di Giuseppe Spedicato
Il modello economico e le eresie degli economisti
“Marte, il dio della guerra, nel suo corso ineluttabile e imprevedibile, aveva fornito a favore di Keynes una dimostrazione superiore a ciò che si sarebbe potuto – o dovuto – chiedere”.
La costruzione di un modello economico non è molto complicato a farsi se stabiliamo in anteprima in base a quali ipotesi lo costruiamo e se semplifichiamo il problema. In buona sostanza se non lo mettiamo in relazione con la realtà. Noi occidentali, a partire dagli antichi greci, abbiamo cercato sempre di racchiudere e spiegare la realtà costruendo modelli. Il problema è che se il modello adottato fallisce, non sappiamo che fare. Sappiamo muoverci e ragionare solo in quel modello e costruirne un altro non è cosa facile perché dobbiamo, tra le altre cose, cambiare punto di vista e soprattutto mettere in discussione interessi e privilegi consolidati, considerati acquisiti per sempre. L’economista Keynes, riuscì a cambiare i modelli economici di riferimento del suo tempo ed inaugurò una nuova era. Questi scoprì che, nel periodo tra le due guerre, i contratti di lavoro erano stipulati in unità della merce prodotta dal datore di lavoro e che il saggio di investimento adottato dalle imprese dipendeva dalle decisioni di risparmio delle famiglie. Teorie che furono travasate dentro i modelli detti neoclassici. Altre ipotesi come quella della “concorrenza perfetta” e del “raggiungimento automatico dell’equilibrio” sono state aggiunte successivamente, per poter dimostrare che il salario reale è uguale al prodotto marginale del lavoro.
Tutti ora sappiamo che le decisioni di investimento, in un’economia di libera impresa, sono adottate dalle imprese e non dalle famiglie e che quindi le relative responsabilità vanno attribuite a queste e non alle famiglie; che i salari sono fissati in termini monetari e che i prezzi non sono fissati grazie alla contrattazione in un mercato perfettamente concorrenziale. Anche perché questo mercato non esiste in natura. Ora queste deduzioni ci appaiono banali, ma allora erano tutt’altro che banali e scontate. Keynes elaborò le sue teorie dopo aver preso atto di quella che era la realtà del suo tempo. Dopo aver osservato con attenzione: come funzionavano le istituzioni dello stato-nazione, come funzionavano le industrie, il sistema bancario, la borsa.
Tutto cambiò, i governi delle nazioni capitalistiche industrializzate furono chiamati ad assumersi ruoli e responsabilità molto maggiori rispetto a quanto accadeva in precedenza. Questi governi furono chiamati ad adottare politiche finalizzate a: garantire la quasi piena occupazione, la crescita ininterrotta delle loro economie, evitare l’inflazione eccessiva, mantenere in attivo la bilancia estera in conto capitale e in equilibrio la bilancia dei pagamenti. I governi delle nazioni divennero quindi, attori primari dell’economia, non era più il mercato a regolare il tutto.
Fu grazie alla crisi economica del 1929 e soprattutto alla seconda guerra mondiale, che si diffusero le idee di Keynes, ovvero quando fu possibile mettere in discussione i modelli economici di riferimento. Questi dimostrò che cosa si poteva realizzare, in campo economico, grazie all’intervento dello Stato.
“Marte, il dio della guerra, nel suo corso ineluttabile e imprevedibile, aveva fornito a favore di Keynes una dimostrazione superiore a ciò che si sarebbe potuto – o dovuto – chiedere” (Galbraith, 1988 pag. 276).
Negli Stati Uniti, negli anni dal 1939 al 1944, il prodotto nazionale lordo in dollari costanti (1972) aumentò da 320 a 569 miliardi di dollari, ossia quasi raddoppiò. Le spese per il consumo personale in dollari similmente costanti non diminuirono, aumentando anzi da 220 a 255 miliardi. La disoccupazione nel 1939 fu stimata pari al 17,2 per cento della forza lavoro civile, mentre nel 1944 era scesa al valore irrilevante dell’1,2 per cento. Il tenore di vita degli americani divenne il più alto di quanto non lo fosse mai stato in passato. La guerra aveva quindi creato ricchezza grazie ad una crescente pubblica domanda sull’economia: gli acquisti da parte del governo federale di beni e servizi in questi anni passarono dai 22,8 miliardi di dollari del 1939 ai 269,7 miliardi del 1944.
Keynes non rispettò uno dei più importanti comandamenti dell’economia classica: il non intervento dello Stato nell’economia. Lo Stato intervenne (come abbiamo detto poté farlo perché l’economia degli USA era allo sfascio ed i tutori dell’ortodossia economica classica, non avendo soluzioni praticabili da proporre, caddero in disgrazia) ed il risultato ottenuto fu eccellente. Con il tempo però, le teorie keynesiane furono accantonate.
La leva fiscale fu fondamentale per la buona riuscita della politica keynesiana. Nel 1939 il gettito fiscale era stato di poco inferiore ai 5 miliardi di dollari, nel 1945 esso superava i 44 miliardi di dollari correnti. Nel 1929 la massima aliquota marginale dell’imposta sui redditi delle persone fisiche era stata del 24 per cento, essa aumentò durante gli anni del New Deal e nel 1945 era del 94 per cento.
“Con la guerra, e a giustificazione di queste tasse, era venuta la nozione che il sacrificio dovesse essere ripartito in misura più o meno equa: i poveri pagavano con la vita o in qualche modo con il loro servizio militare o la loro fatica; i ricchi, specialmente quelli che non facevano il servizio militare, avrebbero pagato con le tasse” (Galbraith, 1988 pag. 277).
Nacque dunque il principio di una tassazione fortemente progressiva, finalizzata a realizzare una redistribuzione effettiva del reddito. In quegli anni il divario tra ricchi e poveri si ridusse in modo rilevante. Per uscire dalla crisi fu incentivato enormemente il ruolo dello Stato e furono soprattutto i ricchi a pagare il risanamento dell’economia. Il risultato, come è stato già detto, fu eccellente.
Si può aggiungere che ciò si poté fare anche perché le classi dirigenti dell’epoca temevano che il socialismo potesse attecchire tra le masse. Preferirono pagare, rinunciare a parte considerevole delle loro ricchezze, pur di scongiurare tale possibilità. Successivamente si sono ripreso abbondantemente quanto sborsato e sono diventate enormemente più ricche.
L’esperienza keynesiana dimostra che un sistema economico per operare al meglio, ossia per il benessere dell’intera comunità, necessita di un ruolo rilevante dello Stato nell’economia, ma anche di una giusta distribuzione della ricchezza. L’ineguaglianza rende il sistema non solo ingiusto ma anche inefficiente. Malauguratamente tali principi, anche se dimostrati validi, sono considerati delle eresie nel mondo attuale.
Per i ricchi la prosperità degli altri è desiderabile solo se questa non intacca i loro interessi. Creare prosperità per i poveri significa avere difficoltà a ricattarli a dominarli. Tale prosperità modifica gli equilibri di potere nei territori perciò deve essere impedita. Anche in questo modo si crea ricchezza, per pochi, esercitando violenza contro i molti.
Come è stato già detto ben presto le teorie keynesiane furono abbandonate. Dopo non molti anni si ebbe il fenomeno della crescita di gigantesche imprese nazionali e soprattutto multinazionali, che determinò il crearsi di potenti centri di potere indipendenti dai governi nazionali, che riuscivano a raggirare e manipolare le politiche degli stessi governi. In non pochi casi acquisirono il controllo di interi paesi, in particolare di paesi poveri e poco strutturati. I governi di questi paesi passarono alle dipendenze di questi grandi colossi economici, che utilizzavano anche la violenza, il colpo di stato, il fomentare guerre e disordini pur di preservare i loro interessi.
Già nel 1971 Johan Robinson si chiedeva:
“Per il capitalismo moderno gli anni settanta potrebbero anche essere quelli decisivi. È possibile mantenete il quasi pieno impiego senza un’inflazione eccessiva? Può il sistema monetario internazionale essere organizzato così da svolgere tutti i suoi compiti, che le politiche nazionali gli affidano? Anche se le crisi, che oggi si profilano, fossero superate, e davanti a noi stesse un nuovo corso di prosperità, rimarrebbero ancora gravi problemi. Il capitalismo moderno non ha altro fine che quello di perpetuare sé stesso” (Robinson, 1977 pag. 149)
C’è ancora un altro aspetto da porre all’attenzione, ancora adesso la ricchezza di una nazione viene misurata soprattutto con il valore statistico del P.I.L. (Prodotto Interno Lordo), ma poche volte ci si chiede cosa questo contiene. Non poche volte il P.I.L. cresce grazie alla produzione ed al commercio delle armi, alle guerre, ovvero grazie alla violenza. I cittadini dovrebbero essere informati, resi coscienti, di questi aspetti spaventosi del sistema economico nel quale viviamo e che tutti (in particolare le fasce ricche della popolazione mondiale) contribuiamo ad alimentare. Questo compito spetta soprattutto agli economisti, ma come dice Johan Robinson:
“Ma gli economisti sono ostacolati da uno schema teorico che (quali che possano essere le riserve e le eccezioni introdotte), raffigura il mondo capitalista come un kibutz, che funziona in modo totalmente illuminato per la massimizzazione del benessere di tutti i suoi componenti” (Robinson, 1977 pag. 149)
Noi aggiungiamo che alcuni economisti, come non pochi esperti in altri settori, quando sono fortemente beneficiari di questo sistema, preferiscono non “sputare nel piatto in cui mangiano”. Non dimentichiamo che molti professionisti non lesinano consulenze ed appoggi finanche ad organizzazioni criminali.
Non è necessario poi ricorrere a nessun luminare dell’economia per renderci conto che tante delle tesi propagandate per farci capire come funziona il nostro sistema, sono solo storielle o fiabe utili per prenderci in giro.
Una di queste è la seguente: Chiunque ce la può fare a patto che si impegni duramente. Il nostro paese però è dominato dalle corporazioni, i privilegi non vengono intaccati (e non solo quelli dei politici) e le mafie sono determinanti per l’equilibrio dell’intero sistema. Nonostante ciò il merito dipenderebbe dalla voglia di lavorare e dalle capacità di ciascuno di noi, il che significa che se qualcuno non trova lavoro la colpa è da attribuire totalmente a sue colpe. Il disoccupato è quindi nel migliore dei casi un bamboccione, nel peggiore dei casi un parassita sociale. Non è un caso se a vergognarsi deve essere il povero e non chi ruba, soprattutto se questo è un colletto bianco.
Interessante è la tesi non siamo mai stati così liberi. È vero non siamo mai stati così liberi, possiamo, ad esempio, esercitare il diritto di critica, ma questa critica, anche perché basata molto spesso su presupposti errati, dovuti alla manipolazione dell’informazione e della cultura, non produce alcun cambiamento. In buona sostanza abbiamo il diritto di parola ma restiamo impotenti. Questa libertà di critica è poco legata a strumenti che la possano far divenire forza di cambiamento. In buona sostanza ci viene data l’illusione di avere potere organizzando un convegno, scrivendo un articolo, un libro ecc. ma ciò, la stragrande maggioranza delle volte, non ha alcuna ricaduta nella vita reale o ne ha una molto modesta.
Vediamo ora un aspetto chiave, quello del traffico di armi e dello stato di guerra permanente e globale in cui è il mondo intero. Si giustificano maggiori fondi per la difesa, per le forze armate ed investimenti nell’industria militare, perché dobbiamo difenderci da nemici sempre più minacciosi. Praticamente si vendono armi a soggetti che creano tensioni, guerre e quindi si crea la domanda per nuovi sistemi di armamento, per potenziare gli eserciti e per nuovi interventi militari in paesi destabilizzati. Tutto ciò, ovviamente, per difenderci. Così si potrà anche sperare in un aumento del P.I.L., si potrà dire stiamo uscendo dalla crisi. Mentre tutto ciò accade, l’attenzione dell’opinione pubblica viene orientata sui flussi migratori, sulle conseguenze nefaste dell’euro, dell’Unione Europea (come se le politiche di questa fossero decise da entità extraterrestri e non dai governi dei paesi che ne fanno parte) e sul terrorismo islamista.
D’altra parte, visti i criteri di funzionamento dell’attuale sistema economico, un’epoca di pace a livello mondiale potrebbe essere controproducente. Siamo in un sistema economico dove anche i capitali illegali sono considerati indispensabili. Abbiamo una religione monoteista che ha al centro il denaro, poca importa se di provenienza illecita, camuffato dal mercato e altri orpelli ideologici. Questo sistema monoteista, sta divenendo sempre di più la vera radice culturale di parte consistente dell’umanità. Le guerre, la fame, i flussi migratori non fanno altro che alimentarlo. Le guerre hanno sempre arricchito delle strette minoranze, non poche società industriali sono diventate potenti, in maniera legale, grazie alle guerre ed alla produzione ed esportazione di armi. I flussi migratori provenienti dall’emisfero sud del pianeta, si riversano sul mercato del lavoro europeo, dove si troverà sempre di più una manodopera abbondante e meno sindacalizzata di quella europea. Un vantaggio di non poco conto per il capitalismo europeo e non solo europeo, che potrà contare su bassi salari, pochi diritti per i lavoratori, conflitti tra poveri e quindi, regressione dell’intera società. Saranno scoraggiate tutte le ipotesi contestatrici dei lavoratori (sia autoctoni che immigrati). L’Europa, forse, diverrà più competitiva ma questa competitività sarà pagata ad altissimo prezzo.
Siamo quindi, ormai da tempo, in un mondo dominato da dottrine economico-filosofiche che propongono la ricchezza come bene supremo infatti, l’ambizione di tutti gli uomini è quella di divenire ricchi. Pertanto, è del tutto logico che il lavoro venga svilito al rango di una qualsiasi merce e quindi venduto e comprato con gli stessi criteri, ovvero che lo si acquisti al prezzo più basso possibile. In tale sistema, l’uomo, la sua umanità, non può che regredire o scomparire del tutto anche perché i legami sociali tendono ad indebolirsi, come il dovere di solidarietà, i doveri reciproci. Tutto è coperto dalla pretesa ricerca di efficienza ed efficacia del sistema, che definisce capitale anche l’uomo, il “capitale umano”. Che predica l’empowerment – “un processo di crescita, sia dell’individuo sia del gruppo, basato sull’incremento della stima di sé, dell’autoefficacia e dell’autodeterminazione per far emergere risorse latenti e portare l’individuo ad appropriarsi consapevolmente del suo potenziale” – che significa che ognuno di noi deve affinare le proprie capacità, tecniche, per competere con gli altri uomini nella lotta per la sopravvivenza. Ovviamente tutti i mezzi ed i fini sono legittimi in questa lotta anche perché solo pochi ce la faranno, gli altri vivranno da miserabili.