A cura di Gianni Antonio Palumbo, esce a Chieti, in questo scorcio del 2025, per le Edizioni Solfanelli del Gruppo Editoriale Tabula Fati, il volume dedicato all’opera letteraria di Anna Santoliquido, col titolo In ascolto ai crocicchi Anna Santoliquido tra poesia e teatro. Come nota opportunamente Gianni Antonio Palumbo nella sua introduzione, Anna Santoliquido, lucana di Forenza, ha saputo coniugare l’attività di animatrice culturale in qualità di fondatrice del “Movimento Internazionale Donne e Poesia” con la bellezza di una scrittura poetica visionaria e struggente, radicata nel mondo contadino e anche, in parte, nel suo idioma forenzese, ma pronta anche a immergersi nell’accidentato territorio delle contaminazioni, come dimostrano i suoi Versi a Teocrito (2015) che stanno ad indicarci, come scrivo nella mia prefazione a quella raccolta poetica, la sua capacità di espandersi in una sapienzialità di nitore classico, in cui il brivido metafisico convive con le sfaccettature di un reale abitato sempre più dalla violenza, facendosi così carico del dolore del mondo, senza perdere eleganza e controllo, nel suo strazio testimoniale e nella sua morale oltranza, generando fascino esoterico, trasparente memoria di coinvolgenti rituali, densi di silenzi di millenni.
Tutti i lettori della poesia di Anna Santoliquido ben conoscono quale magmatico accendersi di sensazioni venga registrato nei suoi versi, tradotti ormai in molte lingue e noti in molti paesi europei: mente e corpo femminili come affilate armi di conoscenza, incessante scavo all’interno del proprio animo, inesausta esplorazione delle possibilità della parola di mordere l’ambiguità del reale, partendo dall’insofferenza dei confini e trattando la poesia come forma di un dialogo difficile (ma necessario) tra tutti i popoli che vogliano raggiungere, nella pace, le condizioni per ricercare ciò che ci lega ed unisce più del poco che ci separa artificiosamente.
In
altri ed intensi momenti poetici, nella forma delle sillogi poetiche o del
poemetto, Anna Santoliquido ha vissuto e reso la cosmicità del far poesia,
attraverso una sapienzialità di nitore classico, nella quale il brivido
metafisico riesce a convivere, in modo anfibio, con la capacità di analizzare
le tante sfaccettature del reale, le facce di un mondo abitato spesso
dall’infamia e dall’ingiustizia e rigato di lacrime e di sangue innocente. E la
sua poesia, senza perdere eleganza e controllo, ha saputo farsi carico del
dolore del mondo, facendosi strazio testimoniale ed insieme morale oltranza.
Ora, memoria e viaggio, modalità entrambe utili per cogliere l’errante anima poetica della scrittrice lucana, convivono nei Versi a Teocrito per regalarci un’immagine inedita di un lembo della terra di Omero, ricca di fascino esoterico e di richiami poetici, storici e mitici tanto legati alla cultura classica che, per noi italiani, è parte integrante e decisiva della tradizione letteraria. I versi scelgono come Musa Teocrito, il poeta degli idilli fulminanti e raffinati e come guida la dea Demetra, la dea del grano e della gioventù, la portatrice delle stagioni che fornisce alla poesia la dura concretezza dell’incudine, la fatica del lavoro della conoscenza, come ci dicono subiti i primi versi del poemetto.
In principio è
il mare: quello che Charles Baudelaire chiamava “un infini dimunutif”, una
approssimazione d’infinito. Non potendo rappresentare l’infinito, allora si
rappresenta la sua metafora, la sua approssimazione, la condizione che conduce
il pensiero alla soglia dell’idea di sconfinatezza, di movimento incessante. In
principio è il mare, come movente dell’immaginazione, come dimensione della
collocazione dell’umano tra la finitudine e l’infinito. Il mare e basta. Tutto
quello che compare nel paesaggio si confronta con il mare. Una torre, per
esempio. Esiste perché esiste il mare, per scrutarlo. Un faro, per esempio. Non
esisterebbe senza il bisogno dell’indicazione al navigante di un punto per
l’approdo. Il mare è, da sempre, l’elemento predominante nella pittura di
Antonio Chiarello. Il mare e la torre. L’infinito e il finito. L’eterno e il
transeunte.
Ho fatto parte della giuria di un festival del cinema. La mia proposta di premiazione, non condivisa da nessuno, cadde su The age of consequences, un film di Jared Scott, del 2016. Non è un film strappalacrime sull’elefantino malato, e neppure denuncia l’inquinamento da plastica. È una serie di interviste ai generali del Pentagono, che dicono: il cambiamento globale causa sommovimenti geopolitici che mettono a rischio la sicurezza nazionale del paese (gli USA) e non siamo certo noi (i generali) ad avere le armi per fargli fronte. Il mestiere dei generali è di riconoscere le possibilità di crisi strategiche e di farvi fronte con i mezzi a disposizione: aerei, missili, navi, droni e altro. Riconoscono che le loro armi sono spuntate, a fronte di certe minacce. Lo capirono già l’11 settembre. Gli attacchi alle torri gemelle e al Pentagono furono realizzati da tre gruppi di dirottatori suicidi, e gli USA furono colpiti al cuore. Che sarebbe successo se un aereo fosse stato lanciato su una centrale nucleare? Meglio non pensarci.
chi ha assistito ai
Suoi concerti non riesce a dimenticare le Sue mani mentre dirigono la Nona di
Mahler – e la sinistra immobile eppur fremente appoggiata sul petto che rende
visibile il silenzio finale, vitale, fecondo a chiudere il quarto movimento.
È musica il silenzio,
raccolta meditazione, commossa promessa.
Pubblicato
dall’Editore Mario Congedo il volume di Pietro Giannini e Biagio Virgilio, Galatina
dall’Antichità al Medioevo, e oltre
di Gianluca Virgilio
La prima cosa che faccio quando
prendo un nuovo libro in mano e mi accingo a leggerlo, avendone sentito il
semplice profumo della necessità, è di informarmi sugli autori. Nel caso del
volume di Pietro Giannini e Biagio Virgilio, Galatina dall’Antichità al
Medioevo, e oltre, Mario Congedo Editore, Galatina 2025, questo non è stato
necessario: da lunga data conosco bene l’uno e l’altro autore, in primo luogo
perché sono miei concittadini, e soprattutto perché nel corso degli anni ho
avuto modo, nei limiti delle mie competenze, di seguire i loro studi e di
apprezzarne il valore. Pietro Giannini (classe 1945) è Professore Emerito di
Letteratura Greca dell’Università del Salento, Biagio Virgilio (classe 1944) è stato
Professore Ordinario di Storia Greca e di Epigrafia Greca nell’Università di
Pisa. Due grecisti galatinesi, dunque, e perdipiù coetanei e di lunga
esperienza. Il che spiega bene come siano riusciti ad operare all’unisono
nell’elaborare un’opera che si avvale delle loro competenze specifiche, messe a
frutto attraverso “il nostro metodo di ricerca storico-filologico”, come
scrivono gli autori nella Premessa, “metodo che viene dalla grande
tradizione della storiografia propria del mondo classico” (pp. VII-VIII).
L’approccio all’antica storia di Galatina è dunque nuovo e nuovi sono i
risultati.
Nel primo capitolo, il più lungo
ed articolato (pp. 7-109), dal titolo Per la storia di Galatina
dall’Antichità al Medioevo, sbarazzatisi dell’ipotesi di una presenza degli
antichi Greci a Galatina (“… degli antichi Greci o degli Ateniesi non solo non
vi è nessuna traccia a Galatina, ma neppure è storicamente ragionevole cercarla
in un luogo così interno del Salento messapico.” p. 28), i due autori
ripercorrono la storia del toponimo Galatina (Calatina), da intendersi
“non tanto come « territorio, terra della famiglia Galati », quanto piuttosto
come « territorio, terra dei Galatini (gli abitanti) ».” (pp. 30-31). In
un documento del 1188 Galatina sarà denominata casale Sancti P(etri) de
Galatina, dove per casale è da intendersi “un agglomerato di case (privo di
difesa o tutt’al più protetto da un muro o da una torre), un abitato rurale
aperto, un sobborgo o borgo rurale a sé stante, vicino o subordinato a un
centro urbano maggiore di riferimento, con o senza un suo “signore” (dominus).”
(p. 40). Bisognerà attendere la metà del XIV secolo prima che Galatina
raggiunga lo status di città, grazie alle “opere di urbanizzazione
documentate dalla iscrizione greca del 1354/5 esposta sulla chiesa di san
Giovanni” (p. 48, ma l’iscrizione sarà studiata nel paragrafo 4), una chiesa
ora distrutta che si trovava nei pressi di Porta Nuova. Interessante il
paragrafo 3 del primo capitolo, nel quale gli autori si propongono,
contrariamente a quando finora fatto dagli studiosi, di “integrare fra loro
manoscritti greci e documenti di cancelleria e di ricomporre dalla loro
integrazione un quadro più articolato del casale e della storia medievale di
Galatina.” (p. 49); stante il fatto che “San Pietro in Galatina, per tutto il
Duecento e i primi decenni del Trecento è stato uno dei più importanti centri
di produzione di manoscritti greci in Terra d’Otranto” (p. 93).
Edmondo De Amicis, dopo la pubblicazione tra il 1873 e il 1876 dei suoi fortunati reportages di viaggio è ormai un autore seguito con interesse crescente dal pubblico dei lettori del tempo, al punto che la notizia dell’imminente pubblicazione nel 1877 di Costantinopoli apparsa sulla stampa creò problemi allo stesso editore Treves, il quale fu costretto, nonostante gli annunci sulle pagine della “Gazzetta Piemontese” del maggio 1877, a rinviare di qualche giorno la pubblicazione a causa dell’alto numero di richieste pervenute e del conseguente lavoro tipografico. In realtà, le corrispondenze erano già a disposizione del pubblico sulle pagine de “L’Illustrazione Italiana”, delle “Serate Italiane” e della “Gazzetta Piemontese” nel 1877, ma Treves volle anche raccogliere tutte le corrispondenze in un volume, in una versione che risulterà poi con un indice meno corposo ( diciassette capitoli in luogo dei quarantanove anticipati sempre sulle pagine della “Gazzetta Piemontese”).Per venire incontro alle aspettative dei lettori avidi di esotismo verrà anche pubblicato, per gentilezza dell’editore, un estratto del volume che riguardava solo le prime impressioni e l’arrivo a Costantinopoli. Devo dire, come impressione di lettore, che quel libro di viaggio piacque molto e vanta anche uno straordinario numero di traduzioni e un fascino che attirerà molti futuri grandi scrittori a Istanbul (tra cui Adolf Veber Tkalčebić e Orhan Pamuk). La durata del soggiorno di De Amicis a Istanbul fu breve, solo pochi giorni, sufficienti per “colmare un taccuino pieno di osservazioni, basamento del futuro reportage, che venne scritto dunque al rientro in Italia”, come scrive Camilla Bencini che, insieme agli studi di deamicisiani di Valentina Bezzi e Bianca Danna, ha scritto cose molto interessanti su De Amicis reporter e scrittore odeporico.
La cappella polacca di s. Stanislao di Cracovia torna a splendere dopo
il restauro progettato ed eseguito nella ricorrenza del centenario dell’indipendenza
della Polonia. Sono stati sistemati gli affreschi di Taddeo Popiel (1863-1913),
eseguiti nel 1899 e numerosi busti e lapidi collocati all’interno della
cappella, con benedizione del 10 dicembre 2018 (lavori iniziati nel 2005).
Il 30 dicembre 1489 Francesco Lanzarotti ordinò nel suo testamento di essere
sepolto al Santo nella cappella di famiglia dedicata a s. Bartolomeo. Il 23
novembre 1559 i frati della basilica del Santo avevano concesso ai Polacchi che
un loro compatriota, studente dell’Università, venisse sepolto nella cappella
di s. Bartolomeo, giuspatronato della famiglia Lanzarotto. Ne venne una lite
che stava per nascere anche in seguito a un testamento di un esponente della stessa
famiglia non eseguito. Il 23 novembre si arrivò ad un accordo. I frati ammisero
che la cappella da moltissimo tempo era dei Lanzarotto, che vi erano le loro
insegne e i loro monumenti sepolcrali. Un’iscrione recitava: “Hic
jacet Nobilis, et egregia Dna Francisca Quirina de Venetijs, uxor olim nob. Viri Fruzeri de Lanzarotis de
Padua, quae obiit anno Domini 1327 die 20 februrii”. I Lanzarotti concessero che per
quella volta nel muro laterale della cappella fosse costruito un monumento al Polacco
purché nell’iscrizione fossero aggiunte le parole “et hoc de consensu
Nobilium de Lanzarotis, et ex eorum
liberalitate”. Ma il 10 settembre 1604 i padri del Santo avevano
concesso ai Polacchi come cappella di loro nazione e per farvi i loro sepolcri,
la cappella Turchetto, ossia la cappella delle Stimmate che era stata data in gestione allo “Spitale
di S. Francesco”. L’Ospedale, cui era stata assegnata in commissaria quella
cappella, tuttavia vi si oppose. Nella stessa data i padri si interessavano per
vedere quali cappelle erano libere da giuspatronato per poi stabilire quale assegnare agli stessi Polacchi.
Sarà presentato sabato 3 maggio 2025 a Galatina, nello splendido scenario del Chiostro dei Domenicani, alle ore 19.00 l’ultimo romanzo di Paolo Vincenti, Le storie dello scirocco (Besa 2024), un libro che unisce in singolare connubio alto e basso, ovvero la prosaicità della vita con i suoi aspetti lirici. Le storie di questo libro sono ambientate ad Oppido Tralignano, un paese immaginario e sonnolente del sud Italia, dove si muovono i vari protagonisti, ciascuno desideroso di cercarsi delle avventure, anche soltanto immaginandole, in un contesto che tenderebbe invece a deprivarli degli slanci vitali. Ma la blanda insurrezione posta in atto si rivela velleitaria, superficiale, inefficace, e tutti rimangono infangati della propria indolenza. La storia parodizza il disincanto di una provincia letteraria, col suo non-essere per chissà-forse-essere, che sbuggera se stessa nell’inganno soporifero dell’autosuggestione. Il romanzo, che si potrebbe definire un Satyricon degli anni Duemila, è popolato da personaggi bizzarri, macchiettistici, talora surreali. Lo è Lorenzo, sedicente scrittore, più allettato dai piaceri carnali e dalle avventure facili, che coltiva un vago sogno di gloria. Lo è Fabrizia, nipote del parroco del paese, Don Aristarco, assai corrotto, ma lo è soprattutto la figura pantagruelica del Barone Gattamelata, nobile decaduto, vizioso e corruttibile, dotato purtuttavia di una simpatia addirittura coinvolgente. Il linguaggio usato è duttile, pirotecnico, modellato sulle tendenze e sui caratteri dei vari protagonisti, e quindi mutevole, come gli aerei umori e le sorti degli stessi. Nel mentre si snoda la trama boccaccesca del romanzo, a farla da padrone è lo scirocco disfacente, tipico del clima del Sud, un elemento costante delle varie storie che rende con i suoi malarici miasmi ancor più subdolo, untuoso, l’ambiente; una energia negativa risucchia chiunque, e ad ognuno non è dato che ridere di se stesso, drammaticamente, goffamente, qualche volta persino gioendo. Dopo l’Introduzione del Consigliere Comunale Davide Miceli, parleranno del libro la prof.ssa Anna Stomeo (Soc. Storia Patria Puglia di Lecce) e l’ing. Marco Cataldo (Officine Cantelmo). Tutti invitati.
Nel Concerto
interrotto di Tiziano Vecellio il silenzio sta sospeso tra il ricciolo
della viola da gamba e la mano posata sulla spalla del ragazzo alla spinetta,
tra le dita di questi e i tasti fermi sotto la loro pressione.
Ammutolitosi il
madrigale nella stanza invisibile mentre il musicista più anziano sembra dire: «Andava
bene, ma rifacciamolo – può essere ancora migliore».
2.
Nel Concerto di
Tiziano Vecellio il trio interrompe per pochi attimi (che la pittura perpetua
per secoli) l’esecuzione gustando il piacere non della musica eseguita, ma di
quella che sta per riprendere – bellezza della sospensione, emozione del
silenzio d’attesa, contemplazione della vertigine.
3.
Nel Concerto
interrotto di Tiziano Vecellio il monaco agostiniano ferma l’esecuzione
invitando alla riflessione: che cosa nella musica sia memoria del passato che,
pure, non è propriamente passato se ancora riverbera nel presente e che cosa
sia anticipazione del futuro, visto che ognuno dei tre musicisti sa quello che
andrà a eseguire dopo l’ultima battuta suonata e cantata.
Musica è dunque
compresenza dei tre tempi che la mente distingue, ma che l’anima avverte (animadvertit)
nella loro non scissa continuità.
4.
Nel Concerto di
Tiziano Vecellio la voce umana in accordo coi due strumenti conosce sé stessa,
strumento ed espressione, suono e parola, variazione e colore.
Nel trio ogni linea
musicale s’intreccia con le altre, ne è contrappunto, se ne distacca e vi i
ricongiunge: se questo concerto è davvero interrotto allora esso è
meditazione e attesa, musica del silenzio e voce del vedere.
Risponde così Filomena
Marturano, ex prostituta, a Domenico Soriano, ricco pasticcere suo marito,
quando egli la minaccia di riportarla nei bordelli.
È vero, erano stati
chiusi. Chiusi il 20 Settembre del 1958, quando grazie alla legge Merlin fu scritta
la parola fine ad una delle più umilianti istituzioni che vivevano grazie alla
protezione dello Stato: le case chiuse, altrimenti dette bordelli, casini, postriboli,
case di meretricio, case di tolleranza. Luoghi di violenza e di depravazione che
malgrado ciò hanno ispirato la narrativa di Guy de Maupassant Boule de
suif, LaDame aux camèlias di A. Dumas figlio, il cinema Adua e le compagne, Mamma Roma, Rocco e i
suoi fratelli, Le notti di Cabiria, La Romana, Ieri, oggi, domani, il
melodramma con la Mimì della Bohème
di Puccini, e non ultimo Filumena
Marturano rappresentazione teatrale di Eduardo de Filippo. Solo per citarne alcuni.
La Costituzione è da poco
entrata in vigore, l’Italia sta rinascendo dalle ceneri fasciste, Togliatti è
vittima di un attentato, le donne hanno conquistato il diritto al voto, il Ministro
Scelba vieta il bikini…
Nella
Puglia normanna di Guglielmo il Malo, il presbitero Pantaleone fa realizzare
nel mosaico monumentale della cattedrale di Otranto un’immagine di Artù che
cavalca un animale cornuto: forse un ariete o addirittura un caprone. Siamo
intorno al 1165, e quarant’anni prima (1120) il mitico Re era stato
rappresentato sulla lunetta del duomo di Modena, mentre difende la sua donna da
un rapitore. Contemporaneamente, un
maestro di Oxford originario della cittadina di Monmouth compone una Storia
dei re di Britannia. Si chiama Goffredo, è un prosatore e poeta di cultura
raffinata e dalla scrittura latina di qualità elevatissima e la sua opera si
diffonderà anche grazie alla traduzione in anglo-normanno del poeta Wace,
canonico di Bayeux, pochi anni prima del lavoro di Pantaleone. In uno
strettissimo giro di anni, una oscura figura storica sorta dal violento periodo
(il V-VI secolo) in cui la Britannia abbandonata dai Romani veniva attaccata a
più riprese dai Sassoni diventa, grazie alla penna di Goffredo, un personaggio
a tutto tondo: è un sovrano vittorioso, che dopo aver respinto gli invasori,
conquista parte dell’Europa prima di ritirarsi, ferito, ad Avalon, quando
comincerà la decadenza della Britannia.
Ho trascorso il 1983 presso il Bodega Marine Laboratory, a Bodega Bay, in California: è il paesino dove Hitchckock ha girato “Gli Uccelli”. Il film circola ancora e presumo che anche i giovani lo conoscano. Un gabbiano becca la fronte di Tippi Hedren, la protagonista femminile, mentre attraversa la baia in barca. I locali sono sorpresi: “non era mai successo prima”. L’aggressività degli uccelli sale in poche ore, nel film, e si ribellano dai passerotti ai corvi. La finzione diventa realtà? Sono stato recentemente a Venezia e c’erano cartelli che non avevo mai visto, sui bidoni dell’immondizia. Attenzione ai gabbiani. Non mangiare in strada. Non avvicinarsi. Chi gira con un panino in mano diventa un obiettivo per i gabbiani che, in picchiata, arrivano a portar via il cibo di mano. Non succedeva, prima, proprio come ne “Gli Uccelli”. Le stesse scene si vedono in altre città, dove i cartelli ancora non ci sono. I gabbiani reali sono grossi, devastano i cestini delle immondizie, spargono il contenuto tutt’attorno. Perché lo fanno?