Inchiostri 136. Ferrovia

di Antonio Devicienti


La foto è di Giovanni Chiaramonte e appartiene alla serie Nascosto in prospettiva, Stazione (2007).

Dalla ferrovia il retro delle case, gli orti, lo scarto tra scarpata e recinzioni.

Istanti subito scomparsi nella corsa: due sul terrazzo, panni stesi ad asciugare, un triciclo abbandonato.

L’andare del treno e il restare delle case e degli orti, degli alberi e dei pali.

Lo scorrere dello sguardo e il dissolversi delle case e degli orti, delle piante e degli incroci.

Un prete attende al volante la riapertura delle sbarre al passaggio a livello, un uccello spicca il volo spaventato, un sacchetto di plastica si agita impigliato a un ramo, l’ombra del convoglio si stampa sul muro di cemento, l’andare del treno è anche elenco di cose, situazioni, istanti. Vuoti. Intervalli. Cesure.

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“Carlo e Francesco Barbieri e il sodalizio con Ennio Flaiano” – San Cesario di Lecce, 19 novembre 2024


Incontro “Carlo e Francesco Barbieri e il sodalizio con Ennio Flaiano”
Si tiene martedì 19 novembre alle ore 18 , al Museo Civico di San Cesario di Lecce, l’incontro “Carlo e Francesco Barbieri e il sodalizio con Ennio Flaiano”, a cura del Centro Studi Phonè e di Astràgali Teatro.
Attraverso l’intervento del professor Antonio Lucio Giannone, docente di Letteratura italiana contemporanea presso l’Università del Salento , si ripercorre il rapporto stretto che legava i fratelli Carlo e Francesco Barbieri, originari di San Cesario di Lecce, allo scrittore e sceneggiatore Ennio Flaiano.
L’appuntamento fa parte della programmazione “Il Museo parla con la città. Percorsi di apertura del Museo Civico d’arte contemporanea di San Cesario”, rientrante nel progetto “Da qui si vede tutta la città”, finanziato con risorse del Fondo per lo Sviluppo e la Coesione 2014-2020 e del Fondo Nazionale Politiche Giovanili e vincitrice del bando regionale “Luoghi comuni”, Programma delle Politiche Giovanili della Regione Puglia e ARTI.
Museo Civico – San Cesario di Lecce Ingresso gratuito
Info: 3892105991 – teatro@astragali.org – www.astragali.it
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Seminario sull’autonomia differenziata – Comune di Avetrana (TA), 12 ottobre 2024

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Manco p’a capa 229. Una democrazia da scolari di seconda media

di Ferdinando Boero

In democrazia la maggioranza vince, ma non è detto che faccia la scelta giusta. Molti, troppi votanti tendono a credere a chi dice loro quel che vogliono sentirsi dire; mantenere i propositi, poi, è opzionale. Se non si riesce si incolpano gli altri: io avrei tanto voluto, ma non me lo hanno lasciato fare. E così chi fa false promesse continua ad aver credito.
La verifica dei fatti smaschera chi abusa della credulità popolare. Chi si propone dovrebbe produrre una tabella di marcia che dichiari la tempistica del mantenimento degli obiettivi, in modo da verificare se siano stati raggiunti. Un candidato con un tasso del 10% di raggiungimento degli obiettivi dovrebbe essere ritenuto non idoneo a governare, rispetto a chi ha raggiunto il 40%. Se ce ne fosse qualcuno con l’80% non ci dovrebbero essere dubbi. Da chi vi fareste operare? Da un chirurgo che ha il 10% di successi o da chi ha l’80%? Per il vostro bene vi dovrebbe essere impedito di scegliere il dr 10%.
Fosse così semplice! Nel nostro paese l’evasione fiscale è galoppante: ci sono tantissimi evasori fiscali. Se un politico favorisce gli evasori con ripetuti condoni, e definisce le tasse un’estorsione di stato, gli evasori lo sceglieranno. E se gli evasori, il suo elettorato di riferimento, sono tantissimi (da noi lo sono) vincerà le elezioni democratiche. Soprattutto se i fessi che pagano le tasse saranno così fessi da non andare a votare i partiti che non fanno condoni.

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All’ombra delle lettere in fiore…

di Antonio Prete

                                                                         per Gérard Macé

               Le sibilanti vestivano la voce di mia madre, erano le gemme della sua collana. Pali luminosi per l’altalena delle vocali : un frusciare di venti, e il racconto era la vela nel mare della sera, quando seduto su un muricciolo, dinanzi alla persiana verde, ascoltavo le storie che venivano dall’Oriente, le storie che avevano attraversato terre e mari e avevano portato con sé il profumo delle lingue incontrate nel loro peregrinare. Quel profumo diventava l’onda sulla quale riandavo verso quelle terre, verso quei mari, mentre la voce saliva e scendeva nella sua musica, dilatava una vocale fino a farla diventare una nuvola, e si abbracciava al suono d’una consonante come a un tronco d’albero per riposarsi dopo il  cammino. Quella voce scendeva e correva  nei miei pensieri come l’acqua nel solco delle zolle secche, si spandeva fino alle radici dell’esile pianta, così quei racconti me li sono portati con me insieme con quella voce, che era grana e respiro e vento delle parole, delle storie fatte di parole.

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Fototessere

di Paolo Vincenti

Da vecchi cassetti polverosi salta fuori una mia fototessera scattata in una cabina londinese in un viaggio di troppi anni fa. Ero poco più che un adolescente alla scoperta del mondo e infatti il mio sguardo allucinato, nello scolorito reperto, testimonia tutto lo sconcerto misto all’entusiasmo di trovarsi nella megalopoli inglese. Del resto, avevo appena diciott’anni e di viaggi, fino ad allora, ne avevo fatti molto meno dei miraggi. Roma in gita scolastica di terza media, forse qualche Zoo Safari di Fasano e Grotte di Castellana o al massimo sassi di Matera, e Budapest alla gita dell’ultimo anno di liceo. Poca roba, proprio il minimo sindacale, davvero miseri viaggetti. Appena in culla, i miei figli ne avevano già fatti di più.

Comunque la fototessera, definita la madre di tutti i selfie, è ormai un residuato bellico. Oggi, le vecchie polverose cabine, un tempo note come Photomaton, divenute digitali e high tech, sono gestite da un’azienda italiana, la Dedem, di Ariccia (Roma), che produce e distribuisce le macchinette in tutta Europa e nel mondo. Le foto vengono inviate dal telefonino e stampate direttamente dalla cabina in pochi secondi (contro i tre minuti che ci impiegavano quando le utilizzavamo noi boomers), con grande comodità e utilità. Ora, saranno le foto high tech più belle rispetto alle vecchie foto analogiche? O non reggono il confronto? Probabilmente ognuno risponderà in base all’anagrafe. I ragazzini della generazione zeta si faranno una risata già alla domanda. I più stagionati come me saranno nel dubbio fra la morsa della analogica nostalgia e l’innegabile efficienza e la maggiore praticità del digitale. Gli amatori, i collezionisti e i cacciatori di memorabilia si pronunceranno certo a favore delle foto analogiche per quel romantico sapore di vintage. Io credo che non si possa fare un confronto fra le vecchie ingiallite foto e quelle scattate dallo smartphone. Si tratta di categorie del tutto diverse. Le fototessera poi, occupano un settore di nicchia, certo meno battuto rispetto a quello più vasto delle fotografie propriamente dette e a quello artistico delle foto d’autore. Ogni fotografia è un oggetto di senso, generato dal rapporto fra l’occhio e la mente, secondo la prospettiva semiotica di Jean-Marie Floch, ossia istituisce un rapporto di scambio fra fotografo e fotografato. La foto d’arte ha come valore aggiunto una plurisemanticità del messaggio visivo. Invece, la fototessera non è dinamica, in essa non c’è mediazione umana, men che meno artistica, e si rinuncia a qualsiasi montaggio o interpolazione da parte di un operatore che ci scatti una fotoritratto. Non a caso, la fototessera è utilizzata quasi esclusivamente per scopi istituzionali (carta d’identità, patente, passaporto), attiene quindi a quell’ambito così poco creativo che è la burocrazia nelle cui maglie tutti siamo attanagliati ogni giorno. Una volta però, e la mia foto londinese è lì a confermarlo, essa poteva avere anche uno scopo ludico, senza alcuna utilità pratica.

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Marcello Toma, Nemesi


Olio su tela, 70×50 cm, 2022.
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Perché conviene potenziare il sistema portuale meridionale

di Guglielmo Forges Davanzati

Uno dei più importanti economisti meridionalisti del primo Novecento, Francesco Saverio Nitti, deputato dal 1904, Presidente del Consiglio dei Ministri nel biennio 1919-1920, ebbe a scrivere che sarebbe un’”illusione pericolosa” quella di ritenere che il Mezzogiorno possa svilupparsi come un “grande albergo o un grande museo”. Nitti fu estensore della legge speciale su Napoli del 1904 che diede vita a un ampio programma di industrializzazione della città e dei territori circostanti, a partire dalla nazionalizzazione della produzione di energia elettrica.

La posizione teorica e politica di Nitti, riassumibile nella convinzione che lo sviluppo economico del Mezzogiorno debba essere guidato dall’industria e soprattutto dall’industria di Stato, è stata alla base dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno, a partire dal 1950, gradualmente abbandonato fino al definitivo superamento nel 1992.

La svolta liberista dei primi anni Novanta, e dunque lo smantellamento dell’economia mista, dell’impresa pubblica e del Welfare pubblico, ha determinato una radicale inversione di tendenza nelle politiche perequative che si prolunga fino ai giorni nostri e che ha generato non pochi danni. In particolare, la reiterazione – negli ultimi trent’anni – di misure di privatizzazione, di precarizzazione del lavoro e di austerità fiscale ha prodotto questi risultati:

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Parole, parole, parole 36. Non è mai troppo tardi

di Rosario Coluccia

Anniversari. Alle 11 del 3 gennaio del 1954, settant’anni fa, la presentatrice Fulvia Colombo lesse dagli studi Rai di Milano il messaggio di inaugurazione delle trasmissioni televisive del Programma Nazionale, l’attuale Rai 1. Fu il punto di arrivo di un processo di sperimentazione faticoso, cominciato più di vent’anni prima e interrotto dalla seconda guerra mondiale. Nel giorno di esordio i televisori accesi (ovviamente in bianco e nero) furono in tutto ottantamila, e gli abbonati non superarono le ventimila unità, anche a causa degli alti costi del servizio: all’epoca il prezzo medio di un televisore era vicino al costo di un’automobile e sfiorava le dodici mensilità del reddito di un impiegato. Inizialmente i programmi duravano quasi quattro ore e la pubblicità non esisteva. Le trasmissioni iniziavano alle 17.30 con «La Tv dei ragazzi», centrale era il telegiornale delle 20.45, alle 23 tutto chiudeva.

Cento anni fa, il 3 febbraio 1924, nasceva Alberto Manzi, figura che, grazie alla trasmissione televisiva da lui condotta, si conquistò una straordinaria popolarità negli anni Sessanta del secolo scorso. Quella trasmissione si chiamava Non è mai troppo tardi e si rivolgeva ad adulti analfabeti per insegnare loro a leggere e scrivere: «Corso di istruzione popolare per adulti analfabeti», così recitava la didascalia che accompagnava il titolo. Iniziato il 15 novembre 1960, il programma andò in onda in diretta alle 18 di ogni martedì, giovedì e venerdì; terminò nel 1968. L’Italia del tempo, uscita da poco dalla guerra, era afflitta da percentuali di analfabeti mediamente superiori all’80%. L’inaccettabile analfabetismo comportava condizioni economiche miserrime per popolazioni in larga maggioranza contadine. Pochissimi sapevano parlare e scrivere l’italiano e, in una vita tutta chiusa in ambiti angusti, comunicavano per lo più oralmente e quasi esclusivamente in dialetto, in uno dei tanti dialetti della penisola, dal Piemonte alla Sicilia.

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Bodiniana secunda

di Antonio Devicienti

(bodiniana secunda 1) il palmizio e la chiesa del Rosario

(NOTA: queste brevi prose ispirate all’opera di Vittorio Bodini presuppongono che chi legge abbia dimestichezza con i libri del poeta – è questo il motivo principale per cui non si forniscono note esplicative e/o di carattere bibliografico. Aggiungo che ogni prosa è stata concepita quale reverente, ammirato omaggio al poeta salentino).

Mentre ci si avvicina a una delle porte dove sembra che Lecce stia per finire (oltre ci sono i viali e c’è un’altra Lecce) la mente ricapitola passi e stratificazioni di passi, cieli scorti tra i cornicioni e stratificazioni di cieli che nulla hanno a che fare col tempo aritmetico dell’orologio.

Il Rosario, che prelude a Porta Rudiae, i palmizi scorti attraverso anditi occasionalmente aperti (innumeri sono i giardini nascosti di questa città) – ma anche viceversa: il Rosario, primo splendore che s’incontra entrando attraverso Porta Rudiae e i palmizi pù o meno celati, tutto questo già contiene, in nuce, la città.

Raramente pensiamo che siamo soltanto gli ultimi di molte generazioni che hanno abitato stanze e animato strade, pregato in chiese fatte non soltanto di pietra porosa e reattiva alla luce, ma anche di tempi del vivere che, patine sottilissime, affiorano nelle pagine dei poeti.

Il palmizio e la Chiesa del Rosario. 

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Citazioni 26. Intelligenza artificiale


Affresco eseguito da assistente (Rinaldo?) su disegno di Giulio Romano, Pasifae entra nella mucca costruita da Dedalo, Palazzo del Te, sala di Psiche, parete est, Mantova, 1528.

“Nel mito di Pasifae, la donna che si fa costruire da Dedalo una vacca artificiale per potersi accoppiare con un toro, è lecito vedere un paradigma della tecnologia. La tecnica appare in questa prospettiva come il dispositivo attraverso cui l’uomo cerca di raggiungere – o di raggiungere nuovamente – l’animalità. Ma proprio questo è il rischio che l’umanità sta oggi correndo attraverso l’ipertrofia tecnologica. L’intelligenza artificiale, alla quale la tecnica sembra voler affidare il suo esito estremo, cerca di produrre un’intelligenza che, come l’istinto animale, funzioni per così dire da sola, senza l’intervento di un soggetto pensante. Essa è la vacca dedalica attraverso la quale l’intelligenza umana crede di potersi felicemente accoppiare all’istinto del toro, diventando o ridiventando animale. E non sorprende che da questa unione nasca un essere mostruoso, col corpo umano e il capo taurino, il Minotauro, che viene rinchiuso in un labirinto e nutrito di carne umana.”

Giorgio Agamben, Il toro di Pasifae e la tecnica, in Una voce. Rubrica di Giorgio Agamben, dell’ 8 luglio 2024

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Incontri con Vincenzo Consolo (prima parte)

di Antonio Lucio Giannone

Vincenzo Consolo (Sant’Agata di Militello, Messina, 18 febbraio 1933 – Milano, 21 gennaio 2012) è uno dei maggiori scrittori italiani della seconda metà del Novecento. Dopo aver esordito con il romanzo La ferita dell’aprile (1963) si è imposto all’attenzione di pubblico e critica con Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976), considerato il suo capolavoro. Poi ha pubblicato, fra l’altro, il lavoro teatrale Lunaria (1985), Retablo (1987), Le pietre di Pantalica (1988), Nottetempo casa per casa (1992), Lo spasimo di Palermo (1998), oltre a saggi, articoli, prose memorialistiche.

Ho avuto il piacere di presentare due libri di e su Consolo, entrambi con la presenza dello scrittore. La prima volta è stata nel 2003, allorché presentai Oratorio, un volumetto pubblicato con l’editore Manni di Lecce. L’incontro si svolse a Calimera il 12 aprile di quell’anno, nell’ambito di una rassegna libraria.

Oratorio comprende due scritti: Catarsi e L’ape iblea. Elegia per Noto. Il primo è un testo teatrale, un atto unico composto per il Teatro stabile di Catania nel 1989 e rappresentato in quella stagione insieme ad altri due lavori di Leonardo Sciascia e Gesualdo Bufalino, compresi sotto il titolo unitario di Trittico. Il secondo è un testo per musica, composto per il musicista Francesco Pennisi che a sua volta aveva ricevuto l’invito di una composizione musicale da parte dell’Orchestra della Toscana e di Radiotre. La composizione venne eseguita nel 1998 al Teatro Verdi di Firenze. E il titolo del volumetto, Oratorio, vuole alludere appunto alla forma particolare in cui sono stati rappresentati questi due testi, senza cioè allestimento scenico.

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Massimo Galiotta, Arte e pensiero critico

Massimo Galiotta
Arte e pensiero critico. Diario di un connoisseur
 
Edizioni d’Arte Dusatti, 2024
 
Il pensiero apparentemente colto, del modello ready-made, generato dai motori di ricerca online, non può sostituire la conoscenza vera con una più apparente conoscenza di superficie, lo dimostrano i risultati raggiunti in molte scuole a proposito della preparazione media degli alunni maturi. È necessario recuperare i livelli dei saperi passati, restituirli alle nuove generazioni. Il pensiero critico non cresce nel collodiano “campo dei miracoli” ma si coltiva in famiglia e in classe, si alimenta con lo studio metodico e con la lettura di testi eterogenei. Consiste in un approccio ai fenomeni libero da pregiudizi; si applica al mondo intorno a noi e si articola partendo dal giudizio nutrito per noi stessi. È la capacità di mettere in discussione anche le nostre certezze: le verità non sono più assolute ma con una data limite di consumazione. In quest’ordine di idee il pensiero critico assume connotazioni nuove, ci permette di interpretare l’universo senza pregiudizi. Nel caso specifico di questo volume l’ambito d’indagine è stato quello dell’arte, un mondo complesso, dove le barriere all’ingresso sono molteplici. Un vero e proprio multiverso fatto di artisti, galleristi, critici, mercanti, collezionisti, editori, musei e gruppi di potere non sempre mossi da intenti comuni. Spingere le giovani generazioni alla costruzione di un proprio pensiero critico è dunque l’obiettivo di questo volume, la via da percorrere è quella dell’apprendimento permanente: una via lunga, fatta di sacrifici, e seppure impervia ricca di inattese ed entusiasmanti novità.
 
 
Massimo Galiotta è insegnante e critico d’arte, redattore della rivista Arte Trentina, collabora da tempo con alcuni periodici culturali pubblicati sia su carta che online. Negli anni Novanta completa la sua formazione presso l’Università degli Studi di Perugia, studiando Economia del turismo, e per oltre un decennio lavora all’estero per una multinazionale francese del loisir (in Francia, Grecia, Svizzera, Tunisia). Blogger dal 2009, nel 2016 fonda il sito InMostraBlog.com e inizia a collaborare con la rivista Puglia&Mare, curando la rubrica d’arte “il Cavalletto”. Nel 2019 pubblica il suo primo libro, La scuola dei pittori salentini (Amazon KDP), ed inizia l’attività di divulgatore, tenendo alcune conferenze su temi inerenti all’arte. Studioso dei fenomeni artistici che hanno animato l’Otto-Novecento e oltre, ha approfondito autori compresi nell’arco temporale tra Romanticismo, Futurismo e contemporaneità. Particolarmente attento alle dinamiche del mercato dell’arte, è in special modo interessato al collezionismo, alla falsificazione e alle varie forme di scambio di opere d’arte.
 
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 Titolo: Arte e pensiero critico. Diario di un connoisseur
Autore: Massimo Galiotta
Tipo: saggio
Numero di pagine: 192
Dimensione (hxb): 23×16 cm
Copertina: morbida con alette
Brossura: cucita
Edizioni: Edizioni d’Arte Dusatti
Anno: 2024
ISBN: 978-88-942161-9-6
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L’iperrealismo di Paolo Vincenti

di Antonio Di Seclì

Oppido Tralignano sta a Paolo Vincenti come Macondo sta a Gabriel Garzia Marquez.

Macondo e Oppido Tralignano sono entrambi luoghi immaginari, entrambi topos forse dell’anima o metafore di porzioni di mondo connaturate ai due scrittori.

Entrambi gli autori, en passant, sono inoltre accomunati da una immaginazione fantasticatrice, da una visione fervida e smisuratamente creativa, che può indurre per errore il lettore a supporre che tutto ciò che viene narrato possa veramente essere riscontrato nella dimensione del reale; quando invece il narrato trae movimento dalla realtà per poi fermentare nel contenitore dell’immaginazione, della fantasticheria che galoppa sovente senza freno.

Insiste insomma nella narrazione di Paolo Vincenti una specie di iperrealismo che meraviglia, grazie a strabilianti descrizioni cariche di parole, illuminate da aggettivi, impreziosite da immagini, sentenze, latinismi e barbarismi tratti con maestria dalla cassetta degli attrezzi.

Oppido Tralignano è preesistente a Le storie dello scirocco (Besa, Nardò, 2024, pp.181), è già materializzata ne I segreti di Oppido Tralignano dell’anno precedente (Agave Edizioni, Tuglie, 2023). È un laboratorio di lacerazioni, è una terra conclusa pregna di destini inappagati, di fallimenti annunciati, di velleità, di brogli malsani, di corruzioni, di eroi disarmati, di pusillanimi, di marionette assoldate, di giovani squattrinati, di lassismo provinciale. È sede di un’umanità disgregata, avvizzita, in preda alla nolontà e alla leggerezza, incapace quasi sempre di reggere il bandolo del proprio destino, che si auto inganna affidandosi ad un qualche evento messianico che possa rivelarsi catartico, è luogo di personaggi talvolta surreali, di macchiette dall’esistenza velleitaria, un po’ picaresca, un po’ pindarica, inane, viziata, autolesiva, unta, grama.

La vicenda principe mi sembra sia quella riferibile a Lorenzo Vitali.

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Per i diritti dell’Italia unita – Martano, 16 novembre 2024

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Gaetano Minafra, Arte sacra 12. Particolari della Basilica di Santa Caterina d’Alessandria

Tela. Il fronte della Basilica, Cristo e i discepoli sono stati eseguiti con lo stucco in bassorilievo e dipinti ad acquerello. La Madonna è stata realizzata con colori acrilici. Sul fondo materico sono sovrapposti colori ad acquerello, cm. 100 x 70, 2013.
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Ipocrisia linguistica

di Pietro Giannini

Secondo Isidoro di Siviglia “il nome…è ciò che rende noti gli oggetti e le cose”. Possiamo dire che il nome è la carta di identità dell’oggetto che esso designa. Perciò se vogliamo cambiare l’identità degli oggetti basta cambiarne il nome. Ciò ovviamente non significa che gli oggetti cambiano la loro natura, ma solo che essi ci vengono presentati in modo diverso dal diverso nome che viene loro attribuito. Queste ovvie riflessioni linguistiche invitano a ritornare su un problema ampiamente discusso ma che rimane ancora attuale a causa della persistenza con cui esso viene riproposto all’opinione pubblica. Il problema riguarda l’emigrazione e si concretizza in due espressioni linguistiche che vengono usate spesso.

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L’ostacolo del “fabulare”. La finzione autobiografica dantesca nell’opera volgare dell’Alighieri. Capitolo IX. Il tempo dell’attesa

di Gianluca Virgilio

Il proposito di lodare Beatrice, in conseguenza del fallimento della poesia della lode, come si è detto, è rinconfermato nelle pagine del Convivio. Il commento filosofico e le dotte “digressioni” sui versi delle canzoni preposte al secondo e terzo trattato (“Voi, che ‘ntendendo il terzo ciel movete” e “Amor, che ne la mente mi ragiona“), allontanano l’attenzione del lettore dalla fabula che vi è sottesa. E veramente si tratta d’un movimento centrifugo, incalzante e urgente, tale da far deflagrare il nucleo di finzione di antica memoria. Lentamente, risultati da quel nucleo, nuovi nuclei di finzione nascono, nuove funzioni sono attribuite ai personaggi, tra la bruma un nuovo edificio si scorge. Ecco l'”amatore di sapienza” che affaccia lo sguardo per la prima volta al di là della donna pietosa e gentile o Filosofia:

“(…) dove è da sapere che lo sguardo di questa donna fu a noi così largamente ordinato, non pur per la faccia che ella ne dimostra, vedere, ma per le cose che ne tiene celate desiderare ed acquistare”. (Conv. III, xiv, 13)[1]

La donna gentile e pietosa o Filosofia tiene nascosto il vero oggetto d’amore, che tuttavia solo grazie ad essa (attraverso “lo sguardo di questa donna”), può essere raggiunto ed “acquistato”. La donna gentile e pietosa o Filosofia ci appare pertanto anch’essa come uno “schermo de la veritade”; uno schermo particolare, certamente diverso dalle donne schermo della Vita Nuova, privo della sua aura cortese, coerente con questo stadio della finzione dantesca in cui la donna pietosa è, per espressa dichiarazione dell’autore, l’allegoria della Filosofia. Essa, lungi dal nascondere l’oggetto d’amore, a questo conduce grazie alle sue virtù:

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Sul volume “Rubi antiqua” a cura di Daniela Ventrelli

di Francesco D’Andria

La scorsa primavera a Parigi, dopo il Convegno sulle lingue della Puglia preromana, avevo deciso di visitare lo straordinario Museo che era stata la casa di Gustave Moreau, uno dei maggiori pittori del Simbolismo nella Francia della seconda metà dell’Ottocento. Centinaia di dipinti, disegni preparatori, oggetti della vita quotidiana del pittore, e infine la grande Sala-atelier in cui sono esposti i suoi capolavori. Sulla parete di fondo, campeggiava una grande tela con un soggetto speciale, tratto dal libro ventiduesimo dell’Odissea: “Les Prétendants” i Pretendenti alla mano di Penelope, ossia i Proci, falciati dalle frecce di Ulisse. Il pittore aveva dispiegato le potenzialità del suo virtuosismo pittorico in una incredibile e dissonante potenza cromatica e nei minimi dettagli decorativi di mobili e architetture. Sul lato destro della tela, con stupore avevo riconosciuto il disegno di un vaso proveniente dalla Puglia: un askòs rinvenuto a Canosa nell’ipogeo Lagrasta. Figure di piangenti, vittorie alate, tritoni intorno alla maschera della Medusa componevano un insieme esotico che aveva attirato l’attenzione del pittore.

Il vaso era stato donato al Louvre nel 1853 e doveva aver suscitato curiosità nell’ambiente artistico della Capitale: un’altra prova delle relazioni con la Puglia, di quella componente “barisienne” che caratterizza il capoluogo della nostra Regione. Queste relazioni, alimentate dal collezionismo durante tutto l’Ottocento, sono ora oggetto del volume, pubblicato a cura di Daniela Ventrelli, che contiene gli Atti di un Convegno tenuto a Parigi nel novembre del 2017, nell’ambito di un Progetto di Collaborazione scientifica tra il Comune della Ville Lumière e la Regione Puglia, con il coinvolgimento di alcuni Istituti di ricerca francesi. Finalmente sul binario giusto della Edipuglia, nella collana diretta da Giuliano Volpe, arriva il treno della pubblicazione degli Atti di quel Convegno. Argomento centrale del volume è uno dei Mirabilia dell’archeologia nel Mediterraneo: Ruvo e le straordinarie scoperte di ceramiche figurate prodotte nel periodo classico in Attica e in Magna Grecia. Suscitarono stupore nell’Europa dell’Ottocento tanto che ad esse venne attribuito il nome di “vasi ruvestini”, quasi fossero prodotti in questo centro dell’Apulia preromana.

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I rosoni della Basilica di S. Antonio di Padova: storia e restauri

di Rocco Orlando

     I rosoni della Basilica del Santo di Padova sono di molto posteriori alla costruzione della stessa. L’intenzione dei geniali ideatori era quella di dar luce diretta e abbondante al presbiterio, non dall’alto, ma dai lati, attraverso i grandissimi rosomi che aprono al sole quasi metà della parete con un diametro di nove metri.  Questi due rosoni furono eseguiti dopo la primavera del 1394, quando un campanile, colpito da un fulmine, crollò nella parte absidale del santuario. A questa rovinosa distruzione seguì un periodo in cui furono eseguiti importanti lavori, tra i quali l’apertura dei due rosoni.

     Sono ambedue a forma circolare e di ampiezza e diametro uguali, ma lo scheletro è molto diverso.  Gonzati  (vol. I  p. 129) dice: “ [Si tratta di] due grandi rose di pietra che ornano i circolari finestroni ai fianchi del presbiterio. Quello posto a settentrione è più antico, è anche più bello perché conserva nella struttura totale e nella distribuzione delle parti la figura sferica della finestra. I raggi che partono regolarmente dal circolo del centro, i quadrilobati tra raggio e raggio e le altre fogge capricciose di ornato compongono il più gradevole traforo. Devesi quest’opera ad un giovane guerriero figliuolo di Filippo Bisalica, un nobile patrizio di Piacenza. Fuori e dentro veggonsi le insegne di questo nobilissimo lignaggio, le quali mostrano in tre scudi una croce a scaccata a due striscie, in altri due la medesima croce a scacchi ed una mano vestita di ferro che scaglia un dardo. L’età di questo lavoro è dal 1339 al 1341 ad opera del maestro scalpellino Gabriele del fu Franceschino   […] che  eseguì il lavoro in collaborazione del tagliapietra Francesco della stessa contrada”.  

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