di Rosario Coluccia
La parola italiana «eufemismo» nasce dal greco «euphemismos», a sua volta da «euphemizo» ‘dico parole di buon augurio’ (composto di «eu» ‘bene’ e «femì» ‘dire’). Indica una figura retorica che consiste nel sostituire, per scrupolo religioso o morale o per riguardi sociali o per altro motivo, l’espressione che sarebbe propria e usuale con un’altra di significato attenuato. Il ricorso all’eufemismo è finalizzato a non colpire la sensibilità, propria o di altri, individuale e collettiva. La questione non è solo linguistica, non riguarda opzioni lessicali pari e tra loro intercambiabili. Scegliendo alcune parole al posto di altre facciamo capire cosa pensiamo veramente, riveliamo le nostre idee e i nostri sentimenti. Questo avviene spesso, ma si verifica sistematicamente quando parliamo di questioni che coinvolgono le nostre inclinazioni, colpiscono perché ci riguardano direttamente, toccano temi che fanno parte della quotidianità: la vita, la morte, la malattia, la religione, la condizione sociale, la razza, la devianza, il sesso e l’orientamento sessuale.
Se consideriamo lo sviluppo storico degli eufemismi, possiamo catalogarli secondo i motivi che hanno portato alla loro formazione. Si ottengono così classi diverse di parole: eufemismi riferiti ad attività o caratteristiche fisiche o a parti del corpo o alla sfera sessuale, collegati al cosiddetto politicamente corretto, originati da timori e paure di vario tipo, ecc. Questa settimana parleremo della prima categoria. Se ne avremo l’occasione, le settimane successive tratteremo delle altre (in tutto o in parte).