Progettare nella natura, non sulla natura

di Paolo Maria Mariano

Prima di successivi ragionamenti ritengo sia opportuno chiarire una questione: Iosif Brodskij, che lasciò la scuola nella sua San Pietroburgo a quindici anni nel 1955, alzandosi durante una lezione e andando via, lavorò in fabbrica e in altre strutture, fu lettore insaziabile, cominciò a scrivere poesie e per esse, ritenute antisovietiche, fu processato e condannato nel 1964 a cinque anni di lavori forzati per essere liberato poi per le pressioni degli intellettuali all’estero, fu allontanato dal suo Paese a trentadue anni, si rifugiò negli Stati Uniti dove insegnò in varie università, ricevette il Premio Nobel per la letteratura a quarantasette anni, divenne poeta laureato degli Stati Uniti nel 1991, scomparve cinque anni dopo e fu seppellito nell’isolotto di San Michele a Venezia, era uno scrittore di enorme talento. E per decidere per quest’opinione ritengo basti scorrere anche solo i saggi, scritti in inglese, la sua unica evasione del russo, la lingua madre con cui compose tutte le poesie. Faccio un esempio della prosa cui mi riferisco, estraendo poche righe da uno scritto su Wystan Hugh Auden, un saggio raccolto in Fuga da Bisanzio (Adelphi, 1987 e successive ristampe). Scrive Brodskij, parlando di Auden: “Se la poesia fu mai per lui una questione di ambizione, visse abbastanza a lungo perché essa diventasse semplicemente un modo di esistere. Da qui la sua autonomia, la sua assennatezza, il suo equilibrio, la sua ironia, il suo distacco – in breve, la sua saggezza. […] Lo vidi l’ultima volta a Londra nel luglio del 1973, a una cena da Stephen Spender. Wystan […] dissertava sul tema del salmone freddo. Poiché la sedia era troppo bassa, la padrona di casa provvide a infilargli sotto la persona due squinternati volumi dell’Oxford English Dictionary. Pensai allora che davanti ai miei occhi stava l’unico uomo che avesse il diritto di usare quei volumi come sedile” (p. 132). Certo non basta un passaggio per giudicare, ma almeno fa sentire l’aria che tira. D’altra parte, però, la considerazione per la qualità dello scrittore – per le su scelte linguistiche, quindi, per il ritmo dello scritto, per la sua fluidità, per il rincorrersi e lo svolgersi delle immagini, per il loro richiamo a questioni universali – non implica il condividere tutta la sostanza delle idee. Così mi accade per il saggio che segue quello su Auden e che dà il titolo alla raccolta che ho appena citato e di cui posso sfogliare l’edizione corrente. Ci sono, infatti, alcuni punti dove l’interpretazione storica e le ipotesi metafisiche suggeriscono almeno a me qualche dubbio, o almeno spunti di discussione. Qui ne cito solo uno; è quello che ha dato la stura alle osservazioni seguenti e motiva la scrittura di queste righe. A un tratto, a p. 143, mentre parla delle strade di Istanbul colpito dal suo “cemento onnipresente, con la sua trama di sterco e il suo colore di tomba rovesciata”, esclama: “Ah tutta quella feccia miope – Le Corbusier, Mondrian, Gropius – che ha mutilato il mondo con risultati superiori a quelli di qualsiasi Luftwaffe!“

L’accostamento di un pittore, Piet Mondrian, a due architetti è giustificato dalla loro comune tendenza all’essenzialità geometrica delle forme, quella tendenza che portò Mondrian, dopo un percorso di decenni, al minimalismo dei suoi reticoli larghi di linee nere e quadrati campiti talvolta con colori puri, altre volte, le più numerose, lasciati in bianco. Immagino che l’osservazione di Brodskij nasca dallo iato tra l’atteggiamento razionalista e funzionalista di Le Corbusier, di Walter Gropius, di tutta la Bauhaus evidentemente, e le architetture neoclassiche, neobizantine, barocche e neobarocche di San Pietroburgo, dai palazzi della Prospettiva Nevskij fino alla fantasmagoria di Carskoe Selo, sviluppatesi in tutto il Settecento fino alla metà dell’Ottocento e dovute spesso ad architetti italiani: Francesco Bartolomeo Rastrelli, Carlo Rossi, Giacomo Quarenghi.

È naturale che la sensibilità classica di Brodskij respinga il razionalismo del cemento armato, dell’acciaio, del vetro strutturale. Lascia però qualche dubbio il suo non ricordare che quelle architetture settecentesche e ottocentesche sono sì di rara bellezza ma erano destinate a un utilizzo ristretto. Brodskij stesso dichiara di aver vissuto in “una stanza e mezzo” (p. 187) con i genitori. E sicuramente quelle che oggi paiono naturali comodità nelle abitazioni che ci accolgono e sono a norma, per usare il linguaggio esoterico degli uffici tecnici, non erano proprie delle case di chi non era nei palazzi nel Settecento e nell’Ottocento e perfino dei palazzi stessi. D’altra parte, però, non si può non dare ragione a Brodskij per la denuncia in un rigo dell’effetto devastante della cementificazione selvaggia. Il ricorrere il 5 giugno della giornata mondiale dell’ambiente indica, infatti, non tanto la sensibilità per la tutela del bene naturale, che poi è soprattutto il nostro bene, quanto che essa non è dominante. Le origini di questa mancanza non sono tanto nelle attività di Le Corbusier, di Gropius e di altri maestri dell’architettura moderna, quanto nella povertà di sensibilità e di cultura di chi è seguito a loro (con le dovute eccezioni), nel tipo d’insegnamento nelle scuole di architettura e d’ingegneria, che può non avere il livello formativo adeguato sia tecnico sia di sollecitazione della responsabilità, soprattutto nelle scelte politiche, nello sforzo a prevalere della corruzione nell’assegnazione delle opere e nella loro costruzione, nei piccoli gesti giornalieri, quelli di chi gira l’angolo e butta la borsa delle immondizie per strada o nei campi, sperando di non essere visto ma mostrando così anche solo a se stesso, se altri non lo scorge, solo una penosa mancanza di sensibilità e un’evanescente percezione dell’educazione che pure, immagino, gli sia stata trasmessa.

Mi sembra sia frutto soprattutto di povertà etica il pensare di progettare sulla natura, a scapito di essa, piuttosto che nella natura, tenendo responsabilmente conto della sostenibilità e cercando di valorizzare la bellezza che è nella natura. “Giacché l’estetica è la madre dell’etica”, ricorda Brodskij nel suo discorso di accettazione del Nobel (Dall’esilio, Adelphi, 1988). Anche questo meriterebbe una discussione più approfondita, ma ha un buon sapore e allora basta così.

 

 

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