Manco p’a capa 206. Autonomia Differenziata: ha ragione Jessica Rabbit

di Ferdinando Boero

I presidenti di Regione, dalla Lombardia alla Sicilia, con buona parte di quelle che stanno in mezzo, sono finiti in gabbia per “irregolarità” gestionali. Alcune Regioni funzionano meglio di altre, e riescono a tollerare il malaffare, ma fino a un certo punto. I lombardi, durante il Covid, hanno pagato con molte vite le conseguenze di una sanità sbilanciata e, non paghi, hanno rieletto chi ha gestito malissimo la pandemia. Formigoni artefice del disastro, scontata la pena, vuol tornare in politica: glielo chiedono in tanti, dice. Molti amministratori del sud perseguono l’obiettivo di perpetuare l’accesso ai fondi di coesione, assegnati per far uscire le loro regioni da uno stato di bisogno. Il fine dei fondi è di non averne più bisogno, gli amministratori mirano a continuare ad averne bisogno. Poi non li sanno utilizzare (molti devono essere restituiti) oppure li usano per costruire cattedrali nel deserto che costano tantissimo e che non risolvono i problemi di quelle regioni. La Sicilia è a statuto speciale, e riceve ancora più soldi. Come sono utilizzati? Siamo in democrazia. Se i siciliani vogliono Totò Cuffaro e i lombardi Fontana e li premiano plebisciti… che ne paghino le conseguenze. Ci sono differenze tra nord e sud, ma la qualità della classe politica espressa con il voto democratico non cambia gran che.
Se la popolazione vota persone di questo tipo, da nord a sud, è giusto che siano loro a reggere le sorti delle regioni e del paese! Il principio di responsabilità prevede che chi vota una classe politica che porta alla rovina il territorio, poi ne pagherà le conseguenze. Che fare? L’uomo forte che impone il buon governo? Tutti i tentativi hanno dato pessimi risultati.

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A proposito di “Sul terzo pianeta del Sole” di Giuseppe Conte di Serrano

di Maurizio Nocera

Nell’introduzione all’ultima fatica poetica di Peppino Conte, Sul terzo pianeta del sole (Edizioni del Pescecapone (Serrano di Carpignano Salentino, 2023) Antonio Errico, scrive:

            «Sa perfettamente, Peppino Conte, che non si va a capo casualmente, che non si spezza il verso con arbitrio. Quando si va a capo, quando si spezza il verso, vuol dire che è a quel punto esatto che si verifica un volgere di tempo, lo scarto in una sequenza di emozioni, la continuità o la discontinuità di un pensiero, oppure di una condizione dell’essere, o che si sfalda la compattezza di un sentimento, o che si spalanca la voragine “di una paura”» (p. 5).

Parole sante quelle di Antonio che, non solo interpreta appropriatamente il modo di Conte di essere poeta, con uno stile tutto tuo, indicante e concernente emozioni, sentimenti, paure, tentennamenti, ombre e luci di un vivere quotidiano che spesso mortifica l’anima, la quale, poi, trova lenimento solo nel momento in cui egli si siede alla scrivania e i versi gli colano dalla penna come gocce di rugiada al mattino presto quando la frescura domina la terra.

Non da meno è la riflessione sul pensiero poetico del Nostro di Anna Stomeo, che da buona saggista e lettrice di testi (la sua vita ruota intorno al teatro, ed è una delle poche fortunate salentine ad avere acquisito conoscenze teatrali da un gigante del teatro contemporaneo, Eugenio Barba dell’Odin Teatret). Anna scrive:

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Gaetano Minafra, Opere grafiche 44. Ragazza seduta sul muretto

2011, Matita, pastelli e colori acrilici, cm. 30 X 20.
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Una lettera di… 10. Una lettera di Luciano Caruso e tre ristampe futuriste

di Antonio Lucio Giannone

Firenze 13/5/87

Caro Lucio,

ho ricevuto finalmente (ahimè la posta!) la tua raccomandata ‒  il tuo scritto mi sembra ottimo ‒ e necessario (analisi letteraria) ‒ Wagstaff punta sul testo di Jakobson ‒ io farò la storia del libro, unendo documenti e materiali inediti, sicché mi sembra che venga fuori una buona cosa.

Pare che anche la situazione del libro imbullonato si sia sbloccata e così in pratica usciranno insieme. Io sono molto contento di questa collaborazione con te.

Saluti a tutti voi ‒ anche da Sonia.

Ti abbraccio,

Luciano

All’inizio del 1985, Francesco Saverio Dodaro, scrittore e operatore d’avanguardia, nato a Bari ma residente a Lecce, mi invitò a presentare la collana di edizioni rare “Le brache di Gutenberg / Cronaca & storia”, nella quale era appena uscita una sua opera, Disianza congiuntiva.  La collana, che veniva pubblicata dall’Editore Libraio Belforte di Livorno, era curata da Luciano Caruso (Foglianese, Benevento, 1944 – Firenze, 2002), che l’8 febbraio di quell’anno, mi scrisse una lettera per ringraziarmi di avere accettato l’invito, augurandosi di potermi conoscere di persona.

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Inchiostri 123. Scogliera adriatica

di Antonio Devicienti

Forse gli uccelli marini sono più bruschi e distanti degli uccelli di lago o di fiume – e mi piace questo loro amaro di sale, questa ruvida solitudine che, se nidifica, sceglie la scogliera, l’azzardata trama dell’inquietudine.

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Antonio Stanca, Universum A-21


16-11-2003, olio su MDF, cm 89,5×89,5.
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Presentazione di Giuseppe Sebastiano Castelluzzo, Le radici della dipendenza – Casarano, 27 giugno 2024

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Presentazione di Antonio Errico, Passione Salento – Galatone, 27 giugno 2024

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Dieci comandamenti


di Paolo Vincenti

Novello Mosè, il Governatore della Louisiana, Jeff Landry, repubblicano, promulga una legge per cui in tutte le scuole d’America di ogni ordine e grado saranno esposti i Dieci Comandamenti. Sì, proprio le Tavole della Legge che Dio dettò a Mosè sul Monte Sinai (Esodo, 24,12-18), non prima di avergli intimato che alla sua ridiscesa nell’accampamento avrebbe dovuto sterminare gli Ebrei i quali nell’attesa si erano fabbricati un vitello d’oro (Esodo, 32, 26-28). Chissà se anche Landry, trumpiano di ferro, sia stato chiamato da Yhwh nella sua tenda, come accadde a Mosè, o gli abitanti della Louisiana siano un popolo “dalla dura cervice” come gli Ebrei idolatri. Tra l’altro è molto curioso il video, divenuto virale in rete, in cui, mentre Landry firma la legge, alle sue spalle una bimba sbadiglia vistosamente e un’altra cade svenuta forse al pensiero di dovere recitare dall’anno prossimo la solfa del Decalogo ogni mattina. Fatto sta che Landry vorrebbe estendere la legge anche agli altri stati americheni. E se dovesse vincere il vecchio Donald “riporto d’oro” alle prossime presidenziali, non è detto che non ci riesca. Qui si è davvero fuori di melone. A proposito, non fatelo sapere a Giorgia.

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Parole, parole, parole 24. «I doppioni li voglio, tutti…»

di Rosario Coluccia

«I doppioni li voglio, tutti, per mania di possesso e per cupidigia di ricchezze: e voglio anche i triploni, e i quadriploni, sebbene il Re Cattolico non li abbia ancora monetati: e tutti i sinonimi, usati nelle loro variegate accezioni e sfumature, d’uso corrente, o d’uso raro rarissimo. […] E in lingua nostra, che la parola si può stirare, contrarre e metastatare (palude, padule: femminile e maschile) secondo libidine. […] Dò palla bianca a una collazione e a un uso ragionevole di tutte le varianti ortoepiche: non voglio mollare né palude né padule».

Queste parole scriveva Carlo Emilio Gadda intervenendo in una discussione avviata dalla pubblicazione, nel 1941, del Vocabolario della lingua italiana, vol. I (A-C), stampato a cura della Reale Accademia d’Italia con il coinvolgimento di linguisti del calibro di Giulio Bertoni e Clemente Merlo (e altri meno illustri). Un tentativo (mai portato a termine perché il vol. I rimase l’unico pubblicato) del regime fascista di dotare la nazione di un vocabolario che fosse diretta emanazione del potere politico, implicitamente mirante a sostituire la gloriosa tradizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca, opera giudicata d’impianto puristico (pur se mitigato) e pertanto ritenuta inadatta ai tempi. Il Vocabolario dell’Accademia d’Italia fu subito recensito da Mario Meschini, direttore della rivista «La Ruota», che ne mise in luce i limiti, in un articolo intitolato Un dizionario nuovo e un metodo vecchio. Negli anni 1941-1942 «La Ruota» ospitò un dibattito di grande interesse, nel quale intervennero linguisti, letterati, scrittori, intellettuali di diversa estrazione e di ottima caratura, accomunati dall’esigenza di aprire una fase nuova di riflessione sulla lingua e sulla storia culturale italiana (gli interventi sono raccolti nel vol. Lingua letteraria e lingua dell’uso. Un dibattito tra critici, linguisti e scrittori («La Ruota» 1941-1942), a cura di Giuseppe Polimeni, Firenze, Accademia della Crusca, 2013).

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Solo il pensiero nuovo dei ragazzi potrà salvare il pianeta

di Antonio  Errico

Carlo Rovelli, fisico teorico, autore di libri di divulgazione scientifica, dice che la scienza ha bisogno di bravi matematici, bravi sperimentatori, abili tecnici. Ma non basta. Ha anche bisogno di persone che sappiano pensare il nuovo, con uno sguardo ampio e libero che viene dall’essere aperti in ogni direzione. Ma forse non basta nemmeno saper pensare il nuovo. Forse è indispensabile che  si configuri proprio un pensiero  nuovo, che maturi un sentimento del tempo che a noi è sconosciuto, avverta una delicatezza nei confronti degli esseri e delle cose, sia disponibile a contemperare le ragioni e le passioni, la razionalità e le emozioni, l’istintività e la riflessione, il rigore della scienza  con lo stupore per i versi di una poesia, la consapevolezza del limite con la tensione verso l’illimitato; serve un pensiero che si apra all’accoglienza di pensieri differenti, che sappia confrontarsi con la complessità, con l’incertezza e con l’imprevisto, sia disponibile a rinunciare alle convinzioni, a rimettere tutto in discussione, a rivedere i significati dei fenomeni e delle storie. Forse è indispensabile un pensiero che rifiuti a priori il qualunquismo, il disinteresse, l’apatia, la mediocrità, l’abitudine, l’indifferenza,  la menzogna nei confronti degli altri, di se stessi. Forse c’è bisogno di un pensiero capace di appassionarsi agli accadimenti vicini e a quelli lontani, alle faccende quotidiane, personali, sociali, che si accorda alle esigenze dei tempi, alle evoluzioni della tecnica, della tecnologia,  a condizione che sia l’una che l’altra producano benessere, sviluppo, progresso.

 Un pensiero nuovo è quello che accoglie  nuove idee,   nuove categorie, nuove forme di bellezza, nuove condizioni e  nuove espressioni di arte, letteratura, architettura, nuovi modelli di città, di spazi urbani, che progetta il futuro assumendo a riferimento gli elementi del passato, valutando le condizioni del presente, immaginando in che modo quegli elementi e quelle condizioni possano integrarsi e interagire in termini d evoluzione, orientando verso questa finalità  logiche, forme, formule,  metodi, tecniche,  strumenti, nuove invenzioni. 

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Marcello Toma, Il sonno della ragione

2024, olio su tela, 60×100 cm.
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Una guida per perdersi

di Carmen Gasparotto

Ci sono luoghi che hanno qualcosa a che vedere con il nostro destino. Il Salento è uno di questi.

Ad Antonio Errico devo il mio gusto per il Salento e ben altro. È quasi impossibile dissociare Antonio Errico dalla terra alla quale appartiene. Terra che possiede la sostanza di un miraggio, di un detto e non detto, del mistero dietro al visibile. È così il Salento.

Si porta appresso il richiamo degli abissi azzurri di un cielo impenetrabile, di architetture che mutano seguendo la luce che le illumina o l’ombra che le occulta.

È così il Salento, capace di colmare ogni senso di vuoto.

Se un viaggio si misura dall’intensità e non dalla durata, una fugace settimana in Salento può vivere più di una quercia secolare. L’ultimo giorno, l’ultimo bosco, l’ultima caccia… nella piccola libreria di Lecce un campanello scacciapensieri ha accompagnato il mio ingresso. Non cercavo un libro in particolare, forse un libro che mi restituisse un’atmosfera, una raccolta di poesie, o una guida sentimentale. Qualcosa da portare con me, come potrebbe fare un bambino per ammorbidire un distacco, ma la letteratura, si sa, non è mai innocente. Né colpevole, del resto.

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Laura Barone – Alberto Figliolia, Nel vento che cambia l’orizzonte (Convergenze poetiche)

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Sonetti dei destini VII

di Antonio Devicienti

La foto di Doisneau che ritrae De Broglie davanti ad una lavagna intento a cercare l’errore in una formula matematica e la foto di Wittgenstein che ha alle spalle un muro graffiato di mille scarabocchi (o segni? tracce? escoriazioni?): per Leonardo Sinisgalli.

Quanti orizzonti sui quali levarsi

ha la luna rossa in ripetute albe!

che nei taccuini e nella mente apparse

non monti profilano, né prunalbi;

.

frattali incantamenti o matematiche

lobačevskiane invece, subatomiche

scansioni nel tessuto inapparente

del tempo che parola poi sorprende.

.

Macchine disegnare con pazienza

inconsutile e eguale a quella cura

della vigna, memoria, fuoco, numero.

.

Una manciata rossa di monete

giocate contro il muro degli Elisi

(sacro campo di fave memoranti –

                                                      mormoranti).

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Antonio Bux, Mappe senza una terra

di Adele Errico

Le mappe, alle volte, non devono portare da nessuna parte, possono essere utili anche solo a disegnare dei confini, a ritagliare uno stralcio di esistenza, a collocare un sentimento: alle volte possono anche essere Mappe senza una terra (RP libri 2023). È questo il titolo del libro di poesie di Antonio Bux. Antonio Bux, poeta, traduttore e editor, è foggiano di nascita e esordisce nel 2012 con “Trilogia dello zero” (2012). Seguono “Naturario” (2016), “Kevlar” (2016), “Sasso, carta e forbici”  (2018), “La diga ombra” (Nottetempo 2020) e “Gemello falso” (2022). Ha pubblicato in spagnolo “23 – fragmentos de alguien” (2014), “El hombre comido” (2015), “Saga familiar de un lobo estepario” (2018) e in dialetto foggiano “Lattessànghe” (2018) e “Ki uarde e nun uarde” (2022). In “Mappe senza una terra” la filigrana autobiografica – caratterizzante, come inevitabile presenza, tutta la sua produzione poetica – si articola in visioni di paesaggi e di luoghi significativi nell’esistenza del poeta. Le mappe disegnate in questi versi si fanno e si disfano tra visibile e invisibile, tra veglia e sonno, tra dimensione fisica e metafisica in un fumoso viaggio nel quale punto di partenza e punto di arrivo sembrano rincorrersi e sovrapporsi. Nelle poesie di Bux le assenze pesano quanto le presenze, si fanno grevi nel solitario gioco dell’introspezione e, insieme, del ricordo. La scrittura di Bux diventa, con un meccanismo che molto ricorda il correlativo oggettivo eliotiano, “kevlar” che attutisce i colpi dell’esistenza. Il kevlar, che è anche il titolo di una sua raccolta, è una fibra che rafforza il materiale dei giubbotti antiproiettile e che, proprio come la scrittura, è più resistente dell’acciaio. E già in questa raccolta si intravedeva il dissolversi di un peso in parvenza di luoghi, in disegni di mappe, emergeva il tentativo di trovare un rimedio nella geografia: “È tutto nostro/il peso del cielo, mentre scende nel fosso del corpo, ci/distende in geografia”. 

In una novella del 1920 intitolata “Rimedio: la geografia”, Pirandello fa dire al protagonista: “Ecco, nient’altro che questa certezza d’una realtà di vita altrove, lontana e diversa, da contrapporre, volta per volta, alla realtà presente che v’opprime; ma così, senza alcun nesso, neppure di contrasto, senz’alcuna intenzione, come una cosa che è perché è, e che voi non potete fare a meno che sia. Questo, il rimedio che vi consiglio, amici miei. Il rimedio che io mi trovai inopinatamente quella notte”. Sconvolto da immenso dolore, questo personaggio nella lettura del libro di geografia della figlia trova un momento di sospensione del dolore, nelle Montagne Azzurre dell’”isola di Giamaica”, nelle sue spiagge e i suoi ruscelli, nella città di Porto Reale, nelle sue praterie dove donne e uomini “rovesciano a mucchi sugli spiazzi assolati il raccolto del caffè ad asciugarsi”. In quel momento in cui la vita faceva male, questo personaggio trova consolazione nella mappa di un luogo lontanissimo.

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Nuove segnalazioni bibliografiche 32. Politica e storia in Luciano Canfora

di Gianluca Virgilio

Tra il 2002 e il 2013 Luciano Canfora scrisse per il “Corriere della Sera” una serie di articoli, nei quali gli venne lasciata ampia libertà di spaziare a tutto campo su temi di argomento politico, tra mondo antico e mondo moderno: che cosa sia la democrazia, l’oligarchia, la tirannide, qual sia il compito dell’intellettuale, quale valore conoscitivo abbia la storia antica nel tempo presente, un tempo nel quale gli avvenimenti si susseguono tumultuosi e rischiano di travolgerci o perlomeno di trovarci incapaci di attribuire loro un senso; tutte questioni, e altre ancora, affrontate con acume e grande erudizione nel volume Il presente come storia. Perché il passato ci chiarisce le idee, Rizzoli, Milano 2014.

Un convincimento profondo anima queste pagine, che l’intellettuale abbia un “compito primario … [un’] esigenza dominante, comprendere la storia addirittura nel suo farsi…”. (p. 148). L’ambizione è grande, e il libro si rivela subito all’altezza di questa ambizione. Lo studioso del mondo greco-latino ripropone qui l’idea relativa alla storia, propria dell’umanista, ovvero che essa sia magistra vitae, in grado pertanto di operare a vantaggio del tempo presente con un insegnamento riguardante l’esperienza del già accaduto, il quale non è detto che non debba ancora accadere. La democrazia antica non è poi così diversa dalla nostra se in essa agisce un ceto di oligarchi che si accaparra il consenso della maggioranza: “la cosiddetta democrazia delle città greche e ateniese in particolare, è comunque il regime politico in cui il governo è stabilmente nelle mani di un ceto non molto esteso numericamente, possidente, preparato, e capace di ottenere in un modo o nell’altro l’avallo necessario per governare” (p. 11); un consenso, quello della maggioranza, che non per questo risulta essere razionalmente giustificabile; il che vuol dire che nelle sue scelte non sempre la maggioranza ha ragione: “Anche se costituisce (o dovrebbe costituire) uno strumento del convivere civile, il principio di maggioranza (…) non ha alcun fondamento né logico né razionale” (p. 60), scrive l’autore, rimandando ad un saggio di Edoardo Ruffini, Il principio maggioritario.

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Antonio Errico, Passione Salento

In libreria.
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Luigi Latino, Il sospetto


Tecnica mista su tavola, cm.33×80.
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Citazioni 19. Schiume

“L’espressione designa quei sistemi o aggregati di vicinanza sferica nei quali ciascuna “cellula” costituisce un contesto autocomplementare (nel linguaggio corrente: un mondo, un luogo), uno spazio sensoriale intimo, in tensione di risonanza diadica e multipolare, o ancora una “dimensione domestica” che vibra per l’animazione che le è propria, animazione che solo la cellula può sentire e che sente solo in se stessa. Ciascuna di queste dimensioni domestiche, ciascuna di queste simbiosi e alleanze, è una serra di relazioni sui generis. Una struttura di questo tipo può essere chiamata “società a due”. Laddove si formano luoghi di questo tipo, il fatto che coloro che sono uniti in modo ravvicinato esistano stando rivolti gli uni verso gli altri agisce di volta in volta come il vero agente della costruzione dello spazio; la climatizzazione dello spazio interno coesistenziale avviene per estroversione reciproca dei simbionti che, come un focolare davanti a un focolare, temperano l’interno comune. Ogni microsfera forma in sé il proprio asse d’intimità. Si dovrà mostrare come ciò possa essere piegato nella direzione di una forma di vita individualistica.

Il carattere introverso delle differenti “dimensioni domestiche” non si oppone alla loro conglomerazione in unioni più dense, vale a dire in schiume sociali; la loro vicinanza e la loro separazione devono essere interpretate come le due facce del medesimo stato di fatto. Il principio in vigore nella schiuma è quello del co-isolamento, secondo il quale la stessa parete di separazione svolge in ogni singolo caso la funzione di frontiera per due o più sfere. Nella schiuma reale in campo fisico, la bolla individuale confina con una pluralità di bolle vicine e queste, tramite la divisione dello spazio, contribuiscono al suo condizionamento. Se ne può dedurre un’immagine mentale che permette l’interpretazione delle associazioni sociali. Anche in campo umano, le differenti cellule sono attaccate le une alle altre grazie a isolamenti, separazioni e immunizzazioni comuni. Si tratta di una delle peculiarità di questa regione di oggetti: il co-isolamento multiplo di dimensioni domestiche a bolla sotto forma di vicinati multipli può essere descritto tanto come un confinamento, quanto come un’apertura al mondo. La schiuma costituisce dunque un interno paradossale nel quale, per la maggior parte, le co-bolle circostanti sono, allo stesso tempo, vicine e irraggiungibili, legate e distanti dal punto che occupo.

In senso sferologico, le “società” costituiscono, in un modo che dovremo precisare, delle schiume.”

Peter Sloterdijk. Sfere III, Raffaello Cortina Editore, Milano 2015, pp. 58-60.

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