I costi sociali dell’economia sommersa

di Guglielmo Forges Davanzati

A partire dall’opera di Putnam, l’arretratezza del Mezzogiorno è stata attribuita alla carenza di capitale sociale, ovvero alla elevata presenza, rispetto alle regioni del centro-nord del Paese, di comportamenti opportunistici e sleali che non permettono la nascita e la diffusione di propensioni cooperative e aumentano il clima di sfiducia generalizzata nella comunità.

Questa lettura, di matrice sociologica e individualistica, è stata criticata soprattutto per la difficoltà di quantificare il capitale sociale ed è tuttora oggetto di dibattito se il deterioramento del capitale sociale sia causa o effetto del basso tasso di crescita del Pil. Una congettura che si può porre per recepire la teoria di Putnam in termini macroeconomico è la seguente: l’attitudine cooperativa si modifica al modificarsi del ciclo economico e risente delle politiche economiche.

Costituisce un di violazione sistematica delle norme vigenti nell’ecommmia sommersa, che ha una elevata incidenza nel Mezzogiorno. ISTT documenta continui aumenti dell’incidenza del sommerso sul Pil nelle regioni meridionali.

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Andrea de Lizza, abate di Livry, “natif de Lecce”, nella Francia di Vanini

di Francesco Frisullo – Paolo Vincenti


Esecuzione di Leonora Dori Galigai, intaglio francese del XVII secolo.

RIASSUNTO. Il saggio ripercorre le vicende del poco noto salentino Abate Andrea de Lizza che, passato al servizio del Cardinale Jacques Davy du Perron, approda nel 1608 alla corte di Francia, dove si farà valere per le sue doti artistico-musicali che gli valgono la nomina di cappellano della potentissima ma odiatissima Leonora Dori Galigai, sorella di latte della Regina Maria de Medici. Le sue vicende esistenziali si inquadrano in uno scenario storico molto più complesso, connotato da un diffuso sentimento anti-italiano, in cui si inserisce anche la figura del filosofo taurisanese Giulio Cesare Vanini.

ABSTRACT. The essay retraces the events of the little-known Salento Abbot Andrea de Lizza who, having passed into the service of Cardinal Jacques Davy du Perron, arrived at the court of France in 1608, where he asserted himself for his artistic-musical skills which earned him the nomination of chaplain of the very powerful but hated Leonora Dori Galigai, foster sister of Queen Maria de Medici. His existential events are part of a much more complex historical scenario, characterized by a widespread anti-Italian sentiment, which also includes the figure of the taurisanese philosopher Giulio Cesare Vanini.

     La nascita della monarchia assoluta e nazionale in Francia alla fine del Cinquecento non poteva più ammettere né l’esistenza di limitazioni del potere sovrano da parte di un monarca straniero, quale di fatto era il Papa, né forme di libero pensiero. È in questo frangente storico che si sviluppano le vicende che affronteremo. Tra i tanti personaggi che emergono dalla storia dell’“execrable” Vanini, ci soffermiamo sul salentino Andrea de Lizza, abate, vissuto come cappellano e musicista alle corte francese dal 1608 al 1617. Nella bibliografia vaniniana, il suo nome viene citato per primo da Bozzi[1], che riprende René Pintard[2]. Ma su de Lizza, a parte Tabacchi, che lo definisce uno dei confidenti di Leonora Dori Galigai[3], non vi è in Italia alcuna fonte. Invece è tutt’altro che sconosciuto alla storiografia francese, sia pure non per suoi meriti diretti ma per aver fatto la sua comparsa in quel cruciale momento di passaggio in Francia che segna la fine della reggenza di Maria de Medici, “sovrana sapientissima e di fama imperitura”[4], e l’ascesa al trono di Luigi XIII, in una fase caratterizzata da un diffuso sentimento anti-italiano che già covava sotto la cenere dai tempi della regina Caterina de Medici[5]. I coyons, come i parigini battezzarono gli esponenti della schiera italiana già ai tempi della regina Caterina, si erano abbattuti sulla Francia come un nugolo di uccelli rapaci[6]. Ma il coyon per antonomasia è Concino Concini, al cui cadavere, per estremo dileggio, il 26 aprile 1617, come scrive il Nunzio Apostolico Bentivoglio, “furono portate in alto per vari luoghi le parti pubende spiccate dal busto, con parole indegnissime contro la fama della Regina”[7]. Concini divennne l’emblema del parvenu e “raccolse su di sè la violenza dell’odio anti-italiano nella fase terminale della reggenza”[8]. Scrive il nunzio Bentivoglio il 14 febbraio 1617: “Certa cosa è che, a giudizzio [sic] di tutti, la violenza D’Ancre non può durare”[9].  

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Marcello Toma, Camera con vista


Olio su tela, 31×34 cm 2021.
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Nuove segnalazioni bibliografiche 37. Lo zibaldone di Giorgio Agamben

di Gianluca Virgilio

Di solito, quando leggo un libro e, già dalle prime pagine, mi viene la voglia di parlarne, mi munisco di carta e penna per trarne pochi appunti, che poi potrebbero tornarmi utili al termine della lettura, quando inizia il tempo della scrittura di queste mie note, che altro non vogliono essere che un breve commento a margine di quanto altri ha scritto. Così è stato anche per il libro, fresco di stampa, di Giorgio Agamben, Quaderni, Volume I 1972-1981, Quodlibet, Macerata 2024. In questo caso, però, la mole di appunti che mi ritrovo sotto gli occhi alla fine della lettura è tale che neppure una severa selezione di essi basterebbe per fornire al lettore una traccia convincente dell’arduo e articolato discorso filosofico dell’autore.

Giorgio Agamben, classe 1942, è uno dei filosofi italiani più acuti e originali del panorama filosofico nazionale ed è conosciuto e tradotto in tutto il mondo. Ho avuto modo di parlarne in questa sede a proposito del suo “diario filosofico in pubblico” Una voce, ch’egli tiene nel sito della casa editrice Quodlibet, dove spesso ha preso posizione controcorrente su temi di grande attualità (per es. la pandemia e la guerra in Ucraina).

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Manco p’a capa 234. Il National Biodiversity Future Center

di Ferdinando Boero

Concludere il 2024 con note positive non è facile. Sarà avvenuta qualcosa di buono in questi ultimi tempi? Mi occupo di biodiversità ed ecosistemi e di buono c’è che le due parole sono ora nell’Articolo 9 della Costituzione. Ma sono tante le cose in Costituzione che non sono attuate, vedi il lavoro, su cui si dovrebbe fondare la Repubblica. Sono troppi i giovani che se ne vanno perché l’Art. 1 non trova applicazione, e sono troppi quelli che il lavoro lo perdono, o che hanno lavori precari e sottopagati. Quando non sono uccisi dal lavoro.
Per l’articolo 9, però, è stato fatto un passo importante: si chiama NBFC: National Biodiversity Future Center, cioè il Centro Nazionale per il Futuro della Biodiversità. Sono il solito mugugnone e colgo l’occasione per lamentarmi per l’uso della lingua inglese per dare il nome a qualcosa di italianissimo, ma ci passo sopra… l’iniziativa è ottima.
Perché questo Centro? Dopo aver messo biodiversità ed ecosistemi nella Costituzione, abbiamo intrapreso la transizione ecologica usufruendo di finanziamenti europei che impongono che la biodiversità sia trasversale a tutte le iniziative. L’Unione Europea, inoltre, chiede con insistenza l’adozione dell’approccio ecosistemico. Purtroppo ne sappiamo poco sia di biodiversità sia di ecosistemi, e non solo noi italiani siamo profondamente ignoranti: l’ignoranza è globale.
Abbiamo dato il nome a due milioni di specie ma le stime dicono che la biodiversità planetaria ammonti a più di dieci milioni di specie. Per la stragrande maggioranza di quelle che hanno un nome, comunque, non si conosce il contributo al funzionamento degli ecosistemi. Perché siamo così ignoranti? Semplice: perché nessun paese ha mai investito in modo strategico per conoscere a fondo la biodiversità e il funzionamento degli ecosistemi. Non esistono iniziative internazionali coordinate per acquisire queste conoscenze. Esistono per l’esplorazione dello spazio, o per comprendere la struttura della materia, ma non per i sistemi viventi. Strano… visto che la nostra sopravvivenza dipende dal buon funzionamento degli ecosistemi del pianeta, mica dalle galassie.

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Il topos delle “ressources augmentées”, cioè quando gli assalitori abbandonano l’assedio perché “se ci buttano addosso il cibo, chissà per quanti mesi potranno resistere”

di Antonio Romano

Nella nostra bella Italia (e non solo), mi è già capitato più volte di soggiornare in paesi e villaggi in cui i locali ricordano che nella storia della loro comunità, in un momento storico variabile caso per caso, era successo che gli abitanti del posto, assediati da vari aggressori, gettassero improvvidamente su di loro generi alimentari che invece avrebbero assicurato agli assediati di poter resistere più a lungo senza approvvigionamenti.

Fino a poco tempo fa, non mi era ancora accaduto di sentirla raccontare nel mio paese d’origine, nel qual pure ho condotto per decenni ricerche linguistiche a sfondo etnografico.

Oltre a discutere una spiegazione di quella che potrebbe essere una recente estensione o il frutto di una manipolazione mediatica, in questa breve scheda cercherò di offrire considerazioni utili a stabilire una separazione netta tra storia e mitologia, a incoraggiare un maggiore senso critico nei confronti delle informazioni che ci giungono da alcuni canali di diffusione (nell’epoca dei social media) e suggerire modestamente – da parte di un sostenitore non-specialista – di coltivare sempre con attenzione gli studi storici. Se un modo per comprendere meglio il passato è quello di osservare il presente, è infatti anche possibile, ovviamente, che una buona conoscenza del passato aiuti a comprendere meglio il presente.

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Noterellando… Costume e malcostume 28. Albert Einstein, il poeta dell’Universo

di Antonio Mele / Melanton

Esattamente un secolo fa, in piena prima guerra mondiale, in un contesto sociale dilaniato – come fin troppo spesso avviene – da violente contrapposizioni di etnie, culture, religioni, poteri e interessi economici, in un’epoca da considerarsi peraltro molto lontana, se non proprio remota, dalle stupefacenti conquiste e meraviglie tecnologiche di oggi, un piccolo uomo si immergeva in assoluta solitudine nel mistero e nella poesia dell’Universo, e comunicava con l’ignoto, teorizzando e cercando risposte alle proprie domande, in una corrispondenza quasi del tutto impossibile.

Quel piccolo uomo, nato in una famiglia ebraica a Ulma, in Germania, il 14 marzo 1879, era – ed è, essendo immortale – Albert Einstein.

Un uomo-simbolo che, più d’ogni altro scienziato, rappresenta per l’umanità la curiosità, il desiderio di esplorare, configurare e conoscere l’inconoscibile, in un rapporto perfino poetico con l’Universo sconfinato, di cui siamo piccola ma non minima parte.

Allo studio, alla teoria, e allo sviluppo della fisica (che gli valsero il Premio Nobel nel 1921) Einstein accompagnò sempre la sua attività di filosofo, mosso tanto dalla profonda ammirazione che aveva per i sistemi speculativi di Spinoza e Schopenhauer, quanto soprattutto da una curiosità personale inesauribile, che lo sollecitava a soddisfare la sua perenne sete di conoscenza.

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Una lettera di… 16: una e-mail di Steve Soper dalla Georgia (U.S.A.) e una corrispondenza all’insegna di Sigismondo Castromediano

di Antonio Lucio Giannone

Da sin. Steven Soper e Antonio Lucio Giannone.

Questa e-mail mi venne inviata il 13 luglio 2013 da Steve Soper, docente di Storia moderna presso l’Università della Georgia negli Stati Uniti. Soper, che stava conducendo una ricerca sui sessantacinque patrioti antiborbonici condannati all’esilio perpetuo in America, aveva letto il mio saggio Sigismondo Castromediano e la memorialistica risorgimentale, pubblicato sul numero 155 della rivista “Critica letteraria” nel 2012 e si mise in contatto con me anche perché non riusciva a trovare un breve scritto memorialistico del brindisino Cesare Braico. Da allora incominciò un rapporto di amicizia e di collaborazione tra di noi attraverso uno scambio di e-mail continue che è durato fino ad oggi.

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Gaetano Minafra, Arte contemporanea 3. Fascino arcaico

Scagliette di pietra, decorazioni in plex e colori ad acquerello, cm. 80 x 60, anno 2013.
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Salento segreto

di Maurizio Nocera

L’architetto Mario Cazzato, noto nel Salento per essere il titolare di una delle rare librerie antiquarie dell’intero Meridione (Libreria del Sole, Lecce) ha di recente curato il libro Salento Segreto. Storie, misteri, luoghi e leggende (Edizioni Grifo, Edizioni ArtWork Cultura, Lecce, 2024. Stampa Grafiche Giorgiani, Castiglione d’Otranto). La copertina è opera del grafico Franco Palascia, presenta un bel primo piano della Guglia di Soleto (foto di Roberto Leone).

Un indice ricchissimo, ci dice l’importanza dei contenuti, che qui non si possono ovviare: Enigmi e profezie (Virgilio mago del Salento; Nociglia: ritrovato un quadrato magico; Le dieci P di Maglie e di Barbarano; Un Graal a Santa Croce; Un filone ereticale e il Tetragrammaton; Sibille. Sante profezie; L’enigma delle sfere fiammeggianti; Le fontane di Lecce. Le tre “F”; La torre di Babele “ebraica” a Otranto; Le “patrie” del “padre della patria”; Rebus e allegorie della guglia di Soleto; Terra d’Otranto mirabilis. Il Tempio di Minerva in Grotta Zinzanusa – Zinzulusa -; Taranto. La profezia di S. Cataldo; Vaticini sull’assedio e liberazione di Otranto).

Prodigi (Tesori nascosti nel Salento; Galatina: il nome e la pietra di S. Pietro; Laterza. “E dopo lecco tutte quelle piaghe con la lingua” e fu guarito dalla lebbra; Salice Salentino: la leggenda delle “suore morte”; La veggente di Oria; La Signura Leta, una storia di fantasmi nelle campagne di Mesagne; Lecce. Premonizione, un fiore e la morte; Ostuni. Una cisterna del 1439 di straordinaria grandezza; I giganti di Leuca; Squinzano. La vergine disegna una chiesa; Trepuzzi, 1799: il miracolo della nebbia; Gallipoli. La carità propiziata da Suor Teresa di Lisieux; La processione del Corpus Domini o del “Cavallo Parato” in Brindisi).

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Parole, parole, parole 42. La formazione della lingua parlata e scritta dagli italiani

di Rosario Coluccia

«Totò, Peppino e la Malafemmina» è un film del 1956. In un episodio famoso, i due protagonisti meridionali, partiti alla volta di Milano allo scopo di sottrarre l’ingenuo nipote alle mene di una affascinante giovane settentrionale, approdano in piazza Duomo; per conoscere l’indirizzo della maliarda, apostrofano un vigile con le celebri frasette: «Dunque, excuse me, bitte schon… Noio … volevam …volevan savoir …- l’indiriss … ja»  e, alla risposta del  vigile, esclamano compiaciuti «Bravo, parla italiano!», meravigliandosi delle capacità linguistiche dell’allibito interlocutore. 

Il dialogo intendeva sottolineare la distanza linguistica che separava i due mondi, quello dell’Italia del Nord e quello dell’Italia del Sud, a metà degli anni cinquanta del secolo scorso; al punto che i due napoletani ritenevano del tutto naturale che a Milano si parlasse una lingua straniera. Una scenetta del genere oggi sarebbe improponibile, perché lontanissima dalla realtà effettiva della nostra nazione: dopo oltre centocinquant’anni dal raggiungimento dell’unità politica, solo da pochi decenni, per la prima volta nella storia, l’Italia è unita anche linguisticamente e un italiano fondamentalmente unitario, pur se regionalmente variato, è patrimonio comune a Catania e a Torino, a Milano e a Lecce, a Roma. Questo salutare e benefico cemento comunicativo unificante è – come si diceva prima – acquisizione relativamente recente, successiva alla seconda guerra mondiale, diciamo dell’Italia repubblicana degli ultimi sessanta o settant’anni (più o meno).

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Gioventù salentina 4. La Lega dei disoccupati. Il racconto di Luigi Latino (23 agosto 2006)

di Gianluca Virgilio

Luigi, quando e dove sei nato?

Il 5 settembre 1954, a Galatina.

Che scuola hai fatto?

L’istituto professionale a Galatina per tre anni, e poi due anni a Lecce, con indirizzo tele-radio riparatore. In quegli anni, dal 1968 al 1970, i locali del professionale di Galatina si trovavano nell’attuale Palazzo della Cultura, al primo piano, dove oggi c’è il Museo comunale.

Che clima c’era in quella scuola. C’erano dei gruppi politici organizzati, studenti politicizzati?

C’era una certa attività politica, ma non di gruppi organizzati, c’erano della persone già politicizzate che ogni tanto, quando era possibile, cercavano di fare un discorso politico, anche perché quelli erano anni abbastanza caldi. Si facevano molte assemblee e occupazioni. Ogni anno si faceva un’occupazione. Il preside era un certo Giannuzzi, non ricordo il nome.

Su quali temi vi impegnavate?

Non c’era un tema preciso, la contestazione al sistema era generale, poi c’era qualche motivo particolare, per esempio il problema dell’aggiunta del biennio ai tre anni di professionale, per consentire l’accesso degli studenti all’università – tutti gli istituti d’arte e professionali impedivano l’accesso all’università -. Poi il biennio è stato aggiunto, ma a Lecce, dopo che io ho preso la qualifica del terzo anno. Intanto, per un anno ho frequentato a Gallipoli una scuola di perfezionamento.

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Citazioni 27. Spazzatura

“Slacciai il sacco, lo aprii e lo tirai fuori. Il tanfo terribile mi colse con una forza sconvolgente. Era nostro? Roba veramente nostra? Lo avevamo prodotto noi? Portai il sacco fuori dal garage e lo svuotai. La massa compressa se ne stette posata lì, come un’ironica scultura moderna, massiccia, rozza, beffarda. Vi ficcai più volte il manico di un rastrello e poi sparpagliai il materiale sul suolo in cemento. Quindi ne estrassi i vari oggetti a uno a uno, massa informe dopo massa informe, chiedendomi come mai mi sentissi così colpevole, come di violare una privacy, di svelare certi segreti intimi e forse vergognosi. Era difficile non venire distratti da questo o da quell’oggetto affidato all’apparecchio devastatore. Ma perché mi sentivo come una spia domestica? La spazzatura ha un carattere tanto privato? Arde nel proprio intimo di un calore personale, dei segni di una più profonda natura, indizi di aspirazioni personali, di fallimenti umilianti? Quali abitudini, manie, vizi, tendenze? Quali atti solitari, quali abitudini inveterate? Trovai alcuni disegna a matita di una figura di grosse mammelle e genitali maschili. C’era una lunga striscia di spago piena di nodi e cappi. Sulle prime mi parve una costruzione fatta a caso. Poi, guardando più attentamente, pensai di cogliere una relazione complessa tra il formato dei diversi cappi, il grado dei nodi (semplici e doppi) e gli intervalli intercorrenti tra nodi con cappi e nodi liberi. Una sorta di geometria occulta o di simbolica ghirlanda di ossessioni. Trovai una buccia di banana con dentro un tampone. Forse il lato sotterraneo e oscuro della coscienza del consumatore? Mi imbattei in un’orrenda massa grumosa di capelli, sapone e bastoncini cotonati per gli orecchi, scarafaggi spappolati, , anelli per aprire le lattine, garza sterile coperta di pus e grasso di bacon , sfilacci di filo per i denti, frammenti di ricambi per penna a sfera, stuzzicadenti con ancora impalati dei frammenti di cibo. C’era un paio di boxer a brandelli con tracce di rossetto, forse un ricordo del Grayview Morel.”

Don De Lillo, Rumore bianco, La Biblioteca di Repubblica, Roma 2003, p. 279. Traduzione di Mario Biondi.

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Ritorno

di Antonio Prete

Il giorno abbaglia la macchia delle alghe

sotto la pelle dell’acqua. Nel pelago

delle nuvole isole cilestrine.

.

Il trapezio dei pensieri rabbuia

i confini, ora che  la sabbia disfa

la trama grigioviola del ricordo.

.

Negli occhi chiusi frugano le mani

della luce: nel silenzio le sferze

dell’onda che ribattono la chiglia.

.

A secco è l’altra barca, tra la scogliera

e la torre: alla sua ombra il  ragazzo

che poco fa guizzava alto nel tuffo.

                     *

L’albero aveva parole leggere,

il cuore cinto dal velo degli anni:

selci di lune nella chiusa polpa.

.

La cintura d’Orione scintillava

sopra il tacito mare degli ulivi,

sopra il sonno delle agavi ferite.

.

Vennero geroglifici infiammati,

dolceoscuri tremori di passioni.

Come poter conoscere la strada

.

nella strada, nella lingua la lingua?

Un addio padre fu a mille addii,

nell’occiduo rumore del cammino.

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Per Franco De Paola, un gentleman salentino

di Paolo Vincenti

     Franco De Paola ha saputo unire nei suoi studi, in fertile connubio, il Salento e l’Inghilterra, e proprio questo scambievole legame si è voluto esprimere nel 2019, in occasione del compimento del suo ottantesimo genetliaco, con il titolo del libro che la Società di Storia Patria per la Puglia di Lecce gli ha dedicato, ovvero: Dalla rupe di Leuca alle scogliere di Dover. In onore del viaggio di Francesco De Paola[1],un volume che giungeva a coronamento di una vita spesa al servizio della collettività, per la grande e la piccola patria, per quest’ultima soprattutto, a vantaggio della sua crescita culturale e per la sua edificazione morale. Ci si riferisce ai lunghi anni di esercizio della nobile professione di docente e alla altrettanto lunga militanza di studioso impegnato sul campo. Ci si riferisce del pari al costante impegno nelle ricerche archivistiche e bibliografiche e all’acribia nello svolgimento del faticoso e non di rado ingrato lavoro di scavo; ci si riferisce ancora alla costante generosità dimostrata a non pochi colleghi nel mettere la propria competenza a disposizione del tutto disinteressatamente, nel condividere i frutti delle proprie ricerche rispondendo solo ad un intimo desiderio di socializzare la cultura dei luoghi.

 Come scrive Mario Spedicato nella Presentazione del succitato volume:

     Le due radici della sua formazione, anglista e salentina, convivono nella sua persona e si esprimono senza contrastarsi nel suo modo di essere, signorile nel suo aplomb di stampo britannico e caloroso nella relazione interpersonale propria della gente della nostra terra. E trovano efficace sintesi pure nella sua produzione culturale. Non è un caso che il primo destinatario delle sue attenzioni (primo sia in ordine cronologico che per profusione di energie e di tempo) sia quel Giulio Cesare Vanini il cui studio ha costituito un passaggio obbligato per tutti quegli studiosi salentini – di Taurisano in particolare – che non hanno resistito all’indubbio fascino esercitato da questo filosofo e che ne hanno fatto un banco di prova delle competenze archivistiche e storiografiche maturate. Proprio nell’esperienza umana e intellettuale del filosofo, De Paola ha identificato uno degli innumerevoli (e non sempre visibili) fili intessuti tra la Terra d’Otranto e i grandi centri dell’Europa che contava nel Seicento[2].

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Antonio Stanca, Universum A-38


25-4-2004, olio su MDF, cm 80,2 X 80,2.
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Da questo altrove. Carmelo Bene e il Sud del Sud dei santi. Una cartografia

di Simone Giuseppe Flocco

Da diversi anni, la casa editrice salentina Kurumuny di Martignano sta promuovendo lo sviluppo del dibattito attorno alla figura e all’opera di Carmelo Bene attraverso la collana Beniana del Centro Studi Phoné diretta da Simone Giorgino e Stefano Cristante, la quale conta diverse pubblicazioni di rilievo riguardanti l’artista salentino come Nota Bene di Piergiorgio Giacché e Dentro «’l mal de’ fiori». Il poema impossibile di Carmelo Bene di Alessio Paiano, entrambe del 2022. È invece del 2023 l’uscita del volume Da questo altrove. Carmelo Bene e il Sud del Sud dei santi. Una cartografia, raccolta di scritti critici curata da Simone Giorgino e da Alessio Paiano, la quale mira a configurarsi come una vera e propria cartina per addentrarsi all’interno dell’universo geopoetico di Bene. Infatti, se la prima parte è costituita da una serie di saggi che si concentrano sulla sua multiforme arte, la seconda è invece una vera e propria «cartografia poetica», un viaggio all’interno della vita e dell’opera di Carmelo Bene attraverso un sostanzioso apparato fotografico e geografico, con numerose immagini e documenti riguardanti l’artista e i comuni del Salento che maggiormente lo videro attivo.

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Taccuino di traduzioni 15. Johannes Bobrowski: Pescatori notturni

di Antonio Devicienti

Tra le belle fronde
il silenzio
inviolato.
Luce
con le mani
sopra un muro.
La sabbia fuoriesce dalle radici.
Sabbia, rossa, va’
smossa nell’acqua,
va’ sulla traccia delle voci,
va’ dentro il buio,
esponi il pescato nel mattino.
Le voci stanno cantando pallide come d’argento,
porta via,
al sicuro,
tra le belle fronde le orecchie in ascolto,
le voci cantano:
quel ch’è morto è morto.

NACHTFISCHER

Im schönen Laub
die Stille
unverschmerzt.
Licht
mit den Händen
über einer Mauer.
Der Sand tritt aus den Wurzeln.
Sand, geh rot
im Wasser fort,
geh auf der Spur der Stimmen,
im Finstern geh,
leg aus den Fang am Morgen.
Die Stimmen singen silberblaß,
bring fort,
in Sicherheit,
ins schöne Laub die Ohren,
die Stimmen singen:
tot ist tot.

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Il Natale è un canto antico: Enza Pagliara e Dario Muci, “La santa allegrezza”

di Adele Errico

“E io Giuseppe stavo camminando, ed ecco non camminavo più. Guardai per aria e vidi che l’aria stava come attonita, guardai la volta del cielo e la vidi immobile e gli uccelli del cielo erano fermi. Guardai a terra e vidi posata lì una scodella e degli operai sdraiati intorno, con le mani nella scodella: e quelli che stavano masticando non masticavano più, e quelli che stavano prendendo del cibo non lo prendevano più, e quelli che stavano portandolo alla bocca non lo portavano più, ma i visi di tutti erano volti in alto (…) e insomma tutte le cose, in un momento, furono distratte dal loro corso”.

Il Vangelo apocrifo di Giacomo, qui citato nell’edizione di Einaudi, racconta della nascita di Gesù. Ricorrendo a un meccanismo narrativo straordinariamente moderno, Giacomo adotta d’improvviso una variazione di  voce narrante: da un’onnisciente terza persona alla prima persona di Giuseppe che, allontanatosi dalla mangiatoia per cercare una levatrice, intuisce che qualcosa di singolare sta esercitando effetti straordinari sull’universo: suo figlio è nato e la volta del cielo ha assunto un’innaturale fissità, come in un dipinto nel quale ogni gesto, ogni moto venga cristallizzato in colori d’acquerello.  “Fermarono i cieli” è il titolo del canto natalizio scritto e composto da Sant’Alfonso de’ Liguori – autore anche del celebre “Tu scendi dalle stelle” – che si ispira al passo di Giacomo e spia qualcosa che dovrebbe restare segreto, l’intimo sguardo di una Madonna che è semplicemente una madre stanca che tenta di addormentare il figlio cantando una nenia d’amore. Insieme ad altri 11 brani e 4 poesie recitate, “Fermarono i cieli” è contenuto nel nuovo disco di Enza Pagliara e Dario Muci, “La santa allegrezza”.

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Marìsciu te Natale

di Giuseppe Greco

‘A luna comu ‘u sule tante fiate

se manìscia

cu sse mmasura sula

a mmenzu ‘ttante stelle

sparpajate cusì                                        

oltre ogni ‘ndoru

te luci te lanterne

‘mpise susu susu a ccraticciate

intr’a tteatri ‘perti intr’a nnui

‘na fiata l’annu                                      

            Tie

a mmanu ‘na francata te culori

cu ppitti maravije

‘ncartate

comu ricali                                             

            pe’ nnui

ca ddisegnamu ùli te cumete e

nne prasciamu

a rretu ‘lli Re Mmaggi

manu cu mmanu mentru                        

‘a luna

ne ùnge tutt’e sire te misteri

te luce janca janca.

                         (26.12.03 h. 15,12)

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