di Antonio Errico
Sono passati vent’anni dall’inizio del secolo che corre. A volte abbiamo avuto l’impressione, forte, dentro, sulla pelle, di vivere ancora nel tempo in ogni senso straordinario del Novecento. A volte abbiamo avuto l’impressione che il tempo del Novecento si fosse fatto immensamente e irrimediabilmente lontano.
A volte ci è sembrato che non fosse cambiato nulla, che il passaggio avesse soltanto un significato per il calendario e per nessun’altra condizione. A volte ci è sembrato che il passaggio avesse trasformato radicalmente le nostre esistenze, che con il secolo nuovo, con il nuovo millennio, avesse avuto inizio un’epoca che con quella precedente non potesse avere nessun paragone.
In fondo le incertezze sono sempre quelle, riguardano sempre le stesse situazioni. Anche gli sbandamenti, in fondo, sono sempre quelli, i disorientamenti, le scelte coraggiose, i conti che tornano o non tornano, le rinunce, le occasioni perdute e quelle prese a volo. In fondo sono sempre quelle le passioni.
Così a volte ci sembra che sia rimasto tutto uguale e altre volte ci sembra che tutto sia cambiato, che nulla sia e possa essere più nel modo in cui è stato fino a vent’anni fa. Ma il tempo passa per questo: per cambiare tutto intorno a noi e forse anche tutto dentro di noi, lasciandoci soltanto il desiderio che almeno l’essenziale resti come vogliamo.
Ma le nostre abitudini sono cambiate. Le nostre forme di pensiero, i nostri linguaggi, le nostre grandi e piccole narrazioni, le nostre giornate, gli strumenti del comunicare sono cambiati. Anche il nostro confrontarci con i fatti della Storia, con le sue coordinate e con le sue metafore.
Ma ci sono due cose che più di tutte le altre sono cambiate: la nostra memoria e la nostra idea di futuro. Le due condizioni sulla quali si fonda il presente di ciascuno.