questo reca un albero che vi è posto eziandio per cimiero”.

     Dopo la sua morte, avvenuta il 22 agosto 1643, fu seppellito nel chiostro del Capitolo dove oggi si trova una lapide, vicino all’ingresso del Convento del Santo e che recita: Johanni Georgio Wirsung, monacensi bavaro, philosophiae et medicinae doctori, anatomico sollerti, dum publicae saluti excubat, immiti obitu ante diem functo, XXII AUGUSTI MDCXLIII, aetat. XLIII. Nat. German. Philos. Medic ac theolog. auspiciis. Consil: Wernero Ladinges Bremensi. Haeredes posuerunt. Curante: Rocco de Rubeis Tridentino.

     A Giovanni Giorgio Wirsung, bavarese di Monaco, dottore in filosofia e medicina, solerte anatomista, mentre si dedicava alla salute pubblica, stroncato da morte crudele troppo presto, il 22 agosto 1643, a 43 anni. Sotto gli auspici degli studenti di filosofia, medicina e teologia della nazione germanica con a capo il consigliere Ladigens di Brema; gli eredi posero questo cenotafio. Ne curò l’erezione Rocco de Rossi, trentino.

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Manco p’a capa 230. Il politicamente corretto instupidisce l’homo sapiens

di Ferdinando Boero

Non amo i film di Paolo Villaggio, eccetto uno: Sistemo l’America e torno, una storia sul razzismo. Villaggio viene spedito in America (USA) per prelevare un cestista nero; lo deve portare in Italia per un ingaggio in una squadra italiana. Il nero è una testa calda e, seguendolo, Villaggio, pur vedendo il modo infame con cui la società statunitense tratta i neri, si arrabbia per le intemperanze dell’atleta, che lo portano addirittura in prigione. Si capisce il senso del film quando, durante il colloquio tra i due, in galera, il nero dice: Tutti i bianchi sono razzisti, anche quelli che credono di no. Giustificare noi sempre. Giustificare tutto è razzismo. Tu mi hai detto stronzo e mi hai detto ti spacco il muso. Allora tu non più razzista. Ti ringrazio.
Il film di Nanni Loy, del 1974, oltre al razzismo, ci mostra la pelosità della correttezza politica che, già allora, iniziava a fare capolino e che oramai pervade il nostro vivere quotidiano.
Alla radio un’annunciatrice dice “tutti, tutte e tutt”, la versione vocale di tutt. La sensibilità LGBTQ+ mi rimanda alla scena di Brian Di Nazareth, dei Monthy Python, in cui, durante una riunione del Fronte popolare di Giudea, un attivista parla del diritto inalienabile di ogni uomo… e un altro aggiunge, o donna, per diverse volte, ogni volta che sente la parola uomo. La precisazione viene ringraziata con un grazie fratello a cui viene subito aggiunto: o sorella. A un certo punto il capo del gruppo si spazientisce e gli dice di piantarla e, per tutta risposta, il precisatore di generi, apparentemente un uomo, di nome Stan, dice di voler essere donna, chiede di essere chiamato Loretta e di volere dei bambini. E’ suo diritto di uomo, o donna, averne. Il suo volere bambini è una lotta contro l’oppressione dei romani. Il capo del gruppo clandestino, spazientito, gli dice che è una lotta contro la realtà, visto che, non avendo l’utero, non avrebbe un posto dove far crescere il figlio che tanto vorrebbe: lo fai crescere in un barattolo? Precisazione: ognuno ha diritto di parlare come vuole, di fare quel che vuole (senza infrangere la legge, ovviamente) ma penso che questo debba valere per tutti.

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Dove (where)?

di Paolo Vincenti

“Ultimamente, i termini britannici vanno per la maggiore, vocaboli come yes, okkey, rapunzel, brunch, waterclòs sono sempre più utilizzati da coloro (color) che (that) pur essendo (too being) italiani (italians) vogliono (want) darsi (give themselves) un (one) tono (tune) internazionale (international). Ad essi va detto: ma va’ là, pirletta”.  (Parla come mangi – Elio e le storie tese)

Il rischio è che qualcuno scambi la mia per una battaglia di retroguardia o, peggio, revanscista, in tempi di conservatori al governo, oppure per una crociata in difesa dell’identità nazionale. Niente di tutto questo. È solo il mio solito disappunto per l’oltraggio alla lingua italiana, messa a duro cimento, nell’era social, dal linguaggio di whatsapp, instagramm e twitter. È che chi conosce solo le 700 parole necessarie alla sopravvivenza ne utilizza ormai almeno la metà in inglese. Non si tratta di autarchia linguistica, per carità. Chi scrive non ha nulla contro la lingua dei britannici, anzi io ritengo l’inglese una delle lingue più belle del mondo. Però est modus in rebus. Rapidissima e rapsodica carrellata per chi è duro di comprendonio: perché breakfast per colazione? perché dire cash per denaro contante? Perché finger food per gli stuzzichini ed happy hour per aperitivo? Perché apple pie per torta di mela? Oppure homeless per senza tetto? Perché meeting per incontro? Community per gruppo? Self enpowerment per stima di sé? Perché brainstorming per dibattito, riunione, confronto? Featuring per duetto? Dres code per codice di abbigliamento? Plan per programma? Business per affari? Food and beverage per ristorazione? All inclusive per tutto compreso? Sentiment per disposizione d’animo? Free per libero? Sold out per tutto esaurito? Mission per obiettivo? Vision per strategia, aspirazione? Enterprise o undertaking per impresa, azienda? Booking per prenotazione? Show cooking per cucina dal vivo? Shooting per servizio fotografico? Location per luogo? Mi fermo qui.

Ma non va meglio neanche se si fa a meno dell’inglese.

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Marcello Toma, Haiku


Olio su tela / oil on canvas, 62x40cm, 2022.
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Il Salento delle leggende. Misteri, prodigi e fantasie nell’antica Terra d’Otranto

di Antonio Mele ‘Melanton’

Quando muoiono le leggende finiscono i sogni. Quando finiscono i sogni, finisce ogni grandezza.

Gli amici.

Se non ci fossero loro, neanche noi saremmo come siamo. Senza amici saremmo persone altre. Diverse. Dimezzate. Gli amici ci completano, tanto quanto noi completiamo loro. In una sorta di mutua protezione e di sviluppo etico, sociale, affettivo, istruttivo.

Un sentimento, l’amicizia – quella vera e forte, naturalmente -, che è antico quanto l’uomo, e comunque fondante di tutte le civiltà. Nella nostra tradizione classicheggiante è emblematica, ed anzi proprio mitica, l’amicizia tra Oreste e Pilade, narrata da Euripide («Gli amici che nella sfortuna non si dimostrano tali, sono amici solo di nome, e non di fatto»), poi celebrata da Ovidio, Cicerone, e perfino dal sommo Dante nel canto XIII del Purgatorio.

Nello specifico ambito culturale e civile salentino ricorderemo ancora una volta il bel monito che ingiunge verso l’amico un affetto sincero e incondizionato: «Ama l’amicu tou cu lu viziu sou». Riconoscendo, tacitamente, che nessuno è perfetto. E noi per primi. 

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Barocco leccese (quattro prose)

di Antonio Devicienti

GIUSEPPE ZÍMBALO

È un’idea di spazio, un salire lungo tese tele (ma di pietra) da ricamare a scalpello.

Ricamavano le donne nelle loro case lenzuola e biancheria fiori putti e ninfe a rincorrersi sopra candide stoffe. (Forse non è così ma) egli (bambino) vedeva quell’andirivieni di aghi e di fili, (adulto) ebbe la visione di stoffe di pietra da ricamare con la sapienza dello scalpello.

Dietro le tele di pietra ricamata antevide spazi mossi in archi, colonne tortili, finestroni.

Li disegnò, consegnò al capomastro i fogli mentre già s’inoltrava nel cantiere eretto e aperto indicando con la mano distesa le giunture tra vuoto e pieno, tra convessità e concavità, tra cuore e intelletto.

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Gallipoli nell’Europa dell’età dei lumi. Filippo Maria Briganti nel terzo Centenario della nascita – Gallipoli, 2 dicembre 2024

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Parole, parole, parole 38. Cambiano i tempi, la lingua si adegua

di Rosario Coluccia

«After all, tomorrow is another day», ‘Dopo tutto, domani è un altro giorno’, così dice a sé stessa fuoriuscendo dai singhiozzi e dalle lacrime con una luce di speranza che le brilla negli occhi la splendida Vivien Leigh che è stata appena abbandonata dal fascinoso Clark Gable. Sto parlando, come tutti hanno capito, della scena finale di uno dei film più famosi di tutti i tempi, Gone with the wind (Via col vento nella traduzione italiana), in cui Vivien Leigh interpreta la capricciosa e volubile Scarlett O’Hara e Clark Gable il personaggio di Rhett Butler, stufo del comportamento incostante della donna, a cui alla fine dichiara «Frankly, my Dear, I don’t give a Damn», ‘Francamente, mia cara, me ne infischio’, reagendo così alle parole di Scarlett che lo supplica di restare ancora con lei.

Domani è un altro giorno, quella battuta è diventata comunissima: è il titolo di una canzone della meravigliosa Ornella Vanoni, di un film del 2019 diretto da Valerio Spada con Valerio Mastandrea,  Marco Giallini e altri; la sentiamo ripetere in situazioni in cui apparentemente niente di buono potrebbe più accadere ma invece c’è sempre speranza, speranza per un giorno migliore e per una nuova alba, come si ripete Scarlett aprendosi alle possibilità del futuro. Il film è la trasposizione cinematografica di un romanzo di quasi mille pagine di Margaret Mitchell, dato alle stampe nel 1936, premiato con il Premio Pulitzer nel 1937, che in poco tempo raggiunse il milione di copie vendute. Margaret Mitchell fu autrice di grande personalità, che seppe dar vita all’immortale Scarlett, brillante, bella, opportunista e senza scrupoli, le cui vicende si muovono sullo sfondo della Guerra di Secessione e della situazione che venne a determinarsi dopo la vittoria del Nord:  tramonto del Sud e di quella società nello stesso tempo raffinata e schiavista, che alla fine della schiavitù in gran parte continuava a pensare che tutto sommato i «negri» stavano meglio prima, nella precedente condizione di schiavi.

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L’ostacolo del “fabulare”. La finzione autobiografica dantesca nell’opera volgare dell’Alighieri. Capitolo XII. Purg. XXX: “… e diessi altrui”

di Gianluca Virgilio

Purg XXX è uno dei pochi canti del poema dantesco la cui lettura consente di sostare lungo l’itinerarium ad Deum e di considerare la figura del personaggio-Dante nei suoi rapporti col narratore e coll’autore. Siamo nella selva del paradiso terrestre, la selva antica, e abbiamo già visto sfilare la mistica processione. Virgilio è uscito di scena, e in tripudio di fiori e di canti è comparsa Beatrice. Il tono del racconto è molto alto, sublime, come si addice ad una situazione fortemente drammatica. Dante, perduto il suo maestro, si sente ricondotto in uno stato di solitudine, tanto simile a quello della Vita Nuova[1], da cui lo risolleva un ben più severo maestro:

“Dante, perché Virgilio se ne vada,

non pianger anco, non piangere ancora;

ché piangere ti conven per altra spada”

(55-57)

È facile ravvisare, dietro la durezza e la perentorietà di queste parole, il fren dell’arte dell’Alighieri, specialmente se si considera che quelle parole fanno seguito alla sequenza lirica dei vv. 22-33 (“Io vidi gia…”), “cuore palpitante dell’intero narrato dantesco della Commedia[2], alla reazione del protagonista alla comparsa di Beatrice (“E lo spirito mio…”) in cui l’Alighieri ripropone “uno schema ostentatamente mnemonico”[3], e alla contemporanea scomparsa di Virgilio (“Ma Virgilio n’avea lasciati scemi…”). Altrettanto dura e, direi, militaresca, la figurazione cui, con una similitudine, il poeta delega l’entrata in scena di Beatrice:

“Quasi ammiraglio che in poppa ed in prora

viene a veder la gente che ministra…”

(58-59).

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Gaetano Minafra, Arte sacra 15. Madonna

Frammenti in pietra leccese decorati con pastelli acquarellabili; corona in ottone, decorazioni in metallo; il fondo è stato realizzato con colori acrilici e fasce di ottone colorate. cm 60 X 60, anno 2013.
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