Franco Prodi ha pubblicato tesi strampalate sul cambiamento climatico, ed è stato sgamato: ha dovuto ritirare un articolo basato sul nulla. Ieri sera il fratello più furbo di Franco, Romano, era a Piazza Pulita, su La7. Anche lui, come il fratello, propone una tesi strampalata. Gli chiedono di spiegare il tracollo dei Cinque Stelle. Alza il ditino e, con aria da curato di campagna, con voce da seminario, spiega che i 5S hanno fatto fortuna vendendo emozioni, dicendo che sono tutti cattivi, ma questo non basta più, ci spiega: la gente ha problemi concreti, come la salute, la scuola, la casa. Non parla di ambiente, in altri momenti si è dichiarato a favore di trivellazioni e nucleare. I 5S devono mettersi d’accordo col PD, che le proposte chiare le ha (c’è Schlein che lo guarda estasiata dall’altra metà dello schermo) e poi evoca un campo largo in cui ci siano anche Renzi e Calenda. Insomma i 5S ci devono stare, col PD e col gatto e la volpe, ma devono stare agli ordini di chi vede lontano e devono mettere la testa a posto. Stamattina riguardo l’intervista per assicurarmi di aver sentito bene. Confermo: dice che il M5S deve smetterla di vendere emozioni e deve parlare di problemi concreti, andando dietro a Schlein.
La biografia diAntonio Gramsci. Lo storico torinese Angelo D’Orsi a distanza di sette anni dalla pubblicazione della sua biografia di Antonio Gramsci (Gramsci, Una nuova biografia, Feltrinelli, aprile 2017), ci propone un volume che egli presenta non come una nuova edizione del “vecchio testo”, ma proprio come un altro libro, questa volta definitivo sull’argomento, intitolandolo Gramsci. La biografia (stesso editore, aprile 2024). Che si possa dire qualcosa di definitivo su qualsiasi argomento e, dunque, anche sulla biografia di Gramsci, come fa intendere l’uso dell’articolo determinativo, mi lascia piuttosto scettico, ma è certo che questo libro ad oggi si può considerare come una summa del sapere biografico sul fondatore del Partito comunista d’Italia.
A me le biografie piacciono non tanto per quel che
dicono sulla vita privata di un uomo, il che spesso mi sembra piuttosto
sconveniente e indiscreto, quanto per quel che raccontano di un’epoca storica
nella quale un dato personaggio visse e operò, interagendo con i suoi simili; tanto
più se a questo si aggiunge l’analisi di un pensiero ancora vivo e capace di
suscitare la riflessione sul presente e sul futuro da parte dei contemporanei.
A questo fine uno studioso di valore come D’Orsi, già ordinario di Storia del
pensiero politico presso l’Università di Torino, ha lavorato per molti anni
sulle carte (gli articoli, le lettere e i Quaderni) e sulla letteratura
gramsciana, le prime numerose, la seconda vastissima, stante la fama mondiale
del biografato. Se ne dà ampia notizia nella Bibliografia che chiude il
volume.
Ci sono vari tipi di dizionari. Dizionari
storici, che registrano il lessico della nostra lingua scritta, dalla
documentazione più antica fino alla contemporaneità; dizionari etimologici, che
ricostruiscono la storia delle parole a partire dalla prima attestazione,
registrandone gli sviluppi, la diffusione nelle diverse aree del paese e i
cambiamenti di significato nel tempo; e ancora dizionari settoriali,
specialistici, dei sinonimi, dei modi di dire, ecc. Molto conosciuti e
consultati sono i dizionari dell’uso o generali, di solito
pubblicati in un unico volume per garantirne la maneggevolezza. Essi comprendono
le voci (all’incirca 90.000-130.000 lemmi) con cui un parlante o uno scrivente potenzialmente
può entrare in contatto nel corso della vita, in modo passivo o attivo. Ovviamente
un singolo individuo, anche di buona cultura, non conosce il significato di
tutte le parole registrate in un dizionario e normalmente ne usa di meno
rispetto a quante ne conosce. Inoltre i dizionari dell’uso non documentano per
intero il lessico italiano, considerato nella globalità della sua storia e
delle sue manifestazioni: ad esempio, non possono ospitare tutte le parole della
letteratura antica, quando esse non si siano mantenute nella lingua contemporanea;
né accolgono tutte le neoformazioni e i prestiti recenti (a volte effimeri) né
voci specialistiche che, esclusive di ambiti tecnici e scientifici ristretti, non
entrano nella lingua comune.
Lo scopo dei dizionari dell’uso non
è la selezione delle parole secondo criteri puristici e valutativi, ma la coerenza
della documentazione: viene preso in considerazione il lessico di tutti i
settori della vita e di tutti i livelli d’uso, comprese le voci gergali,
volgari e le parole “delicate” (tabù, lessico erotico-sessuale), senza selezioni
di tipo moralistico, ideologico, ecc. Dato che quasi tutti i dizionari dell’uso
vengono aggiornati regolarmente, essi riflettono anche le tendenze più recenti
dello sviluppo lessicale. Accanto alle edizioni cartacee esistono di norma
versioni su CD-ROM o su penna USB che permettono indagini molto dettagliate
sulla storia, sulla struttura e sulle stratificazioni del lessico.
In più d’un’intervista Amelia Rosselli esprime ammirazione per il poeta-asceta di Melicuccà: silenzio e solitudine sprezzati valori, necessari paesaggi: per Lorenzo Calogero.
Riassunto. Il saggio si occupa del dotto ebreo del XII secolo Beniamino di Tudela e del suo viaggio, che tocca anche Otranto. Dopo una prima parte dedicata ad una sommaria ricostruzione della condizione degli ebrei nell’Italia meridionale e in particolare ad Otranto nei secoli dell’Alto Medioevo fino all’arrivo di Beniamino, una seconda parte dedicata alle vicende storiche di Otranto nel medesimo torno di tempo, nella terza parte si analizzano l’esperienza di Beniami
Abstract. The essay deals with the 12th century Jewish scholar
Benjamin of Tudela and his journey, which also touches Otranto. After a first
part dedicated to a summary reconstruction of the condition of the Jews in
southern Italy and in particular in Otranto in the centuries of the Early
Middle Ages until the arrival of Benjamin, a second part dedicated to the
historical events of Otranto in the same period of time, in the third part,
Beniamino’s experience and his work are analysed.
Nel XII secolo, ad Otranto, giunge un visitatore ebreo
spagnolo, Benjamin di Tudela, che ha intrapreso un viaggio in giro per il mondo
forse in cerca di nuove esperienze.
Chi era questo viaggiatore?
Il rabbino Benjamin MiTudelo, ovvero בִּנְיָמִין מִטּוּדֶלָה, Benyamin
ben Yonahdi Tudela (questo il nome ebraico), meglio
conosciuto come Benjamin di Tudela (1130-1173) era un geografo ed esploratore
ebreo, originario della Navarra. Lasciò Tudela, in Spagna, tra il 1159 e il
1163, e vi tornò nel 1173. Viaggiò per più di dieci anni visitando comunità
ebraiche e non ebraiche in tutto il mondo e scrivendo delle sue esperienze. La
sua opera, I
viaggi di Beniamino, מסעות בנימין, Masa’ot Binyamin, anche nota in
ebraico come ספר המסעות, Sefer ha-Masa’ot, ovvero Il libro
dei viaggi, è considerata la
prima relazione di viaggio di un europeo in Asia, dunque precedente a
quella di Marco Polo, per questo molto importante per gli studiosi. Anzi, si
può dire non esista alcun resoconto generale del mondo mediterraneo o del Medio
Oriente della metà del XII secolo che si avvicini per importanza a quello di
Beniamino di Tudela, sia per gli ebrei che per la storiografia sul Medioevo[1].
Augusto Benemeglio, è un poeta, ma anche un drammaturgo originale, un regista, un appassionato della scena teatrale che lui stesso considera un suo mondo, uno spazio che gli appartiene come un paesaggio interiore, necessario e vitale. E’ un artista che ha fatto della sorpresa, dello scarto dalla norma, della rivelazione inaspettata, la sua ragione di vita; un uomo che ha conosciuto il mare, avendo fatto il marinaio per trent’anni della sua vita, (è stato Capitano di Vascello della Marina Militare), e ha conosciuto il mondo nei suoi molteplici viaggi. E’ uno che sa inquadrare al primo impatto le persone e leggere le situazioni intorno a sé, uno che sa rievocare con struggimento, ma anche con sottile ironia, tutti gli arrembaggi e naufragi della sua vita, reali o immaginari che siano, come ha fatto mirabilmente con questo “Arrembaggi e Naufragi”, edizione Youcaprint, 2023, un libro-mondo, in cui entra a contatto ravvicinato, faccia a faccia, con i più grandi personaggi della storia del mare e ne traccia rapidamente il profilo. Dall’Odissea di Omero all’Isola del tesoro di Stevenson; da “Il vecchio e il mare” di Hemingway all’Uomo e il mare di Baudelaire; da “Cuore di tenebra” di Conrad, ai grandi navigatori della storia come Amerigo Vespucci , o grandi Ammiragli come Andrea Doria, Enrico Dandolo, Horace Nelson, che viene rievocato nella battaglia di “Trafalgar”, in cui trovò la morte. E poi c’è la mitica impresa di Luigi Rizzo, che affondò una corazzata austriaca col suo Mas 15, conservato al Sacrario delle Bandiere del Vittoriano di Roma. E infine l’incredibile impresa del “Donchisciotte del mare”, il Comandante Salvatore Todaro, che, dopo aver affondato , in pieno Atlantico, una nave, il “Kabalo”, si preoccupa dei 26 naufraghi della stessa e li trae in salvo, prendendoli a bordo del suo sommergibile, stipandoli nella falsa torre, e dopo tre giorni di navigazione in superfice, per centinaia e centinaia di miglia, riesce a depositarli nella cala di Santa Maria, nelle Azzorre, tutti indenni. Richiamato dall’ammiraglio tedesco Doenitz per il suo comportamento non consono alle esigenze della guerra, Todaro rispose: “Gli altri comandanti non hanno, -come me-, duemila anni di civiltà sulle spalle”. E poi c’è l’Ulisse di Dante, l’Infinito di Leopardi; la Tempesta di Shakespeare. I riferimenti mitici e letterari sono tanti, infiniti, o quasi, ma fin dal suo primo racconto, “Niente Bagagli, siamo Gabbiani”, Benemeglio cimette in contatto con il suo mondo amato: gli oceani, i gabbiani, la natura, i fari, le navi, il Salento, il Sudafrica, il cinema (da Hitchcock a Woody Allen), il teatro (Cechov), ma anche la pittura, la musica, e la società di oggi, con le sue apocalissi quotidiane e il kitsch imperante, e le memorie dolorose come quella di Capo Matapan, in Grecia, con 2300 marinai morti per assideramento.
A partire dalla “letteratura”, che “è
il pensiero che accede alla bellezza nella luce”, di cui Augusto è
intessuto, (ogni cosa in lui si fa poesia) ai “grandi navigatori, ai
grandi scrittori di mare”, e poi “il mito”, “la storia”, “l’arte”, “la
famiglia”, il Salento, questo libro di 500 pagine si configura come un lungo
viaggio verso l’ignoto , l’altrove , ricordando che – come disse Melville – “il
mondo è una nave al suo viaggio di andata, non un viaggio completo”. Che cosa
rimane alla fine , dopo cinquant’anni di “arrembaggi” e “naufragi”? Non si sa, bisogna
aspettare il “ritorno”. Ma in una folla di volti e figure, a noi note e
meno note, un volto solo rimane, una sola figura, invisibile: l’anima.
In occasione delle Giornate Europee dell’Archeologia, 14-15-16 giugno 2024, prendendo spunto dal dipinto Domus Vestae del Foro Romano eseguito da Giuseppe Pàstina (Andria 1863-Roma 1942), nella Pinacoteca Metropolitana “Corrado Giaquinto” di Bari verrà allestita una mostra incentrata sui tre dipinti dell’artista in possesso dell’Istituzione con testi esplicativi volti a documentarne l’attività svolta a fianco di Giacomo Boni (Venezia 1859-Roma 1925), uno dei padri dell’archeologia moderna, destinata a incidere sul suo percorso pittorico.
L’iniziativa costituisce pertanto l’occasione per approfondire l’intenso rapporto che Giuseppe Pàstina – oltre che pittore, musicista, critico d’arte, avvocato – ebbe con le vestigia dell’antichità, rapporto di cui si era persa ogni traccia e che viene per la prima volta portato alla luce in questa circostanza.
La mostra inizia il 14 giugno e si protrae fino al 30 settembre 2024.
Goethe nella campagna romana (Goethe in der Campagna) di Johann Heinrich Wilhelm Tischbein.
In quel variegato serbatoio di impressioni e di pensieri, di osservazioni e di annotazioni fuggevoli oltre che di dure schegge di riflessione, (e mi riferisco al suo Viaggio in Italia), Goethe riversò non solo le sue impressioni di viaggiatore attento e curioso ma anche, come avviene a chi non è superficiale e un po’ distratto “turista”, molti suoi pensieri, delle buone riflessioni su come vada il mondo e come si comportano gli uomini. Insomma, il bel bagaglio che si accresce con gli acquisti e con le esperienze arricchiti a mano a mano lungo il cammino. Ed è proprio in questo repertorio degli “acquisti” che si torna a guardare di tanto in tanto per rinfrescare la memoria, per ripensare riposatamente qualche osservazione utile sulla quale soffermarsi. Sulla seguente, ad esempio, estratta dal complesso un po’ a caso ma degna d’essere meditata. Scrive Il poeta mentre è a Roma: “… più volte ho avvertito nella vita, che l’uomo che vuole il bene deve condursi con gli altri in modo non meno attivo e intraprendente dell’egoista, del meschino, del cattivo. Constatarlo è facile; non lo è altrettanto agire in conformità”.
vivamente
la ringrazio del bellissimo racconto Il gobbo Rosario di Bodini. Mi
era sfuggito, giacché quella rivista
giornale che sia mi risulta (subito cestinato)
repellente
com’è impaginato*, un’offesa alla ragion pratica e critica del giudizio. E perché il racconto è presentato da uno che si firma Piero Manni?
Ritorno, per un paio di giorni, a
Lecce, la città dello “Zimbarieddhu”, al secolo Giuseppe Zimbalo, il più
grande esponente di una dinastia di capomastri e architetti salentini, che
esprime il meglio del barocco leccese, categoria dello spirito…. “Qui è
speciale il taglio delle ombre – mi disse padre Gonzales Martin,
letterato, storico, meridionalista – , per la sua chiarezza, sono ombre
calde. E’ il clima che fa crescere bene gli olivi e le palme, e poi quel che ti
conquista è il vivere sulla strada, sulle porte di casa, sui marciapiedi,
questo vivere in strada porta la gente a dialogare ad essere più loquace e
quindi disposta ad accogliere (parliamo di una ventina di anni fa, ora le cose
sono cambiate, n.d.r.). E infine quei ricami di pietra che sono le chiese. Il
barocco leccese è ricco volubile fiorito stravagante, una sorta di liberty, un’esplosione
di follìa, libertà, gioco… Lecce ha una sua bellezza fragile e armoniosa,
aristocratica, una città che si sposa col colore della sabbia, della pietra, e
col verde argentato degli ulivi…ma io m’incanto a guardare il romanico, così
arioso, chiaro, scabro, nudo, essenziale, con una semplicità che è adesione
all’innocenza e novità al mistero. Significa farsi puri e semplici di fronte a
Dio. E’ come voler veramente farsi una casa di luce, la casa del sole e di Dio,
con quella line geometrica, la pulizia, che trovi anche nelle architetture
rurali…”.
E così, come quasi sempre, anche questa volta ho perso le elezioni. Come da 50 anni a questa parte. Dovrei essere contento e, in effetti, lo sono: ho sempre 20 anni. Chiedete a un pescatore di 70 anni come va la pesca, vi dirà: male! Cinquant’anni fa sì che andava bene. Uno di 60 vi dirà che 40 anni fa le cose andavano bene. Uno di 50 parlerà di 30 anni fa come periodo d’oro. Fino ad arrivare al pescatore di 20 anni che dirà che le cose vanno male, perché nessun pescatore dirà mai che le cose vanno bene. Cosa hanno in comune queste affermazioni? Coincidono tutte con i 20 anni di chi dà il giudizio. Le cose andavano bene quando avevano 20 anni, anche se i ventenni si lamentano del presente senza rimpiangere il passato. Nel mio caso elettorale vanno male come quando avevo 20 anni, e quindi vanno bene. La mia impressione è che non sia cambiato nulla rispetto a 50 anni fa. Ma, ovviamente, mi sbaglio. Prendiamo la musica, ad esempio. Due settimane fa ero a Palermo, per il primo convegno del National Biodiversity Future Center. Tra una riunione e l’altra vado in un bar a prendere un caffè. Ci sono tre ragazzi di 20 anni. Uno si lamenta del proprio nome: Rocco. Avendo insegnato a ragazzi (e ragazze) di 20 anni per più di 40 anni, mi sento a mio agio con loro, e quindi intervengo: Rocco non è poi così male, dico. Mi guardano con aria interrogativa. Madonna, ad esempio, ha chiamato così suo figlio. Si guardano ancora più perplessi e Rocco mi dice: ma non l’aveva chiamato Gesù? I tre non conoscono Madonna, la cantante. E la mia affermazione ha comunque messo loro il dubbio che Gesù, in realtà, si chiamasse Rocco. Detto Gesù. Ho sorriso, e ho pagato i loro caffè, scusandomi per l’intrusione. Mondi oramai diversi, con punti di riferimento diversi.
Il centro storico di Galatina, domenica 26 maggio scorso è stato il teatro di un evento artistico straordinario: “Frammenti”, a cura di Raffaele Gemma. Si è trattato del secondo step di Syncronicart-6, Sesta Edizione della Biennale d’arte Contemporanea nel Salento in Progress. Ricordo che il primo step si è svolto a Galatina nel periodo natalizio dello scorso anno ed ha visto la presenza di ben 44 artisti salentini (ma non solo) e una grande partecipazione di visitatori.
Alle h. 18:00 un corteo organizzato dal gruppo Interceptor si è avviato da Piazza San Pietro verso Via Umberto I, fino al numero civico 17, portando le chiavi simboliche di Art Lab Second light, la galleria di Corrado Marra (in arte Corrima), che ha aperto le porte delle performances-installazioni.
Sei le presenze
artistiche che si sono alternate in un’azione multidisciplinare che mette in
scena una frammentazione ed una ricomposizione degli elementi della sfera
d’interesse dei singoli artisti, sapientemente coordinati dal curatore
dell’evento. Le azioni interessano l’arte contemporanea, le performances, la
musica, la grafica, la poesia.
La natura e la sua
interazione con l’uomo è uno degli argomenti principali e riguarda l’intervento
di Corrima (Resilienze), Fernando Martinelli (Frammenti di tempo),
Renato Grilli (Frammento orale). La memoria delle relazioni umane e del
vissuto veicolata dai frammenti di oggetti o di tessuto è il settore
d’interesse di Fabrizio Manco (Mend). La musica nell’attimo stesso in
cui si origina è il campo d’azione di Donatello Pisanello (Frammenti di
suoni), mentre Roberto Zozzoli è orientato verso la grafica e
l’architettura (Frammenti di grafica). Sei artisti originali e
imprevedibili, che hanno attirato l’attenzione del pubblico di visitatori
accorso in gran numero per partecipare a quella che potremmo definire una
rappresentazione artistica collettiva, che si è svolta nell’arco di due ore e
da cui sono risultate alcune installazioni artistiche di gran pregio, ora
fruibili per alcuni giorni nelle sale di Art Lab Second light da chi non ha
potuto presenziare all’evento. Dietro l’improvvisazione e il risultato
imprevedibile s’intuisce un profondo studio e una forte carica emozionale che
richiede di essere comunicata agli altri.
Amin Malouf, Segretario perpetuo dell’Académie française
Il presente è un posto dove porta il passato.
Non c’è un solo fatto, un solo evento che possiamo capire se non abbiamo idea
di come ci si sia arrivati.
Così dice Amin Maalouf, lo scrittore francese
premio Goncourt nel corso di un’intervista a Francesca Pierantozzi, pubblicata
dal Messaggero del 5 marzo scorso.
Il passato come un luogo che abbiamo abitato,
in cui abbiamo vissuto. In quel luogo abbiamo avuto felicità, abbiamo avuto
dolori, sentimenti, esperienze, storie,
passioni. In quel luogo abbiamo incontrato creature: volti, voci,
parole, silenzi, stupori. Quello che siamo, il modo in cui siamo, è maturato
nelle stagioni trascorse in quei luoghi. Lì abbiamo imparato a confrontarci con
noi stessi, con gli altri, con quello che accade, con la realtà e
l’immaginazione, con il progetto di una vita, il previsto e l’imprevisto, il
caso, il destino. Chi non si confronta in continuazione con il passato, chi non lo interroga o non tiene in
conto le risposte, non può sapere da
quale luogo viene, né in quale luogo vive, in quale luogo va. E’ un estraneo
alla propria storia di uomo. Non appartiene. Non ha radice.
Per una civiltà è la stessa cosa. Anche una civiltà proviene da un luogo chiamato passato. Poi, certo, quel luogo da cui viene nel tempo si modifica, somma le stratificazioni che lo conformano, integra elementi nuovi, intreccia i racconti, ma quasi sempre conserva il nucleo che lo ha generato. Senza una consapevolezza del luogo da cui proviene, una civiltà è costretta a subire crisi più o meno evidenti, più o meno profonde. Forse quando si manifestano i segni di una crisi significa che per quella civiltà sta cominciando un processo di snaturamento dell’identità, che si stanno sfilacciando le radici, che coloro che la abitano non avvertono più il sentimento di appartenenza.
Con l’amico Gaetano puntammo verso Torre
Inserraglio, quella notte (Fernando era di turno in ospedale, ci avrebbe
raggiunti al mattino). Nella zona di S. Maria al Bagno, un venticello da Sud
arrivava molle, per cui dovevamo spingerci dove la costa è più aperta, per
‘trovare’ un po’ di mare: Torre Inserraglio, appunto. Ci posizionammo alla
destra della piattaforma dell’omonimo villaggio, dove onde a ritmo cadenzato
s’infrangevano sulla costa, spumando. Alle nostre spalle poggiammo una busta
con delle pesche, un thermos di caffè e una puccia alle olive imbevuta
d’olio, oltre alla custodia delle canne. Ebbe inizio quella fase preliminare
cui ho dato sempre molta importanza, la pastura, e le occhiate vennero sotto
costa, attratte dal nostro richiamo.
Tutt’intorno era buio, solo in
lontananza qualche timida luce tra case sparse. Una volpe squittì nella notte. Arrivò l’alba e un sorso di
caffè caldo calzava ad hoc. Gaetano si alzò a prendere il thermos, quando:
“Porca vacca”, gridò allargando le braccia, “ci sono state visite stanotte”.
Sulla scogliera c’erano i segni d’un convivio di gruppo: le pesche morsicate in
più punti, la puccia addentata, tutto sparpagliato. Maledetti sorci
notturni!
Riassunto. Nel
1680 fu concesso il permesso di trasferirsi nell’America Amazzonica al gesuita
salentino Francesco Viva (Lecce,1654 – Cuenca Ecuador, 1703), fratello del
più noto teologo e anch’egli gesuita Domenico Viva (1647-1726). Francesco
si fece promotore di più campagne finalizzate alla “pacificazione” e alla
“riduzione” degli indomiti Jivaros / Shuar. Tragici e
infruttuosi furono gli esiti di queste entradasche
si svolgevano sotto l’egida della Corona spagnola. L’intraprendente
ignaziano trovò anche il modo per auto finanziare le spedizioni tra gli
indios, in particolare attraverso la commercializzazione della
corteccia della chinoa, di cui i gesuiti detenevano il monopolio sul mercato e
che, ridotta in polvere, veniva somministrata come terapia contro la febbre
già nel XVII secolo.
Abstract. In 1680, permission was
granted to move to Amazonian America to the Salento Jesuit Francesco Viva
(Lecce, 1654 – Cuenca Ecuador, 1703), brother of the most famous theologian and
also a Jesuit Domenico Viva (1647-1726). Francesco promoted several campaigns
aimed at the “pacification” and “reduction” of the
indomitable Jivaros / Shuar people. Tragic and unsuccessful were the outcomes
of these entradas which took place under the aegis of the Spanish Crown. The
enterprising Jesuit also found a way to self-finance expeditions among the
Indians, in particular through the marketing of chinoa bark, of which the
Jesuits held a monopoly on the market and which, when reduced to powder, was
administered as a therapy against fever since from 17th century.