Mr. Holmes, presumo

di Paolo Maria Mariano

Talvolta alcuni scrittori riescono a creare personaggi – s’imbattono in essi si potrebbe forse dire meglio, con qualche conseguente discussione filosofica – che cominciano a vivere nell’immaginario di là delle pagine, del tempo presente della scrittura e del vago apparire dell’immediato mercato, diventano paradigmi, qualcuno addirittura quasi, se non proprio, una categoria dello spirito. Si trovano sempre in luoghi a loro consoni che li completano, e difficilmente potrebbe essere altrimenti perché un personaggio di tal guisa è un ambiente, un’atmosfera, un luogo dell’anima, più che un nome, un carattere abbozzato con qualche grado di precisione. Achille di fronte alle mura di Troia, neghittoso alla guerra; Ulisse sul mare; Don Chisciotte per le strade assolate della Spagna, Sancho con lui; Amleto in Danimarca con Rosencrantz e Guilderstern e quasi tutto, se non tutto, quanto è uscito dalla penna di Shakespeare, da Iago a Lear, a Macbeth, a Giulietta e Romeo; Don Fabrizio Corbèra Principe di Salina, “uomo gigantesco che andava a spasso per il giardino insieme al cane-colosso”, il principe fulvo insomma; Pantagruelle, peraltro pantagruelico, appunto; Leopold Bloom a Dublino; il Conte di Montecristo – l’uomo Edmond Dantès e la vendetta, insieme; K a Praga su cui incombe il castello; Bartebly e l’incomprensibile “preferirei di no”; Achab e la balena, insieme; Cyrano de Bergerac, il suo naso, la sua sensibilità e la sua lama, insieme; Corto Maltese e la malinconia del mare con approdo fugace e lontano; Philip Marlowe e le strade assolate e sperdute di Los Angeles; Long John Silver sull’Hispaniola; Athos, Aramis, Porthos, D’Artagnan e le loro lame per le strade di Parigi quando si beveva e si duellava sulle strade sudicie; e poi, senza che la lista possa considerarsi finita, Sherlock, cioè Mr. Holmes, appunto, la Londra fumosa, la brughiera inglese nebbiosa, il taccuino di Watson, il dottore alter ego dell’autore.

Nel 1881, il ventiduenne Arthur Ignatius Conan Doyle che non si poteva ancora fregiare, come poi fece con diritto e merito, del titolo di Sir, ebbe il batchelor of arts in medicina, la laurea di primo livello, e cercò di ridurre a metà l’anno di master successivo. Si trovò a fare l’assistente di medici professionisti prima a Sheffield, poi a Shropshire, infine a Birmingham dal dottor Hoare, dove poté sviluppare i suoi interessi letterari.  Aprì uno studio a Southsea, un sobborgo di Portsmouth, dopo aver perso un primo incarico lavorativo come medico di bordo sul battello Mayumba e aver pensato di poter vivere di attività letteraria. La clientela era poca, il tempo abbondava. Il ricordo di un suo professore di Edimburgo, Joseph Bell, descritto come freddo e analitico, fu la base da cui nacque Holmes. Era il 1887 quando, dopo vari rifiuti (niente di nuovo sotto il sole, anche quello che in luglio appare più caldo in Europa), apparve sul Beeton’s Christmas Annual, nel numero di novembre, A Study in Scarlet, il primo romanzo. Arthur Conan Doyle aveva ventotto anni. Sherlock Holmes era appena nato.

A Holmes, Arthur Conan Doyle dedicò cinquantasei racconti, quattro romanzi, tre testi teatrali. I racconti e i romanzi costituiscono quanto è d’uso chiamare canone, per distinguere quanto è dovuto alla penna di Doyle da quanto altri hanno scritto con lo stesso personaggio. Negli anni, infatti, oltre a una miriade di storie apocrife vi sono stati film per il cinema, fumetti, serie televisive – alcune, quelle più recenti, basate su una trasposizione del personaggio ai giorni nostri. Più che una moda – la quale, sappiamo, è proprio ciò che passa di moda – pare trattarsi di una permanenza.

Holmes non è normale – e qui è inutile chiedersi cosa sia la normalità con un tono di
sdegnosa e vacua, se non perfino stupida, political correctness: si tratta di una media statistica su un campione vasto, anzi, vastissimo. Holmes non è normale perché è un genio, anche con difetti, e un genio è raro, per definizione, e lo è talmente da evitare da parte del lettore qualsiasi forma di identificazione e di invidia – sì, proprio quel mostro dagli occhi verdi che dileggia la carne di cui si nutre, per parafrasare Shakespeare che parla di gelosia nell’Otello.

Di là della finzione narrativa, le indagini di Holmes sono un invito a osservare le azioni degli uomini di là dell’apparenza, dello stesso stato di precomprensione che noi stessi sovrapponiamo ai fatti attraverso le nostre conoscenze e soprattutto le nostre emozioni (Holmes lotta con furia proprio contro queste ultime e cerca di aumentare le prime). Quelle indagini ricordano quanto forse già risiede in noi: una necessità primitiva, quella di mettere ordine nel caos delle azioni dell’essere umano, quando il caos appare – Holmes rifiuta di pensare alla mancanza di senso forse perché anch’essa risulta apparente. E il desiderio di trovare le ragioni – “quando ciò che è impossibile è stato escluso, quanto rimane, sia pur improbabile, è la verità” (cito dal romanzo Il segno dei quattro) – il desiderio di verità, quindi, è in Doyle, in Holmes allora, una questione radicalmente esistenziale, un profondo esistenzialismo logico, semmai si possa così definire una categoria filosofica pertinente. E questa ricerca è metodologica (“è un errore capitale teorizzare prima di avere tutti i dati disponibili”, cito dal racconto Uno scandalo in Boemia) e piena di furia. Ed è una ricerca necessaria, primordiale – credo che sia qui il punto della permanenza di Holmes, l’intuizione forse inconscia di Doyle. Nei momenti in cui non la può esercitare, infatti, Holmes piomba nella  disperazione, quella che invece dovrebbe essere allontanata perché non fa vedere la bellezza dei fiori e seguire il volo delle farfalle che su di essi si posano piano nei giorni d’estate.

 

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