di Antonio Errico
Cinque anni fa, il 19 febbraio del 2016, se ne andava Umberto Eco. Quando uscì “Il nome della rosa”, al principio degli anni Ottanta, avevamo vent’anni, o qualcuno di meno, o qualcuno di più. Se a quell’età uno incontra un romanzo così, probabilmente struttura definitivamente il modo di pensare la narrazione, compone la propria rappresentazione del mondo attraverso il racconto, stabilisce con consapevolezza la relazione tra la realtà e la finzione, tra la storia e l’invenzione, tra l’autore e il lettore. Se a vent’anni si attraversano quelle pagine che stringono storia filosofia semiologia erudizione teologia, micro e macro citazioni, modelli e riferimenti letterari, con molta probabilità si matura un’idea che condizionerà per sempre il rapporto personale con la letteratura. Anche soltanto per quella frase che chiude il romanzo e che dice così: “Lascio questa scrittura, non so per chi, non so più intorno a che cosa”. In questa frase c’è tutto il senso inevitabilmente smottante della letteratura.
Forse non succede la stessa cosa se quel romanzo si legge a quarant’anni, dopo i quaranta, perché a quell’età l’idea di letteratura si è già formata e articolata, oppure non si formerà mai più.
Avevamo vent’anni, dunque, o qualcuno di meno o qualcuno di più, quando incontrammo quel libro. Dell’autore avevamo notizie che venivano da certi esami fatti nei primi anni di università, da certe episodiche letture avventurose. Ma dopo la lettura del “Nome della rosa”, Umberto Eco diventò un mito. Cercammo gli altri libri: leggemmo “Diario minimo”, con i due saggi famosissimi “Fenomenologia di Mike Bongiorno” e “Elogio di Franti”; leggemmo “Apocalittici e integrati”, “Opera aperta”. In quegli anni non si poteva aprire bocca se non si dimostrava con prove inconfutabili di aver studiato “Opera aperta” e “Apocalittici e integrati”. Lo seguimmo sui giornali. Cominciavamo a leggere “L’Espresso” dall’ultima pagina, dalla “Bustina di Minerva”. Poi leggemmo “Il pendolo di Foucault”, “L’isola del giorno prima”, “Baudolino”, “La misteriosa fiamma della regina Loana”, “Il cimitero di Praga”.Ma per nessuno avvertimmo lo stesso sbalordimento che ci sorprese con “Il nome della rosa”. Per nessuno lo stesso coinvolgimento, la stessa passione. Perché di libri come quello se ne scrive uno per ogni secolo. Non tanto per la qualità ma per l’innovazione della formula. Si è detto che “Il nome della rosa” è una macchina narrativa. E’ vero. Una macchina formidabile, forse al limite della perfezione. Una scaltra, studiata, scientifica combinazione di generi.