Buon compleanno, Mister Darwin!

di Ferdinando Boero

Il 24 novembre 1859 fu pubblicato un libro che cambiò la nostra visione del mondo: On the Origin of Species by Means of Natural Selection, or the Preservation of Favoured Races in the Struggle for Life, da noi conosciuto come L’origine delle specie. L’autore è Charles Robert Darwin che, 165 anni fa, iniziò la rivoluzione darwiniana, e la proseguì nel 1871 con un altro libro fondamentale: The Descent of Man, and Selection in Relation to Sex da noi conosciuto come L’Origine dell’uomo. Questi due libri tolsero la nostra specie dal “centro” dell’universo e spiegarono che quella che chiamiamo “Creazione” si verificò con un processo che oggi chiamiamo Evoluzione. La parola non è presente nella prima edizione de L’Origine, anche se il libro termina con la parola “evolved”. La teoria dell’evoluzione, subì molte modificazioni nei secoli successivi, ma rimane una solida teoria scientifica, e non esistono alternative in grado di spiegare con altrettanta efficacia perché le cose stanno come stanno, nel mondo vivente, costituito da innumerevoli forme di vita: le specie. Noi siamo una di quelle e siamo il prodotto, assieme a tutte le altre, di processi naturali basati sulla selezione. Darwin spiegò l’affermazione delle “razze favorite” con argomenti che non appartengono alla moderna teoria dell’evoluzione, basata sulla genetica, ma che considerano le interazioni tra le specie attraverso la “lotta per l’esistenza”.

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Parole, parole, parole 37. Il basic italian di Mike Bongiorno

di Rosario Coluccia

«Mike Bongiorno parla un basic italian. Il suo discorso realizza il massimo di semplicità. Abolisce i congiuntivi, le proposizioni subordinate, riesce quasi a rendere invisibile la dimensione sintassi. Evita i pronomi, ripetendo sempre per esteso il soggetto, impiega un numero stragrande di punti fermi. Non si avventura mai in incisi o parentesi, non usa espressioni ellittiche, non allude, utilizza solo metafore ormai assorbite dal lessico comune. Il suo linguaggio è rigorosamente referenziale e farebbe la gioia di un neo-positivista. Non è necessario fare alcuno sforzo per capirlo. Qualsiasi spettatore avverte che, all’occasione, egli potrebbe essere più facondo di lui» […] Mike Bongiorno convince dunque il pubblico, con un esempio vivente e trionfante, del valore della mediocrità. Non provoca complessi di inferiorità pur offrendosi come idolo, e il pubblico lo ripaga, grato, amandolo. Egli rappresenta un ideale che nessuno deve sforzarsi di raggiungere perché chiunque si trova già al suo livello. Nessuna religione è mai stata così indulgente coi suoi fedeli. In lui si annulla la tensione tra essere e dover essere. Egli dice ai suoi adoranti: voi siete Dio, restate immoti».

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Per Aldo D’Antico, per Mino Castrignanò, per questi tempi ma anche per quelli che ci hanno visto ciarlare all’ombra del grande carrubo di Parabita

di Maurizio Nocera

Quando Mino Castrignanò mi diede il manoscritto del libro È successo un’altra volta! Opere teatrali 1993-2023, ad esso c’era già l’Introduzione di Monia Rosato (Segretaria provinciale dello Slc Cgil Lecce), mentre invece mancava la Premessa di Aldo D’Antico. Era un po’ di tempo che Aldo teneva una copia del manoscritto, però non aveva ancora inviato all’autore la sua premessa. Mino mi chiese allora se potevo telefonargli io per chiedergli a che punto stava. Gli risposi che lo avrei fatto volentieri anche perché era da un bel po’ che non sentivo Aldo.

Così gli telefonai. Era un pomeriggio avanzato del mese di gennaio 2024. Scelsi questo tempo perché sapevo che Aldo era solito farsi la pennichella. Mi rispose quasi immediatamente. Sentii la sua voce un po’ appesantita, perciò gli chiesi.

– Aldo come stai?

– Ultimamente non tanto bene. L’anno scorso ho avuto una piccola ischemia e sono ancora costretto ad usare le stampelle per muovermi. Però adesso va meglio. Spero quanto prima di rimettermi del tutto e ricominciare a fare il mio lavoro nella biblioteca. 

Aldo amava i libri e ad essi aveva dedicato gran parte della sua vita. Lì, a Parabita, quel suo ombelico del mondo tanto amato, nell’ex palazzo Ferrari, era riuscito a costruire una biblioteca quasi simile a quella costruita dai monaci del libro Il nome della rosa di Umberto Eco. Non nel numero degli esemplari, ma nelle caratteristiche librarie specifiche. Egli non era un bibliofilo nel vero senso della parola, ma non era neanche un bibliomane: i libri li raccoglieva, li schedava, li impilava, ecc., semplicemente perché sapeva il loro valore educativo e comunicativo. E poi, molti di essi li leggeva anche.

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Memorialistica meridionale del Risorgimento: nuove acquisizioni (prima parte)

di Antonio Lucio Giannone

In occasione di questa Giornata di studi in ricordo di Marco Sirtori, ho scelto di ritornare su un argomento che ci permise di conoscerci e di iniziare una fruttuosa collaborazione, interrotta soltanto dalla prematura e improvvisa scomparsa di Marco. E vorrei cominciare questa relazione rievocando brevemente quell’incontro. Nel giugno del 2015, in qualità di presidente del Centro studi “Sigismondo Castromediano e Gino Rizzo”, di Cavallino di Lecce, mi misi in contato con lui che aveva collaborato con Matilde Dillon Wanke alla realizzazione dell’Atlante letterario del Risorgimento[1], inviandogli gli Atti di un Convegno dedicato a Sigismondo Castromediano, un patriota e memorialista del nostro Risorgimento[2]. Poi proposi a lui e a Matilde di presentare l’Atlante proprio a Cavallino di Lecce, il comune di nascita del duca Castromediano. Entrambi accettarono il mio invito molto volentieri e dalla mail di risposta di Marco appresi anzi che amava il Salento in quanto veniva qui quasi ogni estate a villeggiare in una località marina dell’Adriatico, denominata Torre Specchia. Lui ricambiò mandandomi alcune sue pubblicazioni e alcune copie dell’Atlante. L’11 dicembre 2015 si svolse la Tavola rotonda «Sigismondo Castromediano e il Risorgimento italiano», nel corso della quale Fabio D’Astore e io parlammo dell’Atlante, mentre Marco si soffermò sugli scritti giovanili del duca[3], curati da D’Astore[4], e Matilde Dillon tenne un intervento sulle Memorie di Castromediano. Entrambi i loro contributi figurano poi in volume, da me curato, che raccoglie una serie di saggi su questa importante figura di patriota e letterato [5].

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Nuove segnalazioni bibliografiche 35. Per Antonio Vallone

di Gianluca Virgilio

Mi raccontava mio padre (classe 1921) che, da ragazzo, dunque, verso la fine degli anni Venti o al massimo ai primi dei Trenta, sulla parete del laboratorio d’un calzolaio, in uno sgabuzzino piuttosto angusto sito nell’ottocentesca Via Luce a Galatina, v’era il ritratto di un uomo canuto e rubicondo, dal viso paffuto, con dei baffi di tutto rispetto, lunghi e bianchi, e dagli occhi buoni e appena sorridenti: era il ritratto dell’on. Antonio Vallone, defunto il 7 febbraio 1925 (era nato il 6 maggio 1858) tra il compianto generale dell’intera cittadinanza. Mi diceva queste cose per chiarire con un esempio quale fosse la popolarità del Vallone, che per molti anni era stato l’esponente di punta della classe dirigente locale, e quale vuoto politico avesse lasciato anche tra il ceto umile della città. Oggi ne rimane testimonianza in due busti conservati rispettivamente nella sede della Società operaia in Via Umberto I e nell’atrio del Liceo Artistico di Via Gaetano Martinez (opera di Numa Ghinelli) e in due lapidi, una nel Palazzo della cultura ed un’altra nell’atrio del Liceo Scientifico e Linguistico “Antonio Vallone”, che quest’anno festeggia il 50° anniversario della sua fondazione (i festeggiamenti sono previsti per il pomeriggio del 19 ottobre). V’è poi un bassorilievo in gesso nel Museo civico “P. Cavoti” e una strada a lui intitolata nel centro cittadino. Ricordo infine che, alla morte del Vallone, gli fu intitolato l’ospedale di Galatina.

Nel breve spazio di questa Segnalazione bibliografica, certo non potrò dire chi era Antonio Vallone, ma forse potrò fare utile cosa al lettore, fornendogli alcune indicazioni, che, se egli vorrà, potranno condurlo alla scoperta del personaggio, del quale, nel prossimo 7 febbraio, ricorrerà il 100° anniversario della morte.

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# noino! Giornata mondiale per l’eliminazione della violenza contro le donne – Galatina, 24 novembre 2024

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I tria corda di Gino Giovanni Chirizzi

di Mario Spedicato

Tria corda è il titolo di un sonetto che illumina più di un’autobiografia ragionata i solidi riferimenti esistenziali di Gino Giovanni Chirizzi. Nel redigere queste note l’abbiamo riletto (cfr. Canti di una vita, 2023 quarta di copertina) per focalizzare, senza disperderci in discorsi astratti, il percorso intellettuale al fine di spiegare la miscellanea di studi che la Società di Storia Patria di Lecce ha voluto donare ad un socio meritevole e degno di entrare nel pantheon della cultura salentina. In questo sonetto Chirizzi confida al lettore i “tre ardenti amori intensi e saldamente radicati” che vivono dentro di lui, fornendo “sostegno all’esistenza e fertil dignità ad ogni azione”. Li ricorda questi tre “cuori” a partire dall’Epiro “con i boschi sconfinati, le rocce, l’indomabile avvenenza” riconosciuta come la terra dei suoi avi, poi “l’aperto ed ospital caldo Salento, approdo dei fuggiaschi generoso, dimora familiare, forte terra” ed infine “la cara Capodistria, struggimento tenace ed istintivo, doloroso, da lei mi separò la triste guerra” per ricordare il luogo di nascita costretto ad abbandonare in seguito al secondo conflitto mondiale. Una triade che segna le sue vicende umane e nello stesso tempo il carattere apolide del suo incessante impegno nella ricerca storica e nella declinazione letteraria dei suoi testi poetici.

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Arbeit macht frei

di Paolo Vincenti

Arbeit macht frei, come la scritta che campeggia all’entrata del campo di sterminio di Auschwitz, diventata iconica nell’immaginario popolare, emblematica della bestialità umana. Che beffarda ironia, suscitata dal contrasto fra il significato della frase, “Il lavoro ti rende libero”, e il destino dei deportati in quel campo di sterminio per i quali il lavoro costituiva solo una pausa fra l’imprigionamento e l’esecuzione. Un campo di lavoro che, lungi dal nobilitare l’uomo, lo rendeva invece schiavo, lo reificava, riducendolo ad oggetto inutile, pezzo di scarto, infine vittima sacrificale di una perversa teoria della razza. La scritta era già comparsa a Dachau e poi venne incisa sui cancelli di tutti i campi di concentramento voluti dal regime nazista durante la Seconda Guerra Mondiale. Arbeit macht frei, come il titolo di un album degli anni Settanta degli Area, un gruppo che ha fatto la storia della musica italiana. Composto, fra gli altri, da Demetrio Stratos, front man del gruppo, Patrick Djivas e Paolo Tofani, si inseriva nel vasto movimento del rock progressive di quegli anni ma con qualcosa in più, cioè una cifra distintiva data dall’incredibile padronanza dei mezzi musicali ed espressivi. Si trattava di musicisti eccellenti. L’album, con delle statuine incatenate con la chiave in mano sulla copertina ed una pistola di cartone allegata al disco, era molto provocatorio, con testi fortemente politici che scossero l’ambiente musicale. Con un misto fra rock, pop, free jazz e musica elettronica, gli Area, grazie alla bellissima voce di Demetrio Stratos, che possedeva un’ incredibile estensione, che giungeva quasi a 7000 Htz, e alla valentia musicale di Djivas, Fariselli & co., divennero ben presto un gruppo di culto nell’ambito dell’avanguardia musicale, apprezzatissimi dalla critica e spesso imitati dalle band venute dopo. Con la loro voglia di sperimentare, grazie all’intervento di tanti musicisti che entrarono a collaborare con la band, con le loro provocazioni musicali, hanno lasciato un’impronta indelebile nella musica d’autore nostrana, con album come Caution Radiation Area (1974), Crac! (1975), Maledetti (maudits) del ’76,Tic & Tac dell’’80, ecc.

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Presentazione di Ettore Catalano, Il complesso di Chirone – Giovinazzo, 23 novembre 2024

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Judíos e giudaizzanti: la cultura come strumento di propaganda antiebraica

di Benedetta Vincenti

Riassunto. Il presente saggio mette a confronto le pratiche di esclusione e segregazione della popolazione ebraica in Spagna, che culminarono con la creazione del Tribunale dell’Inquisizione, e i metodi di repressione e condanna attuati nella Russia del XV secolo per combattere l’eresia della setta dei Giudaizzanti, considerata una sorta di equivalente dell’eresia diffusasi all’interno della Penisola Iberica.

Abstract. This essay compares the practices of exclusion and segregation of the Jewish population in Spain, which culminated in the creation of the Tribunal of the Inquisition, and the methods of repression and condemnation implemented in 15th-century Russia to combat the heresy of the Judaizing sect, considered a sort of equivalent of the heresy that had spread within the Iberian Peninsula.

  1. Introduzione

Già prima dell’invasione dei popoli germanici, nella Penisola Iberica esisteva una comunità ebraica. L’arrivo dei barbari non modificò la loro cultura e le loro tradizioni, che furono messe in discussione solo nel momento in cui i Visigoti si convertirono al Cattolicesimo, nel 589 d. C., e diedero avvio alla persecuzione degli ebrei. Successivamente, l’imperatore bizantino Eraclio, che controllava una parte dei territori spagnoli, emanò un decreto di espulsione degli ebrei, in accordo con il re visigoto Sisebuto, dando loro la possibilità di convertirsi al Cristianesimo per evitare l’esilio. Quando il regno visigoto cadde e nella Penisola iniziò la dominazione islamica, i musulmani stabilirono dei criteri di condotta sociale per gli ebrei attraverso i cosiddetti estatutos de vileza[1]. La presenza ebraica fu di notevole importanza durante la Reconquista, poiché l’assenza tra i cristiani di medici, amministratori e viticoltori si tradusse in un’attiva partecipazione degli ebrei, che si estese anche all’ambito culturale della Scuola dei Traduttori di Toledo, patrocinata dal re Alfonso X. Di conseguenza, dal XIII secolo si stabilì un certo regime di tolleranza verso gli ebrei, i quali ottennero la protezione reale grazie ai servigi resi, pur rimanendo al margine della società.

Nonostante ciò, una vera e propria rottura si verificò nel 1492 con l’ordine reale di espulsione dai territori di Castiglia e Aragona. Con tale decreto, i Re Cattolici, influenzati anche dall’ascendente del frate Tomás de Torquemada, determinarono una separazione tra cristiani ed ebrei, costringendo questi ultimi ad abbandonare la Penisola qualora non si fossero convertiti al Cristianesimo[2].

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Taccuino di traduzioni 9. Barthes, Sebald, Berger (quattro non-traduzioni)

di Antonio Devicienti

AVVERTENZA: questi testi sono un “esperimento”: ho provato a tradurre un brano in prosa che amo in modo particolare non solo in italiano, ma anche… in versi.
Con il ritmo e il passo della scrittura necessariamente differenti da quelli della prosa ho cercato di suggerire uno stato d’animo, una postura del pensiero, ho provato, anche, a scrivere un mio testo in poesia fortemente ispirato alle parole e alle movenze di pensiero di un autore infinitamente più grande e più capace di me; non nascondo che mi seduceva anche l’idea di una traduzione meno vincolata e virata sull’impatto emotivo del testo originale.

1. SCRITTURA E PALPEBRA

(da Roland Barthes, L’empire des signes)

Pochi tratti
(arbitrari, sì, ma
ordinati e regolari)
a tracciare il pittogramma;
densa la linea
avviata a pieno pennello –
assottigliarsi, poi, curvare:
suo svanire.

L’occhio: come a cominciare
a pieno pennello sull’angolo interno –
rovesciarlo poi
ellittica fenditura
a chiudersi come curvando verso la tempia
(è come foglia, come virgola d’inchiostro:
doppia curva rovesciata
e gli orli affrontati).

Occorre una vita intera
per imparare quell’unico gesto
che
sa
tracciare
il cerchio sublime!

Les quelques traits qui composent un caractère idéographique sont tracés dans un certain ordre, arbitraire mais régulier; la ligne, commencée à plein pinceau, se termine par une pointe courte, infléchie, détournée au dernier moment de son sens. C’est ce même tracé d’une pression que l’on retrouve dans l’oeil japonais. On dirait que le calligraphe anatomiste pose à plein son pinceau sur le coin interne de l’oeil et le tournant un peu, d’un seul trait, comme il se doit dans la peinture alla prima, ouvre le visage d’une fente elliptique, qu’il ferme vers la tempe, d’un virage rapide de sa main; le tracé est parfait parce que simple, immédiat, instantané et cependant mûr comme ces cercles qu’il faut toute une vie pour apprendre à faire d’un seul geste souverain.

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Il laureato, Totò e il Sessantotto che cambiò ogni cosa

di Antonio Errico

Quando una sera d’inverno che hai diciott’anni esci dal cinema gelido di un paese di provincia dopo aver visto, per non saper che fare, “Il laureato”, non sai più distinguere se il mondo reale sia quello con Benjamin Braddock,  la signora Robinson, Elaine e l’ Alfa Romeo duetto rossa che ancora ti sfavilla dentro gli occhi, o se sia la piazza sotto la nebbia soffice accarezzata dalla luce giallastra dei lampioni. Dalla provincia tutto si vede estremamente vicino ed estremamente lontano, allo stesso tempo. E’ tutto vero e tutto falso, tutto bello e tutto brutto, allo stesso tempo. Dalla provincia il mondo ondeggia come il paesaggio liquido di un sogno. La provincia un poco ti ripara e un poco ti esilia. Così te ne vai  verso casa, con il bavero rialzato e le mani affondate nelle tasche, batti i piedi per allontanare il randagio che ti abbaia e ti gira intorno, e voltandoti indietro rivedi in lontananza Anne Bancroft e Dustin Hoffman e Katharine Ross, rivedi la corsa disperata sull’ Alfa Romeo, ti ritorna la fuga in autobus e non riesci, non vuoi toglierti dalla testa le canzoni del film, soprattutto “The Sound of Silence”, di cui non capisci le parole perché non hai studiato l’inglese ma che ti avvolge nei giri di chitarra.

“Il laureato” uscì negli Stati Uniti nel Sessantasette con la regia di Mike Nichols, tratto dal romanzo di Charles Webb.

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L’ostacolo del “fabulare”. La finzione autobiografica dantesca nell’opera volgare dell’Alighieri. Capitolo X. La nuova finzione autobiografica dantesca della “Divina Commedia”

di Gianluca Virgilio

Dalla finzione del Convivio, fondata sulla dialettica “littera”-allegoria, constatato il suo fallimento, cioè sperimentata l’impossibilità d’ogni prosieguo della fabula, l’Alighieri passa alla finzione ultraterrena della Commedia; siamo dinanzi a una radicale trasformazione della fabula, che appare inevitabile quanto necessaria, poiché l’autore prende atto che con la prosa del Convivio (ordinata, almeno nei trattati II, III e IV come commento alle canzoni) egli aveva potuto dissimulare l’antico giovanile nucleo fabulistico, ma non ne avrebbe saputo dare uno nuovo. L’erudizione aveva coperto più o meno bene l’irruenza della passione giovanile, ma alla lunga, trascorsa già l'”età fervida e passionata”, l'”età temperata e virile” avrebbe presto inaridito la sua poesia[1]. Noi abbiamo visto che il IV trattato del Convivio segnava l’abbandono della teoria dei quattro sensi d’interpretazione della poesia, vale a dire della teoria allegorica come l’Alighieri l’aveva formulata in Convivio, II, i; e abbiamo dato di quell’abbandono una spiegazione che dava ragione anche della incompiutezza dell’opera. A questo punto del percorso dantesco abbiamo individuato lo smarrimento del personaggio-Dante, che segnava la crisi profonda della finzione dantesca, foriera d’una rigenerazione che solo in un’altra opera poteva compiersi. Ora, noi sappiamo bene che, come ha detto il Petrocchi con belle parole, “nessuna floreale decorazione di lettere iniziali o ancor più nessuna complessa raffigurazione allegorica e narrativa di miniatore può riempire questa silenziosa immensità di pensiero e di sofferenze dalla quale e dopo tanto prolungarsi della quale scaturisce il primo verso della Commedia[2]; sappiamo bene, cioè, che tra Convivio e Commedia si apre uno spazio vuoto assai difficile da colmare, e che è difficile ripercorrere i passi che condussero l’Alighieri da un’opera all’altra. Eppure alcuni segnali mostrano che un legame tra le due opere esiste, e molto stretto; e questi segnali meritano di essere decifrati.

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Urbino ricorda Bruno Gentili. Eredità e prospettive – Urbino, 20-21 novembre 2024

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Gaetano Minafra, Arte sacra 13. Facciata di Santa Caterina d’Alessandria a Galatina

Legno. Facciata e fondo eseguiti in bassorilievo e decorati ad acquerello, cm. 70 x 70, 1985.
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“Coronato di serti e cinto di catene”: Giorgio Maniace nelle vicende di Puglia

di Paolo Vincenti

Riassunto. Nel saggio è tratteggiata la figura di uno straordinario personaggio bizantino: il Generale Giorgio Maniace (998-1043), con particolare riferimento al suo coinvolgimento nella campagna militare di Puglia. Per la sua enorme mole, per la forza fisica e l’impeto in battaglia, su di lui si è appuntata la fantasia popolare che lo ha trasfigurato in un eroe semileggendario, sorta di biblico Golia, spietato ed assetato di sangue. Su Maniace esiste una vasta bibliografia che nel saggio viene scandagliata a partire dalle fonti bizantine più antiche fino a quelle contemporanee.

Abstract. The essay outlines the figure of an extraordinary Byzantine character: General Giorgio Maniace (998-1043), with particular reference to his involvement in the military campaign in Puglia. Due to his enormous size, his physical strength and his impetus in battle, popular imagination focused on him and transfigured him into a semi-legendary hero, a sort of biblical Goliath, ruthless and bloodthirsty. There is a vast bibliography on Maniace which in the essay is explored starting from the most ancient Byzantine sources up to contemporary ones.

     Nell’estate del 1038 il Generale Giorgio Maniace era impegnato per conto dell’Impero bizantino ad espugnare la Sicilia strappandola agli Arabi. Comandava un forte corpo armato alla cui testa egli troneggiava maestoso. Georgios Maniaces, o Maniakis o Maniachès, era nato in Macedonia nel 998. Fu uno di quegli uomini speciali, destinati dalla storia a ricoprire grandi ruoli. Di statura enorme, simile al biblico Golia, entrò nella leggenda perché ben presto di lui si impossessò la letteratura scandinava. Sposò la nobildonna Teopapa, della famiglia Crisafo, proveniente dalla regione tessalo-macedonica e da lei ebbe un figlio chiamato Crisafo Maniace. Fece una brillante carriera nell’esercito bizantino grazie alle sue doti fisiche e alla tempra fuori dal comune, fino a diventare protospatario. Nel 1020 fu nominato stratego del thema di Teluch nella Tauride, al confine fra Anatolia e Siria. Un self-made man, diremmo oggi, che pur provenendo da una famiglia della piccola nobiltà locale, probabilmente siriana, raggiunse i vertici dell’esercito bizantino, divenendo Generale[1].  

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Incontri con Vincenzo Consolo (seconda parte)

di Antonio Lucio Giannone

Ma dopo i due incontri con Consolo (dei quali ho parlato nella prima parte), continuai a occuparmi della sua opera anche se questo mio interesse non si è tradotto in specifiche pubblicazioni al riguardo. In ogni caso, nell’anno accademico 2016-17, dedicai il corso monografico di Letteratura italiana contemporanea dell’Università del Salento al Sorriso dell’ignoto marinaio, del quale nel corso delle lezioni procedetti a  una lettura analitica. Inoltre assegnai una tesi di dottorato sulla produzione saggistica di Consolo alla dott.ssa Maria Teresa Pano, la quale alla fine ha pubblicato alcuni lavori sull’argomento. Infine invitai a parlare dello scrittore siciliano due tra i maggiori specialisti della sua opera, Gianni Turchetta e Irene Romera Pintor. Il primo, professore ordinario di Letteratura italiana contemporanea presso l’Università Statale di Milano, aveva curato L’opera completa di Consolo, apparsa nel 2015 nella collana dei Meridiani della Mondadori, che contiene un suo saggio introduttivo e Un profilo di Vincenzo Consolo di Cesare Segre. La seconda ha curato e tradotto due opere dello scrittore, Lunaria (2003) e Filosofiana (2008 e 2011), e ha organizzato anche vari Convegni di studio in Spagna curandone i relativi Atti. 

Il 20 aprile 2016, con la presenza di Turchetta, organizzai un’intera Giornata di studi sullo scrittore siciliano proprio in occasione della pubblicazione dell’opera completa. Al mattino, presso l’ex Monastero degli Olivetani, lo studioso tenne un seminario dal titolo “Il sorriso dell’ignoto marinaio e Le pietre di Pantalica,  Un (anti-) romanzo storico e un romanzo storico potenziale”. La sera poi, insieme allo stesso curatore e a Maria Teresa Pano, presentai il Meridiano presso la Libreria Liberrima di Lecce .

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Luigi Latino, Evanescenza


Acrilico su tela 25×20, 2024.
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Su “Le storie dello scirocco” di Paolo Vincenti

di Anna Stomeo

Le Storie dello scirocco (Besa, Nardò 2024) si svolgono ad Oppido Tralignano, una denominazione artatamente costruita dall’Autore (si noti l’esplicito assonante riferimento ai ‘tralignamenti’, alle trasgressioni dei suoi abitanti), borgo surreale, offuscato e tormentato dallo scirocco e dai suoi appiccicosi miasmi, un luogo immaginario e realistico e, perciò, virtuale, attraversato da personaggi disincantati e avidi di vita, al limite del grottesco e dell’osceno. Paolo Vincenti ne coglie tutte le sfumature, dalle più intime alle più eclatanti, e ce le racconta con l’abilità dello scrittore e la lucidità del ricercatore e del saggista. Sono questi, infatti, i tre ruoli, a cui va aggiunto anche quello di raffinato poeta, che caratterizzano, nella sua poliedricità, l’attività intellettuale feconda di Paolo Vincenti, per il quale le molteplici inclinazioni non hanno mai costituito un ostacolo operativo alla scrittura, che, egregiamente, spazia dalla ricerca storica alla saggistica, alla narrativa e alla poesia. La scrittura come dimensione essenziale dell’impegno conoscitivo e culturale di un territorio osservato con disincanto ed ironia, ma anche con spirito critico e qualche amarezza.

Come avviene specialmente in questo romanzo (che fa seguito, con uno stile più realistico e meno pulp, al precedente romanzo di Paolo Vincenti, “I segreti di Oppido Tralignano”, Agave Edizioni, 2023) , in cui si intrecciano le storie, vere e immaginate, di personaggi che obbediscono alla logica della commedia, non senza qualche sfumatura eccentrica di burlesque. Personaggi che si muovono in autonomia intorno alla figura del protagonista, Lorenzo, sedicente Scrittore Mascherato e insoddisfatto, che indossa, letteralmente, molte maschere alla continua ricerca di una soluzione ’editoriale’ ai propri fallimenti creativi, trasformando la propria vicenda in una vera e propria denuncia, indiretta, del degrado in cui versa la cultura del libro, sempre più sottomessa alle regole del mercato, che invadono, ormai, anche la sonnacchiosa e sterile provincia.

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Inchiostri 136. Ferrovia

di Antonio Devicienti


La foto è di Giovanni Chiaramonte e appartiene alla serie Nascosto in prospettiva, Stazione (2007).

Dalla ferrovia il retro delle case, gli orti, lo scarto tra scarpata e recinzioni.

Istanti subito scomparsi nella corsa: due sul terrazzo, panni stesi ad asciugare, un triciclo abbandonato.

L’andare del treno e il restare delle case e degli orti, degli alberi e dei pali.

Lo scorrere dello sguardo e il dissolversi delle case e degli orti, delle piante e degli incroci.

Un prete attende al volante la riapertura delle sbarre al passaggio a livello, un uccello spicca il volo spaventato, un sacchetto di plastica si agita impigliato a un ramo, l’ombra del convoglio si stampa sul muro di cemento, l’andare del treno è anche elenco di cose, situazioni, istanti. Vuoti. Intervalli. Cesure.

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