di Antonio Errico
Molte esperienze cominciano con una meraviglia, con uno stupore. Molta conoscenza comincia con la stessa meraviglia, lo stesso stupore. Si incontra qualcosa che non si era mai incontrato e si avverte un senso di meraviglia che suscita il desiderio di conoscere la cosa. Poi le esperienze si concludono e qualche volta si avverte meraviglia della loro conclusione. Anche i processi della conoscenza qualche volta si fermano per uno stupore: perché sembra che basti quello che si è conosciuto, che basti quello stupore che ritorna o che perdura. Si comprende che quella conoscenza è compiuta.
Però, in questo tempo, e ormai da tempo, si ha l’impressione che non ci si meravigli più di niente, oppure che la meraviglia che di tanto in tanto ci sorprende sia una fiamma tremolante che si spegne presto. Non ci meravigliano le storie che accadono intorno, né quelle che arrivano da lontano, non ci meraviglia la tragedia o la commedia del mondo, quasi che avessimo conosciuto già tutto, che avessimo fatto ogni esperienza, che avessimo già fatto ogni scoperta e provato tutte le emozioni, tutti i sentimenti. Nemmeno ci meraviglia la bellezza, quasi che avessimo conosciuto ogni bellezza possibile e che una bellezza ulteriore risulti impossibile oppure copia di quella conosciuta. Probabilmente sono molte le cause di questa condizione. Una di queste, forse tra le prevalenti, consiste nella circostanza di essersi abituati ad avere a disposizione, rapidamente, ogni informazione. Per cui non abbiamo il tempo per lo stupore. Non abbiamo la necessità dell’attesa. Tra il confronto con qualcosa di nuovo e la conoscenza del qualcosa, non si apre lo spazio dell’incertezza, quello in cui si sviluppa l’interrogativo e si cerca di razionalizzare lo stupore dando inizio ad una ricerca della risposta.
Quella risposta che vogliamo è già pronta nella Rete. Almeno questa è l’impressione. Perché poi bisogna vedere se è proprio quella la risposta, se il significato è quello che ci serve, se quella informazione acquisita rapidamente si trasforma in conoscenza duratura.
Perché poi bisogna verificare se quella conoscenza abbia una relazione, sia compatibile con la nostra esistenza.
Forse la condizione fondamentale, essenziale, è proprio questa: la relazione tra esistenza e conoscenza. Senza una relazione strutturale tra le due dimensioni, ogni conoscenza è inevitabilmente fragile, incerta, smottante. Non si elabora, non si fa memoria, non trasforma le nostre visioni del mondo, il nostro pensiero, i nostri comportamenti. Se fra esistenza e conoscenza non c’è integrazione, interazione, compenetrazione, l’una e l’altra restano distanti e separate, inevitabilmente.