Gioventù salentina 2. Storia della Show boys Il racconto di Francesco Papadia (19 ottobre 2006)

di Gianluca Virgilio

Francesco, quando e dove sei nato?

Sono nato nell’ormai lontano, ahimè, 7 novembre 1951, a Galatina.

Dove hai trascorso la tua infanzia e adolescenza?

Sempre a Galatina. Ho ricevuto un’educazione tradizionale, classica, in anni di rottura, di contestazione. Da noi questo movimento giungeva in maniera ovattata, ma si avvertiva ugualmente il conflitto tra tradizione e nuovi fermenti, le nuove idee.

Nelle tue scelte sportive, sei stato condizionato dai tuoi genitori?

No, mi hanno lasciato fare. La scelta fu mia, ma i miei genitori la rispettarono. In quegli anni era importante cavarsela bene a scuola. Se a scuola si andava bene, i genitori lasciavano fare.

Che tipo di scuola hai frequentato?

Il Liceo classico, quando si trovava nella sua vecchia sede, dal 1964-65 in poi. Tra l’altro, ho avuto tuo padre e tuo suocero come insegnanti, e poi ancora il prof. Luigi Vantaggiato. Inoltre, ho un grandissimo emozionante ricordo del prof. Vincenzo Palumbo, detto ‘Nzino, che passò con me dalla “Giovanni Pascoli” al Ginnasio, seguendomi da insegnante di Educazione fisica nel mio percorso scolastico. Capiva poco o niente della pallavolo, però aveva una grandissima passione per questo sport, ci faceva sempre giocare. Io ero una schiappa come giocatore, però sono convinto che fu lui per primo a farmi entrare in campo e a mostrarmi la strada. Vedi come sono le cose della vita, io sono arrivato alle soglie della A2, partendo da un maestro che non conosceva la pallavolo ed essendo una schiappa come giocatore! Questo professore organizzò un torneo tra le classi del Liceo, si rubavano i dieci minuti delle altre ore per finire le partite, ci faceva lavorare. Quest’uomo seminò tanto. Lui non lo sa, ma io gliene sono molto grato, non tanto per i risultati sportivi che poi sono venuti, quanto per avermi indicato la strada dell’impegno sociale, che per me è stata la pallavolo.

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Manco p’a capa 232. Credenziali? Ma mi faccia il piacere!

di Ferdinando Boero

Il 17 dicembre son finito in prima pagina sul giornale, anzi.. sul Foglio. Assieme a 139 colleghi, ho firmato l’appello che denuncia la visione “liberista” dello sviluppo urbanistico di Milano e che legittima le azioni di costruttori che non rispondono a visioni organiche dello sviluppo di una città. L’autore dell’articolo che mi menziona in modo irridente, tale Maurizio Crippa, laureato in storia del cinema, mi cita come esempio strampalato della compagine dei firmatari. Scrive: “Poi ci sono giuristi, docenti di Scienze aerospaziali, costituzionalisti che si occupano di diritti umani, ricercatrici di beni culturali, addirittura Ferdinando Boero dell’Università di Napoli, ordinario di Zoologia e Antropologia”. Addirittura. Ricevo spesso commenti ironici ai miei post: che ne sa uno zoologo di… e questo è parte della collezione. Non c’è niente di più ridicolo dell’abusato “lei non sa chi sono io!” per rispondere a ironie come quella del Crippa. Ma sono costretto a “mostrare le credenziali”, per spiegare la mia presenza nel gruppo di firmatari.
Colleghi di area giuridica mi hanno chiesto di aderire all’appello per il mio impegno in questioni ambientali, su cui ho qualche competenza, comprovata da una produzione scientifica per la quale la Commissione Europea mi ha chiesto di partecipare alla redazione di diversi rapporti sulla sostenibilità e la protezione e gestione di biodiversità ed ecosistemi. Ho coordinato progetti europei su temi che affrontano argomenti trattati dall’ecologia e, non a caso, il paese dovrebbe pianificare la transizione ecologica grazie a fondi europei. Devo spiegare a Crippa che c’entra l’ecologia con la transizione ecologica? Mi viene facile ricambiare la sua ironia citando la sua laurea in storia del cinema, per canzonare la sua autorevolezza in campo ambientale e urbano. Dovrebbe aver visto Mani sulla città, di Francesco Rosi, ma, evidentemente, non gli ha detto gran che. Mourinho direbbe: “zero tituli”. Ma, d’altronde, qualcosa si deve pur fare per campare.

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Ricordo di Giacinto Urso

di Maurizio Nocera

La sua ultima lettera è di qualche settimana fa: i suoi auguri delle feste di fine anno a margine della copertina del libro di Lino De Matteis, Storia del Grande Salento (Lecce, Edizioni Grifo, 2024). «Auguri di ogni bene, cari Maurizio e Consorte./ Soprattutto, salute e serenità siano vostre amiche.// Giacinto Urso,/ con i suoi 99 anni di età». Sul retro della busta di questa lettera non trovo la mia solita R di risposta, ed ora mi sento profondamente addolorato all’idea che forse non ho fatto in tempo a rispondergli. E forse
non mi ha letto un’ultima volta. Questo oggi mi provoca un immenso tormento. Ma, quando si è trattato di essere in corrispondenza con Giacinto, io sono stato sempre pronto a rispondergli. E se non lo facevo, egli, con una garbatezza che non ho mai riscontrato in
nessun altro, me lo faceva ricordare.
Da quanto tempo ci conoscevamo. Da molto. Sicuramente dagli anni ’70. Ogni anno
c’erano, oltre agli occasionali, quattro momenti di incontri ufficiali, ed erano quelli collegati a quattro date: le due canoniche, Natale e Pasqua, poi il 25 Aprile (festa della Liberazione nazionale dal nazifascismo) e il 2 giugno (festa della Repubblica). Alle feste canoniche si trattava sempre dello scambio di auguri mentre, per quanto riguardava il 25 Aprile, avveniva l’incontro a cui egli teneva di più.

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Antonio Stanca, Universum A-37


18-04-2004, olio su MDF, cm 80,2 X 80,2.
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Il tempo che fu e quello che sarà: “Mestieri del Novecento. Sulle coste del Salento”, il nuovo volume di Giuseppe Albahari

di Massimo Galiotta

Torno a scrivere di Giuseppe Albahari essenzialmente per due ragioni. Prima di tutto perché è stato il primo a credere in quello che facevo, e continuo a fare, offrendomi un’opportunità irripetibile: concedendomi uno spazio sulla rivista di “Ambiente, Nautica e Turismo” da egli stesso diretta; dunque gode, e godrà della mia stima e riconoscenza per il “tempo che sarà”. Il sentimento è tanto limpido e puro quanto il fatto che, seppur legati da un cordiale e compiaciuto di sé rapporto di amicizia, la nostra collaborazione sia cessata già da un paio d’anni, a causa delle note vicende legate alla quiescenza forzata a cui la rivista Puglia & Mare – per ragioni di mancanza di adeguate risorse economiche – si è dovuta sottomettere. Rivista trimestrale dedicata alla porzione liquida del pianeta blu (dal n.1, del marzo 2013-al n.40, del dicembre 2022), nata sulla scia della precedente “L’uomo e il mare”, che lo stesso Albahari diresse dal 1985 al 2012: in definitiva, con la pubblicazione della rivista L’uomo e il mare prima e Puglia & Mare dopo, si è assistito ad un intervento editoriale e culturale durato ben 37 anni.

Il secondo motivo che mi induce a scrivere di lui è l’uscita del suo nuovo libro, presentato al pubblico lo scorso 14 dicembre 2024, presso il “Salone Parrocchiale di Sant’Antonio da Padova” sul Lungomare Galilei a Gallipoli. L’evento, è stato l’atto conclusivo della XII edizione della Settimana della Cultura del Mare, kermesse ideata dallo stesso Albahari e portata avanti in stretta collaborazione con Alessandra Bray, Presidente dell’Associazione Puglia & Mare APS, nonché motore instancabile di numerose iniziative a favore di economia, cultura e ambiente in Puglia e in particolare nel Salento. L’edizione di quest’anno, la dodicesima, dal 26 al 31 ottobre, ha visto, tra le altre, la partecipazione della conduttrice televisiva Licia Colò, che la mattina del 30 ottobre, presso il teatro Italia, ha dialogato con Nicolò Carnimeo, docente di Diritto della Navigazione dell’Università di Bari, sul tema “MARE, un Eden da salvare”.

L’uscita del volume Mestieri nel Novecento. Sulle coste del Salento è una fatica condotta dall’autore da ormai molti anni, ma che vede la luce soltanto adesso per i tipi delle “Edizioni Puglia & Mare APS”: un censimento attento di arti e mestieri diffusissimi fino alla fine degli anni ’60 del secolo scorso, poi pian piano abbandonati a causa dei cambiamenti della società e sulla spinta dell’inesorabile evoluzione tecnologica. Fanno parte della stessa collana il libro sull’antico carnevale di Gallipoli “Carri, chiacchiere e titori” (2022), di cui ho già avuto modo di scrivere in passato (testo apparso in prima istanza sulla rivista il filo di Aracne, e poi in rete sul sito diretto da Gianluca Virgilio www.iuncturae.eu); poi Onde e Risacche – Quando il mare era in bianco e nero (2022), resoconto di alcuni luoghi simbolo della città sullo ionio (la storica Tonnara attiva fino al 1973; i camerini in legno – o cambarini – per i «bagni di mare»; infine il Lido San Giovanni, storico lido del Salento, con la sua “rotonda sul mare” ed i numerosi personaggi dello spettacolo che vi soggiornarono).

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Intervista a Giovanni Rinaldi

di Adele Errico

Quando è maggio, a San Severo si festeggia la Madonna del Soccorso. Nel maggio del 2002, a San Severo, lo storico Giovanni Rinaldi e il regista Alessandro Piva intervistano Severino Cannelonga, figlio di Carmine Cannelonga, bracciante e sindacalista militante, per un documentario Rai sulle rivolte bracciantili. Alla fine dell’intervista, sono alla stazione di San Severo e Severino chiede “Volete sentire la storia di quando ho preso il primo treno della mia vita?”. Così Severino racconta una storia del Secondo Dopoguerra che Rinaldi e Piva non avevano cercato, quella dei Treni dei bambini o Treni speciali o Treni della felicità  che avevano condotto 70.000 bambini dal Mezzogiorno d’Italia all’Italia del Nord. Gli stessi treni che avevano trasportato soldati al fronte o deportato migliaia di persone nei campi di concentramento, sottraggono 70.000 bambini a un destino di degrado.  La comune scoperta di questa storia da parte di Rinaldi e Piva si è tramutata in una ricerca ventennale e ha, poi, assunto due diverse declinazioni, quella dei saggi storici per Rinaldi, “I treni della felicità” (2009) e “C’ero anch’io su quel treno” (Solferino 2021), e quella del film documentario per Piva, “Pasta nera”. Le storie di bambini rimasti soli, bambini vittime di violenza e sfruttamento, bambini cresciuti nella miseria, che vengono accolti da famiglie del Centro Nord – dal Lazio, all’Emilia, alla Lombardia, al Piemonte – disposte a dividere quello che avevano. Non famiglie ricche, ma povere anch’esse. Povere ma solidali. Povere ma ospitali e accoglienti. Un fenomeno di massa guidato da un intenso lavoro logistico da parte dell’UDI (Unione delle donne italiane, coordinate da Teresa Noce, partigiana e politica) con la collaborazione di medici e insegnanti. Trattato da Viola Ardone nel romanzo “Il treno dei bambini” (Einaudi 2019) e da Cristina Comencini nel recentissimo adattamento cinematografico per Netflix, non si può più parlare di un fenomeno sconosciuto o poco conosciuto. Giovanni Rinaldi, che ha lavorato negli ultimi 22 anni alla raccolta di testimonianze dei bambini di allora, ha realizzato una storia dalle molte voci, una storia collettiva.

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Cinema americano

di Ferdinando Boero

Da bambino, negli anni cinquanta, ma anche nei sessanta, “stavo con la Russia”. A Genova era quasi normale. C’era la corsa allo spazio, con Yuri Gagarin, primo uomo nello spazio, e Valentina Tereskowa, prima donna nello spazio, preceduti da Laika, primo cane nello spazio. Nei cineforum organizzati al liceo i film russi erano d’obbligo, tanto che Paolo Villaggio prese in giro quei rituali con la storica battuta: la Corazzata Potemkin è una cagata pazzesca. Mio padre, un comunista che era stato in campo di lavoro in Germania (Buchenwald), però, mi portava al cinema a vedere i film americani, soprattutto western. Con lui vidi L’uomo che uccise Liberty Valance, avevo 13 anni e il film era vietato ai minori di 14 anni. Raccontò una frottola alla biglietteria. Il divieto era dovuto a scene di violenza. John Wayne era l’eroe che era rimasto nell’ombra. Di poche parole. Liberty Valance l’aveva ucciso lui, con una fucilata, ma aveva lasciato l’onore a James Stewart che, su questo gesto, costruì la sua carriera politica, sposando la donna che Wayne amava e che gli lasciò. Mio padre, con i suoi amici, chiamavano “la tassa” Ombre Rosse, perché ogni volta che “lo davano” in un qualsiasi cinema, loro lo andavano a vedere.
Ombre rosse è il mio film preferito, ho anche comprato il copione in inglese, lo conosco battuta per battuta. Ringo Kid (John Wayne), fuorilegge suo malgrado, sale su una diligenza su cui viaggiano: un banchiere che sta fuggendo coi soldi della banca, una prostituta cacciata dal paese da un comitato di madamin, capitanato dalla moglie del banchiere, un medico ubriacone, una giovane donna incinta che va a trovare il marito militare, e un giocatore d’azzardo. A cassetta ci sono Andy Devine (Frank Zappa gli ha dedicato una canzone: Andy), e lo sceriffo che fa da scorta. Il titolo originale è Stagecoach: diligenza. Ma il titolo italiano è geniale: Ombre rosse. Sono quelle degli Apaches che assaltano la diligenza. Ringo Kidd sale sul tetto della diligenza e abbatte assalitori col suo Winchester, e quando tutto sembra perduto… arrivano i nostri. Ringo, una volta a Lordsburgh, uccide i suoi avversari e poi va via con Claire, la prostituta, benedetto dallo sceriffo e da Andy Devine. I personaggi positivi sono lui, il fuorilegge, e la prostituta, i negativi sono il banchiere e la sua gentile signora: i benpensanti.

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I resti di Babele 11. La consapevolezza del passato contro la civiltà smemorata

di Antonio Errico

Si racconta che una volta un giovane musicista sottopose a Gioacchino Rossini una composizione, chiedendo al maestro la sua valutazione illuminata. Rossini rispose che c’è del nuovo e c’è del bello, ma ciò che è nuovo non è bello, e ciò che è bello non è nuovo. Se è vero quello che si racconta, allora si può dire che Rossini probabilmente non aveva ragione. La bellezza non appartiene soltanto all’antico. La differenza tra bello e non bello, è determinata da altri criteri, che forse si chiamano estetica, forse armonia, coerenza –ma anche incoerenza, alle volte, contraddizione, disarmonia-, che forse si chiamano consonanza oppure, anche, dissonanza, discordanza, diversità. Il nuovo può essere bello e può essere brutto, come può essere bello o brutto quello che non è nuovo. Non saprei dire, per esempio, se Omero sia antico o nuovo. Però se si vuole comprendere com’è che lentamente si conformano i destini e com’è che improvvisamente si deformano, che quello che accade intorno a noi è sempre accaduto intorno agli altri, è con quell’antico Omero che bisogna fare i conti. Se si vogliono capire i furori incontenibili delle battaglie, i miraggi strabilianti dei viaggi, la paura e l’attrazione dell’ignoto, la disperazione smisurata dei naufragi, se si vuole riportare la propria nostalgia in una categoria, e il proprio desiderio di ritorno in un’altra, perché una categoria  consente di comprendere la rassomiglianza che hanno le emozioni, è con l’antico Omero che bisogna fare i conti.

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Chi ha detto Svizzera?


di Paolo Vincenti

Che incantevole paese, la Svizzera. Un paese quasi interamente ricoperto di montagne, con poche risorse naturali ma ricchissimo, in rapporto al numero di abitanti. “Con chi confina la Svizzera?”, ci chiedevano a scuola. E noi: “la Svizzera confina a sud con l’Italia, ad ovest con la Francia, ad est con l’Austria e a nord con la Germania”, anzi dicevamo “con la Repubblica Federale Tedesca”, cioè la Germania dell’ovest, perchè all’epoca la Germania era ancora divisa in due distinte nazioni, con la Repubblica Democratica Tedesca ad est. La popolazione della Svizzera si ripartisce in quattro gruppi etnici: tedesco, francese, italiano e ladino. 

È divisa in ventisei cantoni. Procedendo da sud ovest a sud est, incontriamo: il cantone Vallese, uno dei più estesi, con città come Sion e Briga; i cantoni di Ginevra e Vaud, dove c’è il lago di Ginevra, con città come Ginevra e Losanna; il cantone di Friburgo, con la città omonima; il cantone di Neuchatel, con il famoso lago di Neuchatel e la città omonima; il cantone del Giura, con capitale Delémont; il cantone di Solothurn; il cantone di Berna, dove si trova la capitale della Svizzera, una delle città più belle e pittoresche del paese; il canton Ticino, con il lago di Lugano e città importanti come la stessa Lugano, Bellinzona, Locarno; il cantone di Unterwalden; il cantone di Lucerna, con la omonima città; il cantone di Zurigo, con la città più importante e nota della Svizzera, cioè Zurigo, e Winterthur; il cantone di Basilea città, dove è la seconda città per importanza dopo Zurigo, e Basilea campagna; il cantone Obwald con la città di Sarnen; il cantone Nidwald con Stans;il cantone Schwitz; il cantone di Zug; il cantiere dei Grigioni, il più esteso, con le celebri località di Saint Moritz, Bernina, Davos; il cantone di Url, con Reuss; il cantone Glarona, con città come Glarona; il cantone San Gallo con San Gallo; il cantone Appenzeil con la città omonima, interno ed esterno; il cantone di Turgovia, con Frauenfeld; il cantone di Sciaffusa, con l’omonima città. Li avete contati tutti? Sono ventisei?

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Una donna araba tra colonialismo e resistenza

di Giuseppe Spedicato  

Queste mie riflessioni non vogliono essere una recensione dell’ultimo lavoro
di Rita El Khayat, Lo schiaffo. La memoria di una donna araba tra colonialismo e resistenza, Mediter Italia Edizioni, Palermo, 2024, ma mettere in evidenza alcuni concetti espressi nel libro, che aiutano a comprendere pagine di storia passata che continuano a creare il presente, e soprattutto farla conoscere meglio al pubblico italiano. Far conoscere una grande intellettuale, versatile e molto coraggiosa, che pensa e scrive da un’altra cultura, da un altro punto di vista. Rita El Khayat non è una donna che vive e lavora negli Stati Uniti o in Europa e da lì pensa e scrive. Lei pensa, vive e lavora in un paese del Nord Africa, il Marocco.

La El Khayat con questo nuovo lavoro cerca far comprendere il colonialismo in Marocco, e lo fa partendo da una sua esperienza personale, quando era una piccola scolara, era l’unica araba della classe. Un giorno viene tirata fuori da una fila di bambini e viene presa a schiaffi dall’insegnante. Non aveva fatto nulla, “ero un’araba o, meglio, ero solo un’araba che poteva essere ingiustamente punita, senza che nessuno battesse ciglio o senza il rischio di provocare una ribellione, per quello che, peraltro non avevo commesso. Potevo solo piangere”. Era stata punita lei al posto di chi era agitato e urlante. L’insegnante voleva calmare la classe. Scrive ancora: “I bambini francesi erano, in generale, odiosi con me, sprezzanti e/o meschini. A parte Jocelyne D. e Maryse, le centinaia di altre persone provavano solo disprezzo nei miei confronti e, nel migliore dei casi, indifferenza”.

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Taccuino di traduzioni 13. Yves Bonnefoy: Psiche innanzi al castello di Amore

di Antonio Devicienti



Claude Lorrain, Paesaggio con Psiche fuori dal Palazzo di Cupido Il Castello Incantato, 1664.

Sognò di aprire gli occhi, vide soli
che s’avvicinavano al porto, silenziosi
ancora, luci spente ma raddoppiate nell’acqua grigia
da un’ombra in cui s’affacciava il colore a venire.

Poi si risvegliò. Che cos’è la luce?
Che cosa significa dipingere qui, la notte? dar più
forza a questo blu, agli ocra, a tutti i rossi
non è morire ancor più di prima?

Dipinse allora il porto – però in rovina
(s’udiva l’acqua battere contro i fianchi della bellezza
e bambini gridare nelle camere chiuse)
le stelle scintillavano tra le pietre.

Ma l’ultimo dipinto (null’altro che uno schizzo)
sembra sia Psiche che, ritornata,
è rovinata in pianto (o canticchia) nell’erba
che s’avvinghia alla soglia del castello di Amore.

PSYCHÉ DEVANT LE CHÂTEAU D’AMOUR

Il rêva qu’il ouvrait les yeux, sur des soleils
Qui approchaient du port, silencieux
Encore, feux éteints; mais doublés dans l’eau grise
D’une ombre où foisonnait la future couleur.

Puis il se réveilla. Qu’est-ce que la lumière?
Qu’est-ce que peindre ici, de nuit? Intensifier
Le bleu d’ici, les ocres, tous les rouges,
N’est-ce pas de la mort plus encore qu’avant?

Il peignit donc le port mais le fit en ruine,
On entendait l’eau battre au flanc de la beauté
Et crier des enfants dans des chambres closes,
Les étoiles étincelaient parmi les pierres.

Mais son dernier tableau, rien qu’une ébauche,
Il semble que ce soit Psyché qui, revenue,
S’est écroulée en pleurs ou chantonne, dans l’herbe
Qui s’enchevêtre au seuil du château d’Amour.

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Gaetano Minafra, Arte contemporanea 1. Paesaggio fluviale

Colori acrilici e acquerello su legno, cm. 40 X 25, 2015.
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Sine ira et studio: lettera aperta a Edith Bruck e Liliana Segre

di Angelo D’Orsi

Gentilissime,

non ho il piacere di conoscere di persona la signora Liliana Segre, mentre conosco, da molti decenni, Edith, che mi onoro di considerare una delle mie più care amiche. Lei, signora Segre, ha ricevuto nel 2018 il laticlavio dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, gesto che tutti abbiamo apprezzato, non tanto, mi consenta, per i Suoi meriti personali, quanto per ciò che Ella stessa rappresenta: una sopravvissuta a un tentato genocidio. Anche tu Edith, sei una sopravvissuta, e sebbene tu non sia stata nominata “senatrice”, le tue opere – romanzi racconti poesie cinema televisione – costituiscono un pubblico riconoscimento, al quale la visita, nella tua dimora romana, di Papa Francesco ha dato recentemente un suggello straordinario. Perciò sono rimasto a dir poco sconcertato dalla tua reazione alterata, inutilmente aggressiva, verso il pontefice dopo le parole da lui pronunciate che in forma dubitativa accennavano alla necessità o opportunità di accertare se a Gaza fosse in corso un genocidio.

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Gioventù salentina 1. Lasciarsi raccontare

di Gianluca Virgilio

E’ facile essere bambini ed essere giovani, quando lo si è; ma esserlo la seconda volta: ecco il punto.

Soeren Kierkegaard

L’idea di ascoltare alcuni amici sulla loro storia è nata a Galatina una sera dell’estate 2006 ai tavolini del Bar Colonna, durante una delle tante conversazioni, nelle quali inesorabilmente per vie diverse il discorso scivolava dal presente al passato. Senza esserci preventivamente accordati, ciascuno di noi raccontava una storia, un aneddoto, un fatto di vita vissuta relativo alla propria giovinezza, e ogni racconto portava con sé un altro, sicché certe sere le narrazioni sembravano non avere fine, la calura era vinta dai diversi climi delle varie stagioni della vita, e la notte fonda giungeva senza che nessuno se ne accorgesse. A me piace molto stare a sentire, se qualcuno ha qualcosa da dire, specialmente se mi proietta in un mondo che ho solo sfiorato o che non ho conosciuto affatto. Una sera, affascinato dall’ultimo racconto, ho detto ai miei amici: “Porterò con me il registratore, perché queste storie non vadano perse”. Ma non potevo farlo. Il sovrapporsi delle voci – infatti, non accade mai come nei libri, che quando uno parla, gli altri se ne stiano zitti; tutti vogliono dire qualcosa, e così il racconto si sviluppa a più voci che si innestano le une nelle altre, quando non si sovrappongano -, il rumore della città, l’andirivieni della gente, il passaggio delle auto,  la conversazione ai tavoli vicini, avrebbero impedito di conservare quei racconti in modo chiaro e distinto. Quante cose che ci diciamo cadono nel vuoto, e spesso è un bene! Ma si danno anche dei casi in cui, al termine di una serata, ci tocca rimpiangere che nessuno dei presenti si sia presa la briga di registrare le storie appena ascoltate. E’ un dispiacere comprensibile, strettamente legato al sentimento del passato che non ritorna, se non nell’occasionale evocazione di un gruppo di amici.

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Marcello Toma, Train de vie


Olio su tela, 80×120 cm, 2023.
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Parole, parole, parole 40. Gli eccessi deleteri della «cancel culture»

di Rosario Coluccia

La «Major League Baseball» (in sigla MLB) è il campionato di baseball americano al quale partecipano le più forti squadre di quella nazione. Sono celeberrimi i «Cleveland Indians», una squadra che, secondo una notizia da molti ripetuta, trarrebbe il nome Indians dal fatto che nel Cleveland giocò per alcuni anni il fortissimo Louis Sockalexis, un Nativo Americano che si riferiva normalmente alla propria squadra indicandola semplicemente come gli Indians. Altrettanto famosi sono i «Washington Redskins», leggendaria squadra di football americano, il cui logo presenta il volto di profilo di un capo pellerossa. Nel 2021 i «Cleveland Indians» hanno cambiato il loro nome in «Cleveland Guardians», scompare il riferimento agli «Indians». Un procedimento identico ha coinvolto i «Washington Redskins», che nel 2022 hanno assunto il nuovo nome di «Washington Commanders», non c’è più alcuna allusione ai «Redskins», ai pellerossa che erano richiamati nella denominazione precedente. Nell’uno e nell’altro caso il cambio è dovuto alla pressione degli sponsor e alle proteste generali contro le ingiustizie razziali. Il «National Congress of American Indians» ha puntualizzato che l’immagine stereotipa degli Indiani trasmessa dalle due squadre creava, manteneva e rafforzava (anche al di là delle intenzioni) una visione culturalmente inaccurata dei popoli nativi d’America e delle loro culture. E quindi è stato giusto eliminare quel tipo di riferimenti.

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La guerra di Vittorio Manno

di Maurizio Nocera


Nei giorni scorsi, il 6 dicembre 2024, è stato presentato nella Biblioteca comunale di San Donato di Lecce il libro di Marisa Manno, In guerra con Tale su iniziativa dell’ARCI CREA, alla presenza del sindaco Alessandro Quarta, che ha portato i saluti ed è intervenuto nel merito del romanzo storico. È intervento anche il delegato alla Biblioteca Antonio Luceri e l’editore Nando Simeone. Quella che segue è una lettura di chi qui si firma.  
Si tratta di un romanzo storico, di ricordi di una vita vissuta, al cui centro, come riferimento dell’intero romanzo, c’è il suo paese, San Donato di Lecce. L’autrice comincia a interessarsi a quella memoria, curiosa di sapere quale fosse stata la vita del padre Vittorio. Leggendo e rileggendo scopre che si tratta di una vita assai avventurosa, svoltasi durante l’epoca del fascismo. Il testo è scritto parte in italiano parte in dialetto. Molti i dialoghi o, per meglio dire, la forma del romanzo è per buona parte dialogica. In tutto si tratta di tre parti.
La prima narra della partenza della nave da Napoli con uno incipit tipico di quel secolo.
Siamo alla fine degli anni ’30, esattamente il 1938. Il soldato parte “per terre assai lontane”. Chi resta sulla banchina piange e sventola il fazzoletto bianco sperando che il proprio caro ritorni quanto prima. Francamente è un inizio commovente.

Il soldato Vittorio, che a San Donato di Lecce, faceva l’elettricista, parte con la littorina (da
fascio littorio) per andare verso Lecce per poi proseguire per il porto di Napoli. Saluta
affettuosamente la moglie Giulia e la piccola figlia Maria, le dice, in un dialetto stretto stretto: “Nu stare cu lu pensieru, stau attentu, me canusci no?”.

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Presentazione di Giuseppe Albahari, Mestieri del Novecento – Gallipoli, 14 dicembre 2024

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Intervista di Rosario Coluccia su Vocabolario Dantesco e Vocabolario Dantesco Latino – Rai Radio 3, 15 dicembre 2024

Domenica 15 dicembre 2024, durante la trasmissione La Lingua batte di radio3, dalle 10.45, andrà in onda una breve intervista che ha rilasciato Rosario Coluccia su Vocabolario Dantesco Vocabolario Dantesco Latino, nella quale il linguista salentino illustrerà gli obiettivi di questi lavori. Da non perdere!

Per ascoltare la trasmissione, clicca qui.

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Noterellando… Costume e malcostume 27. Il terminale della Bellezza?

di Antonio Mele / Melanton

Mi addolora moltissimo scriverne. Di quale argomento specifico, lo dirò più avanti.

Mi sanguina davvero il cuore, ma non si possono sminuire – e men che meno sottacere – le sempre più evidenti incongruità e inadeguatezze né l’ignavia di chi dovrebbe essere preposto a controllare e a intervenire di fronte a turpitudini di vario genere, che danneggiano ormai sistematicamente, agli occhi nostri e del mondo, l’immagine delle città e dei luoghi dove viviamo.

Né si possono accantonare le evidenti assenze dei più, comprese quelle di noi stessi: distratti o indolenti cittadini, che sembriamo avere smarrito non dico il senso del dovere civico (merce che si fa sempre più rara), ma neanche la dignità e l’amor proprio per reclamare e ribellarsi alle frequenti e progressive turpitudini, ignoranze, sciatterie, e ai vandalismi (quasi sempre impuniti) che concorrono inevitabilmente, e proditoriamente, a violentare e deturpare la nostra ‘casa comune’: che sia essa Roma, Palermo, Milano o Lecce o Galatina.

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