Di mestiere faccio il linguista 14. Gli accenti

di Rosario Coluccia

Instancabile e tenace, il “professore di Tricase” a cui ho risposto in questa rubrica il 30 aprile mi scrive ora (le lettere sono sempre firmate, ma preferisce che il suo nome non venga divulgato): «Grazie di aver trattato la questione del troncamento e dell’elisione. Ma le avevo posto anche un’altra domanda: spesso negli articoli di giornale, negli avvisi pubblicitari e perfino nei libri si trovano accenti di tipo diverso segnati sulle stesse parole: “caffè” e “caffé”, “benchè” e “benché”, “ventitrè” e “ventitré”, ecc. Quale è la forma corretta? Come si spiega la variazione? Inoltre mi ha colpito la carta intestata di un Dipartimento dell’Università di Parma che reca l’intestazione: «Dipartimento di Giurisprudenza, Studî politici e internazionali», con l’accento circonflesso nella parola “Studî”». Il professore ha ragione, avevo occupato l’intero spazio a mia disposizione per rispondere solo a una parte delle sue domande. Provo adesso a completare.

Nell’ortografia italiana ci sono sette vocali accentate: «à, ì, ù, è, é, ò, ó». Si usa esclusivamente l’accento grave nei casi in cui nella pronunzia della vocale non si distingue tra diversi gradi di apertura («à, ì, ù»). Si usano invece due tipi diversi di accento (acuto e grave) a seconda che nella pronunzia si voglia distinguere tra «e, o» pronunziate aperte e «e, o» pronunziate chiuse. Dobbiamo scrivere «caffè» e «portò» con l’accento grave, «perché» e «córso» con l’accento acuto («ó» chiusa può figurare solo all’interno di parola, giacché «o» finale è sempre aperta).

Una cosa è lo scritto, una cosa è l’orale. Non tutti i parlanti sono in grado di distinguere tra la pronunzia aperta e chiusa della «e» e della «o» e di pronunziare correttamente queste vocali, secondo le regole dell’italiano standard. In Salento (come in altre regioni del sud estremo, Calabria meridionale e Sicilia) pronunziamo «e» ed «o» sempre aperte, non facciamo distinzione. Ma possiamo rimaner tranquilli, non è un nostro difetto inaccettabile, solo pochissimi nel nostro paese conoscono e usano la corretta pronunzia italiana, l’italiano standard (attori di teatro e pochi altri soggetti professionali). Nell’oralità, i parlanti di solito fanno ricorso al cosiddetto italiano regionale, una lingua che conserva tratti (soprattutto fonetici) del dialetto locale: a seconda del luogo di nascita, italiano regionale lombardo, veneto, romano, napoletano, salentino, siciliano, sardo, ecc.

Di impiego molto più limitato (e facoltativo) è l’accento circonflesso. Può comparire solo in due casi. 1. Per distinguere parole rare o che si scrivono allo stesso modo: vôlta con l’accento circonflesso significa ‘copertura’ (la vôlta della casa, la vôlta del cielo), volta senza accento significa ‘tempo, occasione, circostanza’ (ad esempio: questa volta, la prossima volta). 2. Nel plurale di sostantivi e aggettivi in -io: studî, varî, ecc. Nei testi scritti dei decenni passati troviamo anche studii e studj, ma si tratta di grafie oggi poco frequenti, per lo più segnalano aspirazioni colte dello scrivente. Come comportarci? In questo caso possiamo scegliere tra diverse soluzioni, non dobbiamo restare ancorati agli usi di un tempo. Nell’italiano contemporaneo l’accento circonflesso quasi non si usa più. Scriviamo volta, studi, vari, il contesto è sufficiente per capire. Anche la lingua scritta può cambiare, seppur lentamente, gli scriventi decidono. L’«uso fa legge» recita un proverbio antico, lo trovo fin dalla prima edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca (1612); l’uso fa legge anche nella lingua, se è ragionevole, se viene accettato e condiviso dalla maggioranza degli scriventi.

Mettendo da parte l’accento circonflesso, gli accenti grave ed acuto servono anche a indicare la diversa pronunzia (e il diverso significato) di parole che si scrivono allo stesso modo. Nella lingua italiana esistono coppie come àltero («io àltero la combinazione dei numeri del chiavistello per confondere i ladri») e altèro («quell’uomo ha uno sguardo altèro»), àmbito («le tue sono valutazioni di àmbito ristretto») e ambìto («hai ricevuto un premio ambìto»), àncora («l’àncora della barca») e ancóra («sei ancóra qui?»), prìncipi («i prìncipi d’Inghilterra») e princìpi («è un uomo di sani princìpi»), séguito («quel politico ha scarso séguito») e seguìto («il corso di quel professore è molto seguìto»), sùbito («vengo sùbito, non tardo») e subìto («ho subìto troppo a lungo le tue ingiurie»), e altre. In tutti questi casi l’accento non è obbligatorio, possiamo farne a meno.

Raramente l’accento viene usato per registrare la corretta pronunzia dei cognomi, nei casi di incertezza. Nell’inverno 2014 l’appena nominato primo ministro Matteo Renzi, nell’elencare i membri del suo governo, arrivato al Ministero dell’Economia, pronunziò il nome di Pier Carlo Pàdoan, accentando sulla sillaba iniziale. Il cognome è di origine veneta, come dimostra l’etimologia: Padoan è la forma veneta di Padovano, all’origine indicava semplicemente il luogo di nascita o di provenienza dell’individuo che portava quel cognome. Il processo è frequentissimo: in tutt’Italia sono diffusi cognomi come Milanese (e anche Da Milano, Milano), Napoletano / Napolitano (e anche De Napoli, Napoli), Fiorentino, Romano, Ferrarese, ecc. Anche la distribuzione areale del cognome Padoan conferma l’origine: la zona di maggior addensamento è il Veneto (soprattutto le province di Venezia e Treviso, poi quelle di Vicenza, Padova, Rovigo), con propaggini a Milano e Torino, secondo una configurazione tipica dei cognomi veneti, legata all’emigrazione interna degli anni del boom industriale (negli anni cinquanta e sessanta del Novecento il Veneto, oggi zona tra la più ricche del paese, fu terra di emigrazione).  Di origine veneta è la famiglia del ministro, da lì trasferita in Piemonte. L’interessato, nato a Roma, ha dichiarato poi di preferire la pronunzia con accento sulla prima sillaba (pur etimologicamente erronea), i suoi colleghi politici e il mondo della comunicazione si sono adeguati. In questi giorni il ministro è in Puglia, i commentatori televisivi dicono sempre Pàdoan.

Non l’han presa bene i veneti, originari conterranei del ministro. Per anni hanno cercato di convincere gli italiani che si dice Benettón (non Bènetton), che un politico della fine del secolo scorso si chiamava Rumór (non Rùmor); uno ha scritto: « Io sono veneto e mi chiamo Bortolomiól […]. Mi viene il mal di fegato ogni volta che sento pronunciare il nome del ministro Pàdoan con l’accento sulla prima sillaba […]. Ciò che più mi sorprende, è che il ministro stesso accetti questa pronuncia, e non la faccia correggere».

Esagerazione? Eccessivo senso di appartenenza legato alla accentazione e alla opportunità di segnalarlo nella grafia? Non so. Mi viene in mente un episodio raccontato da Milan Kundera, La lentezza, pp. 58-64. Subito dopo la caduta dei regimi comunisti dell’Europa orientale, dopo il 1989, uno scienziato di nazionalità ceca partecipa per la prima volta a un convegno a Parigi. Prima di quell’occasione praticamente non c’erano stati contatti scientifici tra le due diverse anime dell’Europa, quella orientale e quella occidentale, anche gli alfabeti erano un po’ diversi. La segretaria francese del convegno non sa scrivere bene il cognome dello scienziato ceco, lui stesso deve segnare, con la propria penna, due accenti circonflessi rovesciati che in quell’alfabeto sormontano due lettere: «č» e «ř». Il professore spiega: «Furono inventati da Jan Hus, professore all’università di Praga (la prima università del Sacro Romano Impero), grande riformatore della Chiesa, precursore di Lutero, simbolo dell’identità culturale del mio paese». E aggiunge: «Ora capisce perché noi cechi andiamo così fieri di questi minuscoli segni sopra le lettere […] Siamo pronti a qualunque tradimento. Ma per questi segni ci batteremo fino all’ultima goccia di sangue […] Sono così poetici, questi accenti circonflessi alla rovescia!». Poi, come scusandosi, in silenzio si allontana. Mentre va via, lo scienziato si volta e vede il sorriso commosso della segretaria. Le rivolge a sua volta alcuni sorrisi, malinconici eppure fieri. Una malinconica fierezza. Così si potrebbe definire lo stato d’animo dello scienziato ceco, dopo aver scritto correttamente il suo cognome.

Trovo bello che l’identità e il senso di appartenenza si esprimano attraverso la fiera fedeltà alla grafia della propria lingua.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 14 maggio 2017]

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