di Antonio Prete
Un pensiero che, animato dal soffio della poesia, attraversa la terra del sapere con profondità e leggerezza, sospingendosi fino alla soglia dell’inconoscibile. Una poesia per la quale pensare è interrogarsi sull’esistenza individuale e universale, sul dolore del mondo, sulla finitudine come essenza della condizione umana, sul nesso tra il respiro del vivente e il respiro dell’universo.
Se ci si pone dinanzi alla scrittura leopardiana in stato di ascolto, sospendendo le tante formule in cui di volta in volta essa è stata raccolta, o costretta, ci si accorge che il movimento del pensiero, come appare nel dispiegarsi dello Zibaldone, è abitato dai modi propri della poesia, cioè dal vento dell’immaginazione, dal piacere dello sguardo sull’apparire del mondo, da una curiosità che, esplorando le forme del sapere, la loro genealogia, la loro storia, si misura con il limite stesso del conoscere.
Il pensare leopardiano si svolge – tra escursioni, analisi, indagini, memorie, divagazioni – all’ombra della biblioteca degli antichi e dei moderni, ma, mentre interpreta e racconta, disloca il sapere verso domande che oggi sentiamo a noi contemporanee, momento del nostro stesso cercare. Di pensiero in pensiero, prende forma un modo esplorativo e interrogativo che mai si chiude nella soddisfazione del compimento, nella fortezza di una qualche presunta verità raggiunta.
Lungo la scrittura dell’ “immenso scartafaccio” che è lo Zibaldone c’è un confine che manda il suo riverbero: il silenzio che separa un pensiero dall’altro, un silenzio nel quale si riflette il passaggio dei giorni, dei mesi, degli anni, con le festività e gli anniversari. Lungo questo scorrere del tempo, il pensiero è intento a tracciare una cartografia delle passioni umane, una microfisica dei costumi antichi e moderni, una descrizione dei rapporti che gli uomini intrattengono con la natura, con la ragione, con la civiltà. Ma la scrittura diventa anche un’indagine su di sé, sul proprio sentire, e spesso si trova a rammemorare il proprio vissuto, in questo modo facendosi cura della propria interiorità. E nel corso di questo cercare è messa in campo un’esperienza profonda della filologia, intesa nel suo ardente etimo, come amore della lingua. Tra un’osservazione linguistica e una riflessione morale, tra un’annotazione al margine di un classico e una discussione d’ordine estetico, o morale, giorno dopo giorno prende forma e vigore una critica di quel che è tramandato come assoluto e universale e oggettivo.