Come un grande amore. Nel modo in cui accade per ogni grande amore; come ogni grande amore si confronta con il dissidio, con l’incomprensione, tra Vittorio Bodini e il Sud c’è stata la tensione lacerante di ogni grande amore.
C’è stata la passione ebbra, l’illusione dell’eternità di quell’amore; c’è stato il desiderio prorompente, l’ansia, la frenesia, la sensualità spossante, poi l’intenzione dell’addio, la separazione. Poi il ritorno malinconico. Poi l’allontanamento. Un altro. L’ultimo: nostalgico, pietoso, soffocato dal rimpianto.
Mai, però, ci fu l’indifferenza. Mai ci fu l’estraneità, il sentirsi slegato da ogni vincolo, affrancato da una sentimentale soggezione, spiantato dalla terra, abbandonato dal sogno e dall’ idea di una nuova vita per una terra e per i destini che dentro quella (questa) terra si generano e si dipanano, si annodano e si aggrovigliano, si ritrovano o si disperdono, si differenziano o si rassomigliano.
Nel modo in cui accade per ogni grande amore, Vittorio Bodini ha vissuto il Sud con una contraddizione carica di energia inquieta, con un alternarsi di attrazione e di rifiuto, tra l’istinto di fuggire e il desiderio di tornare, fino a raggiungere l’esasperata e al tempo stesso lucida coscienza di un’assoluta, irreversibile, drammatica volontà di morte nella lontananza.
“Qui non vorrei morire dove vivere/ mi tocca, mio paese/ così sgradito da doverti amare”.
E’ in questo disperato desiderio di un altrove ultimo, di una morte inappartenente e sradicata dal “qui” dove l’esistenza è costretta per destino, o per necessità, o forse per quell’amore così prepotente e sfrenato da restare sempre e irrimediabilmente inappagato, che esplode l’espressione del rifiuto della terra com’è nel suo presente.
Ma c’è quel “doverti amare”: come una costrizione all’amore determinata da un senso di legame filiale impossibile da disconoscere, irrinunciabile, un nodo al cuore che non si può slegare e che fa sempre più male perché sempre più si fa disperato affetto.
Non dice, Vittorio Bodini, quale sia l’altro luogo; non c’è, per Vittorio Bodini, un altro amore per un’altra terra. C’è soltanto lo straziante sentimento di una insofferenza del “qui”; c’è soltanto l’aspirazione ad una fuga che coincida con una dissolvenza anche del possibile ricordo che si può lasciare negli altri che rimangono lì dove un giornale loda la guardia campestre che spara sui ladri di chiocciole.
Il ritorno si rende sopportabile soltanto se contempla la possibilità di una trasformazione, di un diventare “altro” dall’essere, per riappropriarsi di un senso originario che è stato perduto o rifiutato.
Ogni partenza di Bodini è sempre impregnata del senso di un addio anche quando questo senso racchiude la prefigurazione di un ritorno.
Partire svanendo, dunque, e poi fare ritorno, ma con un altro cuore, con un altro pensiero “ duro e sofistico”, disposto – o costretto –al confronto serrato e impietoso con se stesso e con quello che intorno appare in superficie o si nasconde nel passato profondo.
L’esperienza poetica del ritorno, per Bodini è un’esperienza della morte: di una morte che coinvolge tutte gli esseri e le cose, ogni dimensione del tempo; è un nostos che annichilisce, che provoca uno stordimento esistenziale, che stringe in una condizione di abissale vuoto interiore.
Il luogo verso cui tende e si conclude il viaggio di ritorno è quel paese nel Sud, “dove ogni cosa, ogni attimo del passato somiglia a quei terribili polsi di morti/ che ogni volta rispuntano dalle zolle/ e stancano le pale eternamente implacati”.
E’ nel luogo e nel tempo del ritorno che matura la comprensione della ineluttabilità di una perdita: “qui” – dice Bodini- “ s’era fatto il mio volto”, in quel luogo destinato dall’origine, in quell’incessante riaffiorare di un passato che il tempo e la morte non riescono a placare, nella lontananza assoluta e definitiva da altri luoghi e altre esistenze.
Il volto dell’altro, di chi si è costretti a perdere, quel volto che ha il profilo di un amore forestiero, si è fatto, invece, in altri paesi “ a cui non posso pensare”.
Cosa c’è dietro – dentro- il verso “ a cui non posso pensare”?
Se si può anche leggervi una nostalgia di altri paesi ai quali non si appartiene per origine, allora Bodini scardina l’assioma della nostalgia del proprio paese, o soltanto del proprio paese.
Il solo paese in cui sia possibile ritornare senza farsi sommergere dal senso dilagante di morte, è quello della memoria. Ma il paese della memoria è un luogo inesistente. E’ soltanto proiezione dell’immaginazione. E’ una pura invenzione della parola. Però è questo paese che per Bodini diventa l’orizzonte di uno struggente desiderio. E’ il paese dell’infanzia che è , anch’essa, un’invenzione, una fiaba consolatoria, il possibile rifugio quando il presente è la furia di una bufera. E’ il paese dello stupore per la scoperta di se stesso e degli altri che abitano quel paese: creature che proteggono da ogni insidia del mondo e soprattutto dall’agguato che tende il futuro. E’ il paese edificato giorno per giorno con le parole di una poesia.
Solo in quel paese, Vittorio Bodini si riconosce, riesce cioè a riconoscere se stesso, il proprio essere autentico.
Ma allora: se l’essere autentico è una possibilità concessa solo alla poesia, se il riconoscimento di se stesso avviene solo dentro il luogo della poesia, si può ipotizzare che sia soltanto la poesia il vero e unico paese che Bodini abita o che può abitare, in cui non si sente mai straniero, dal quale non deve mai partire, al quale non deve mai fare ritorno.
Come un grande amore, dunque, la storia tra Bodini e il Sud ha dentro il suo sviluppo tutta l’impossibilità di una ordinaria situazione e tutta l’incomparabile poeticità della straordinarietà di una condizione.
Ci sono eventi che accadono per caso, nella poesia di Vittorio Bodini, come, talvolta, accadono per caso gli eventi, in ogni vita: per disegni imponderabili, ragioni ingovernabili, cause senza un’origine che si renda manifesta, impreviste deviazioni lungo il transito dei giorni, occasioni inaspettate, insospettate, cattive o buone.
Per caso accade in Bodini, innanzitutto, quell’evento dal quale ogni altro deriva ed al quale è subordinato, quello che una creatura si porta dentro con felicità in certe stagioni, in altre con disperazione, o con felicità e disperazione mescolate, in altre ancora.
Esistere. E’ questo il caso originario, per Vittorio Bodini: un caso che poi si carica di una connotazione umana radicale, di un destino dal significato inequivocabile: esistere al Sud. Pensarsi e rappresentarsi come l’esito di un colpo di dadi, come numero deciso dalla sorte che realizza innumerevoli combinazioni.
Tutto il resto, ogni altro evento, discende e dipende da questa espressione del caso. Tutto il resto non è che una variante, una rifrazione, una scaglia, una specularità, una rassomiglianza.
La casualità di esistere al Sud determina la condizione del rapporto con la terra e con il cielo, con la vita e con la morte, con il dolore, con l’amore, con il tempo, con la Storia, con il silenzio e con la parola, con l’ immanente e il trascendente, con la luce e con il buio, con l’attesa e il rimpianto, la fuga e il ritorno, la realtà e l’immaginario.
Esistere al Sud è un continuo corpo a corpo con le figure concrete di un passato che affiora, come dentature di cavalli uccisi, dalle profondità dell’appartenenza alla terra, o con quelle fantasmatiche che prendono perfino i nomi di un bestiario, la forma degli ulivi, i colori di un tramonto, le voci di una leggenda, e, più malinconicamente, i volti, i pensieri, i trasognamenti di un’infanzia, le malinconiche euforie di un’adolescenza.
Ma il sentimento del caso di esistere al Sud si fa tanto più forte, più pesante, più pregnante, quanto più con il Sud Bodini stabilisce, psicologicamente e fisicamente, una distanza.
E’ nella dimensione della lontananza, nella nostalgia dell’irrecuperabile, nella mancanza delle cose che sono state il lievito del modo di essere, di pensare, di agire, di amare, di sognare, che il vincolo con la terra si trasforma in rimpianto lacerante, in un groppo di emozione che genera l’ansioso desiderio di un ritorno: di un ritorno impossibile. Perché il ritorno di Vittorio Bodini non è verso un luogo – da cui è sempre in frenetica fuga – ma è dentro l’universo di una memoria che ha elaborato la trasmutazione del luogo reale in luogo esclusivamente interiore, che ha introdotto nella trama della storia personale e generazionale luoghi e personaggi che hanno la conformazione e la fisionomia del mito.
La relazione poetica che Vittorio Bodini vive con il Sud è essenzialmente un’esperienza amorosa con una creatura che non è più com’è stata un’altra volta, oppure come si pensa che possa essere stata, o come viene figurata nel ricordo. Allora questa relazione si incaglia nelle secche di una delusione derivante dall’esperienza del presente, si immalinconisce nella convinzione di una fine inevitabile, subisce la frattura, l’asincronia, la discordanza tra il tempo del soggetto che ama e quello del soggetto che è amato, si rifugia ( o si esilia?) nel tempo passato che il pensiero può selezionare, modificare, ricostruire, rigenerare e, quindi, rivivere scegliendo i luoghi, i volti, le storie con cui prolungare un rapporto d’affetto, anche se quasi esclusivamente in una dimensione di autoriflessione, forse anche di autoreferenzialità, anche se tutto sempre in dissolvenza.
Bodini avverte che il presente lo accerchia ad ogni passo, lo costringe a fare i conti con miti sgretolati, idoli caduti.
Ha ragione Donato Valli quando dice che il poeta “non riesce a portarsi fuori dal presente che preme da ogni parte” e che gli oggetti dell’infanzia e dell’adolescenza che spesso tramano la sua poesia “ fanno da contrappunto a un canto ora nostalgico ora disperato, ma sempre ridotto oramai alla misura dell’io”.
In fondo è sempre la misura dell’ io che per Bodini costituisce la categoria e la metodologia per la comprensione del mondo e dell’essere al mondo, del Sud e dell’esistere al Sud.
Il mondo si mostra con i paesaggi del Sud: gli orizzonti, le ombre, le lune, le crune dei campanili e i deliri, i racconti da narrare e da narrarsi, la vita che splende come un raggio o che scivola come un rigagnolo in Via De Angelis, strada sbilenca, traballante, dove sembra che possano compiersi tutti i destini, dove –dice- ho abitato in ogni numero civico, “ con tutti/ con le rondini/ coi vecchi che muoiono all’alba/ in una verde luce d’acquario/ con quelli che sloggiano/ portandosi coi mobili sul carretto/ i vetri della finestra/ e l’albero di limone del cortile”.
Il mondo per Vittorio Bodini è una grande pianura che a una cert’ora vede cadere un tramonto da bestia macellata, è un’esule provincia, un’amara contea, una periferia infinita dove accade qualcosa che “il mondo” – un’altra realtà , dunque, diversa ed estranea al Sud- “ non può volere”.
Il mondo è quel luogo dove un tempo c’erano accademie e monaci sapientissimi, dove un eremita può rivelare il modo per tamponare “lo sgocciolio suicida” del paesaggio.
Il mondo è quella realtà dove ogni cosa – la nascita, la morte, l’avventura di vivere- accade senza un progetto, talvolta anche senza una consapevolezza, come se fosse fine a se stessa, indifferente al tempo e alla natura.
Tutto accade per caso, allora. Solo qualcosa sembra sottrarsi alla casualità senza rimedio, forse perché è il risultato di un puro processo del pensiero: il sogno e la speranza del futuro. Cioè quelle cose più casuali, in assoluto: il sogno e il futuro.
Quando Vittorio Bodini lasciò questi cieli per andare a vedere se poi davvero Dio è come lo immagina un uomo del Sud , al secolo passato e a quello che ora corre, consegnò in eredità un patrimonio di poesia con il quale in qualche modo ha dovuto fare i conti non solo chiunque da queste parti si sia ritrovato ( per una vita intera o per una volta sola) a scrivere parole fatte in versi sopra i fogli ma anche chiunque si sia confrontato con le rappresentazioni della terra, le immagini che scolpiscono un aspetto del paesaggio, le espressioni dell’esistere e le forme di pensiero di chi abita questi luoghi del Sud.
Inevitabilmente i paesaggi cambiano. Spesso e altrettanto inevitabilmente, cambiando si insozzano.
Talvolta si avverte la sensazione che tutt’intorno la sozzura ci assedi, ci insidi sui marciapiedi, ci apposti agli angoli per risucchiarci nella realtà e nella metafora della spazzatura. Sono oggetti che derivano dall’ uomo ma che dall’uomo, dalla sua realtà e dalla sua natura, si distaccano, che l’uomo a un certo punto rifiuta con un gesto di rigetto, in una condizione di reiezione, forse inconsapevole, e scarica in un contesto di natura al quale non appartengono, in cui si collocano con un’intromissione, come corpi estranei, segni di un processo negativo , esiti di un’eccedenza, di un’esuberanza materiale, di un conato culturale.
Si subisce come un’ offesa iniqua, come la violazione della dignità, quasi che le carcasse di elettrodomestici, i materassi sventrati, i water abbandonati ai cigli delle strade fossero i totem di una civiltà irreversibilmente e orribilmente degradata, sepolta sotto il suo nuovo letame che non è biodegradabile, che non concima e quindi non rigenera, ma che avvelena la terra, la condanna ad una atroce agonia.
Vittorio Bodini lo aveva detto; ci aveva avvertiti. Che questa terra, questo paesaggio vivesse – e morisse – in uno “sgocciolio suicida”, lo aveva intuito, osservato, affermato con una capacità di analisi e una potenza visionaria riconducibile poeticamente e psicologicamente alla fisionomia del “ voyant”, del veggente rimbaudiano.
I bulloni schiodati e l’odore della nafta bruciata, i nidi di plastica e di cemento che si sarebbero alzati dov’erano anfiteatri d’uve e dizionari d’ombre, le pinete ridotte a cimiteri di alberi, “alti scheletri arsi in un incendio senza canti”, le spiagge come millepiedi invase dal turismo di massa, il mare sporco di nafta, sono i simboli – solo alcuni simboli – della tetraggine che dilaga sulla pianura industriale, dell’angoscia e dell’abbandono, del vuoto di senso, della perdita di ogni riferimento, dell’assassinio della natura.
La salvezza è affidata ad una profezia, al vaticinio di un eremita: di un altro eremita “più vecchio di me”.
Allora, il soggetto che parla rivela la propria identità di eremita; l’io poetico rappresenta ed esprime la condizione di una solitudine – più esattamente di una separatezza – sapiente, di una saggezza del tempo, di una coscienza del futuro.
L’io poetico bodiniano vede oltre, sa, conosce il possibile, il probabile, l’inevitabile.
Quella dell’eremita, del poeta veggente, è una figura letterariamente, semanticamente e cronologicamente stratificata, un archetipo, un’esperienza figurale che stabilisce interrelazioni con il solipsismo, con la verità, con il mistero, con il mito e la storia, il silenzio e la parola, la ragione e l’emozione.
Nell’identità archetipica dell’eremita c’è il tempo passato e il tempo a venire, c’è la vita e la morte, il principio di qualcosa e la fine di un’altra, c’è tutta l’atemporalità della poesia, il suo oltrepassare la storia e la geografia.
L’eremita di Bodini è il simbolo della lontananza dal sistema simbolico-culturale della civiltà contadina; è il rifiuto di un paesaggio che ha appiattito le forme e i significanti di una condizione dell’esistere connotata da una reciprocità, da un interscambio con gli elementi della natura.
La rassomiglianza con l’eremita della Ballata del vecchio marinaio di Samuel Coleridge è straordinaria, soprattutto nella connotazione suggestiva ed evocativa, nella figurazione plastica e nella valenza simbolica.
Il paesaggio della pianura industriale è straformato, deformato, un luogo asfissiante, chiuso, attraversato da spettri di giovinezza e di bellezza, cosparso di mine che fanno saltare in aria ogni passo che tenti di opporsi all’invasione del nulla e del numero “ nemico dell’uomo”, dei consumatori che si autoriproducono, della massificazione turistica .
Vittorio Bodini scrive Rapporto del consumo industriale nel giugno del 1970, sei mesi prima di morire.
Dopo alcuni anni tutto è diventato esattamente come aveva prefigurato. Perché per Vittorio Bodini comprendere il paesaggio significava anche – o soprattutto – intuirne la trasformazione e quindi l’inarrestabile corrosione, l’incombente sfacelo; significava anche vivere con passione – con sofferenza- il tempo della terra, auscultarne e interpretarne il respiro, ricercare un equilibrio tra l’essere della terra e il proprio esistere.
Quel suo verso che dice “qui s’era fatto il mio volto” non è solo l’esplicitazione di un’origine e di una appartenenza; è anche l’espressione di una reciprocità di sentimenti e sensazioni, di condizioni e connotazioni antropologiche e delle conseguenti mutazioni, di visioni del mondo e di destini.
Il Sud di Vittorio Bodini è una terra sconvolta da una maledizione assoluta: mostra orizzonti spettrali, vertiginose stratificazioni di assenze, fantasmi di creature decapitate, case e paesaggi, stagioni, notti, mattini, attraversati da una misteriosa – spaventosa – inquietudine, ombre che crescono e si allungano a dismisura dilatando ogni spazio, alterando ogni percezione della realtà, deformando l’immaginario, generando storie stralunate, pensieri che bruciano tutti i nessi logici, le sistematizzazioni concettuali, le categorie di presente, passato, futuro, i riferimenti al prima e al dopo, all’ ora e all’ allora.
Tutto appartiene al passato e il passato è una botola senza fondo in cui inabissarsi inevitabilmente, dolorosamente, disperatamente. Per fare i conti con la storia, con le sue costanti, precise, aggressive operazioni di sottrazione. Ma anche per salvarsi dal presente agonizzante, per risparmiarsi la sofferenza di assistere allo sgocciolio suicida del paesaggio.
Per Vittorio Bodini il presente del Sud è un deserto, un buco nero, una devastazione prodotta dal tempo,una privazione di esistenza, una negazione di senso. Il presente del sud è un inganno, un tradimento, un abisso di buio, talvolta un insulto che spinge all’addio triste e rabbioso per l’accadimento marginale che però si carica della valenza di una metafora dell’incomprensibile, come quando un giornale loda la guardia campestre che spara sui ladri di chiocciole nel bosco incolto o dà la caccia “ a bimbe con le labbra viola/ per qualche oliva selvatica nella macchia”.
Allora il presente del Sud è una sventura, il presagio della catastrofe antropologica di un prossimo futuro.
La vita non ha mai oltrepassato la condizione dell’origine. La vita è ancora – sempre – lì, in via De Angelis: microcosmo, sineddoche del mondo, antro di memoria, universo di senso, dimensione di spazio e condizione di tempo in cui la coscienza di sé, la percezione e l’emozione del perdurare della propria appartenenza all’origine, si ravvivano e si rinnovano attraverso un movimento della memoria che annulla la distanza dal passato. Allora tutto quello che ritorna nel pensiero emana una luce dalla profondità della sua sostanza: i grappoli diventano d’oro; è tutto d’oro il canto che arriva dal convento delle Scalze, è gaia la tristezza, il cielo è sonoro; anche la morte accade “in una verde luce d’acquario”.
In via De Angelis si verifica il miracolo della scoperta della realtà e della sua esperienza. Lo sguardo assorbe tutte le forme e tutti i colori dell’esistenza; la ragione si confronta con le cose e i loro riflessi; il cuore di “molle cera” trattiene i segni di una straordinaria avventura di nascere e di vivere in quel luogo.
L’ istinto di fuga dalla terra e di ritorno ad essa, che attraversa tutta la vita e tutta la poesia di Vittorio Bodini, si ritrova costantemente davanti l’ostacolo gigantesco della dolcezza della memoria.
A Bodini sarebbe bastato vivere anche un solo istante in via De Angelis per avere materia di poesia da impastare ogni giorno. Lì ha trovato il fermento di tutte le storie, il movente di tutte le passioni, l’incipit e l’explicit, la trama e l’intreccio, l’alfa e l’omega di tutti i racconti. Ha imparato a fare i conti con l’idea dell’assenza, con la lucidità della ragione e la vertigine dell’emozione, con l’ansia delle attese, con la felicità e il dolore, con la luce e con le tenebre di tutte le stagioni.
Forse lì è diventato il poeta dallo sguardo profondo che è stato, ha imparato a scavare nelle immagini, nelle figurazioni, fino a scoprirne l’essenza; è arrivato alla radice della luce, alla fonte delle voci, al fondo del buio.
Lì, in quell’origine, ha imparato a narrare e a narrarsi, ad allontanarsi e a ritornare, a lasciarsi sedurre dal richiamo degli affetti ed a rifiutarlo, ad immaginare Dio come lo immagina ogni altro uomo del Sud: uno storto ulivo, una perenne rovina.
Diceva: “vi sono anime fatte per domandare, ed altre per rispondere”.
La sua era un’anima fatta per domandare, a volte ragioni, significati, pietà, compagnie, direzioni; altre volte soltanto un silenzio, una pace, la consolazione di un respiro profondo a occhi chiusi di fronte all’infinito del mare.
Senza darsi tempo, senza darsi pace. Come con un delirio dentro, con una febbre addosso. Come se ogni giorno spalancasse un vuoto che doveva riempire ad ogni costo. Come se la memoria potesse esplodere all’improvviso, o minargli la mente l’afasia, come se un rapace potesse rapinargli la fantasia, le visioni, il sentimento, i suoni, la ragione. Come se la parola potesse all’improvviso ordire il tradimento malvagio di una fuga dalle stanze segrete del pensiero, o potesse ritrarsi, rifiutarsi di agire in una forma, farsi approssimazione subdola, espressione inessenziale, artificio senz’arte, latitanza di senso, vacuo pleonasmo, ridondante maniera.
Ha paura: che ogni poesia possa essere l’ultima, che le parole s’ammutinino.
Ha paura che ad un certo punto cominci “un insolito modo/ con le cose di guardarsi/ d’intendersi/ scavalcando le parole/ in una vile dolcezza”.
Ha paura che la parola non senta più il richiamo dell’esistenza, che questa non subisca più la seduzione stordente della parola. Delle parole non si fida. Sa che sono predisposte alla rivolta, che nascondono un’infedeltà connaturata. Sa che possono essere oro che riluce oppure moneta falsa, vuota risonanza, che a volte spalancano porte e a volte sbarrano cammini, negano destini, oscurano emozioni, alzano altari d’oro a falsi dei.
Allora scrive con un’ansia che lo stravolge, con l’ossessione che davvero ogni poesia possa essere l’ultima, che possa abbandonarlo senza preavviso, o che si svuoti di senso, si accartocci nel già detto, si recluda nel silenzio. Allora in ogni poesia vuole metterci tutto; in ogni parola, ogni sillaba, vuole metterci tutto: la rabbia, i presentimenti, il rancore, l’amore, le leggende, i ricordi, gli affanni , l’angoscia della morte, il capogiro della vita, tutte le storie possibili, le albe, i tramonti, le lune, gli amici, i discorsi, gli affanni di ogni giorno,i volti e le voci dei morti. Vuole metterci l’auto con la Olivetti e la bombola del gas, il suo bestiario, le sue cavalle, l’ alcool, le cravatte, la sua pena, il suo azzardo, l’intemperanza, il tormento, tutti i libri letti, i suoi vizi, il suo gioco, la bellezza, il basilico, i gerani, e quel cuore “che voleva abbaiare/ tutte le notti/ alla luna e alle pietre”. Tutto in ogni poesia, in modo definitivo, irripetibile, incomparabile. Una musica che non ha paragoni. Pennellate di colori mai visti.
La perfezione della forma non gli interessa.
Gli interessa l’immagine inedita, assoluta.
Gli interessa che in ogni poesia ci vada il caos dell’universo, l’imperfezione dell’umano.
Gli interessa potersi sentire parte di quel caos, riflesso di quell’imperfezione.
Vittorio Bodini scrive con una costante sensazione della fine che lo insidia, come se avesse accanto l’ombra di un io sdoppiato che gli scandisce gli istanti, e lo incita, lo sfida, gli intima di far presto, gli ricorda, vilmente, che deve stare attento. Perché potrebbe non esserci un’altra possibilità di poesia, una proroga del privilegio della parola, perché potrebbe rompersi l’incantesimo che compenetra il verso e il respiro, la sillaba e il suono.
L’ombra gli sussurra la minaccia insolente che il pappagallo “dalle penne oro e verdi e una mania/ di contraddire”, a un certo punto potrebbe ammutolirsi.
Così scrive in modo frenetico, quasi volesse consegnarsi senza condizioni, darsi alla poesia in sacrificio, per poter avere ancora un dono di parole, per poterne sentire ancora il tintinnio e il dolceamaro sapore.
Alla vita non chiede altro. Gli anni, le donne, i ricordi, il paesaggio, i racconti, hanno senso solo se si trasmutano in poesia, se riescono a farsi figure che gabbano il tempo, che leniscono, almeno un poco, la pena per la transitorietà meschina dell’ esistere.
Scrive “senza mangiare, senza indirizzo”, con in cuore un sasso nero “avvolto in stracci di parole”.
Scrive nella notte, per lasciarsi una poesia sul tavolo, come un biglietto di scuse diretto a se stesso, per domani. “Se mi desterò” , dice.
Ha “riserve di morte e di poesia”, Vittorio Bodini. Forse cose diverse, condizioni opposte. Forse ( probabilmente, inesorabilmente) la stessa cosa. Sono riserve che si porta in un bagaglio intimo, interiore. La morte e la poesia, confuse tra di loro, e poi confuse con la matassa della memoria, con i pro e i contro, con le contraddizioni, con le occasioni della vita, con tutte le sconfitte irrimediabili, le futili vittorie. Morte e poesia come limite, confine, esito ultimo, irreversibile, possibilità estrema. L’una e l’altra pensate sempre come evento indecifrabile, combinazione di mistero e di candore. L’una e l’altra che accadono indipendentemente dalla volontà, che sopraggiungono e non ammettono rifiuto. L’una e l’altra che si nutrono di assenza.
Vittorio Bodini interroga le assenze : a volte con pietà, a volte con disperazione, o con rabbia. E’ questa la sua struggente inchiesta, il suo accanito indagare, il tentativo smanioso di rivelare quale dolore sconquassi la vita delle creature, quale castigo divino sgretoli il paesaggio, chi sia “l’immondo insetto, così pieno di malinconia”, che cosa sarebbe accaduto, come sarebbe stato, come saremmo stati “se le cose fossero andare diversamente”.
La morte e la poesia si nutrono di assenze, e tutto precipita verso la morte, e tutto è cercato dalla poesia. Tutto, e prima di tutto se stessi: impastati di morte e di poesia. “Nella poesia l’inganno della morte”. Così dice.
Dice che “ è con la propria morte/ che bisogna abitare, / la propria morte accettare/ come la vuota ombra/ d’un cane bianco, ritagliato/ nella carta velina/ che parte e torna/ dai suoi viaggi nel nulla”.
Poi, ancora, dice – si dice, si domanda – : “come farò a sapere / dove sono , fino a che punto sono morto/ o vivo/ le cose da lasciare/ e quelle da prendere”.
Davvero è questa la struggente inchiesta “sulla verità dell’essere”, condotta con lo strumento di una poesia che si strazia scavando nell’umanità dolente. Una scorciatoia: un’abbreviazione, forse anche una sintesi essenziale, senza alternativa. Un modo per tentare di arrivare prima perché il tempo è poco, è sempre di meno.
Umberto Saba: “ Scorciatoie. Sono – dice il Dizionario – vie più brevi per andare da un luogo ad un altro. Sono, a volte, difficili; veri sentieri per capre. Possono dare la nostalgie delle strade lunghe, piane, diritte, provinciali”.
Tra prosa e poesia, quest’ultima rappresenta la scorciatoia. Scrive Bodini in una prosa ( Firenze) : “non ho mai avuto dubbi per la scelta, che era la poesia, nella cui parola ho sempre sentito la facoltà di rimuovere e trarre una luce definitiva, i sensi e i messaggi più insospettati, e una maniera più ellittica di conoscere la realtà, meglio adatta a una natura come la mia disordinata e impetuosa”.
Ecco. Una luce definitiva, quindi una lucida ragione, capace di dare una spiegazione agli impulsi e alle pulsioni. Il senso e il messaggio più insospettato, quindi la scoperta di una ulteriore significanza, nell’accezione che al temine attribuisce Roland Barthes di senso prodotto sensualmente .
Per Bodini la scorciatoia della poesia è un modo per saltare ogni passaggio intermedio tra la percezione e la conoscenza. Con la poesia brucia ogni premessa, ogni preambolo, qualsiasi digressione. Le parole prendono quella scorciatoia per arrivare ad una verità dell’essere che si mostra in tutto il suo enigma, in tutto il suo dramma, nella contorta ambiguità che richiama e frastorna o nella linearità dei fenomeni che fa spavento. La scorciatoia non consente indugi, distrazioni. Pretende un passo guardingo, una costante tensione. Allora ogni parola sprigiona energia. Ogni poesia è un processo di approssimazione, un procedere verso la comprensione di quella “verità dell’essere” che costituisce tanto una prospettiva conoscitiva quanto un’ urgenza esistenziale. Essere per capire. Capire per essere. Poi: scrivere chi si è ( stati), che cosa si è conosciuto, che cosa si vorrebbe conoscere. Penetrare la tenebra, dire lo sprofondo, il sublime, l’orrido, la colpa o l’innocenza.
Ma quella scorciatoia “non ci ha portati lontano, / no davvero”, dice.
Il punto a cui arriva la poesia, per Vittorio Bodini non rappresenta una delusione ma una irrimediabile tristezza. Capisce che non rivela verità. Forse chiarisce un poco l’opaco, a volte, interroga la coscienza; la parola dà forma a pensieri d’ogni sorta, consola o inquieta l’insonnia, esprime pietà o desiderio, slarga i confini della realtà, abolisce distanze, ma tutto accade nella natura di una finzione; può rinominare le cose ma non può ricrearle; è strumento per un inventario, per una prefigurazione, per un consuntivo o un programma, scatena emozioni e passioni, ma di questo non può trovare e spiegare i motivi. E’ un colpo di dadi, un azzardo, una epifania dell’incredibile, una diserzione continua, un istinto imprevedibile, una straordinaria, miracolosa intuizione, una fantastica ribellione, ombra dilatata delle creature e delle cose, ma non creatura, non cosa, non ragione che riesce a conferire struttura alla storia interiore.
Non porta lontano la scorciatoia della poesia. “Sì, qualche volta l’ebbrezza/ d’esser vicini a qualcosa/ ma in che rari momenti/ e a che prezzo/ d’insofferenze, di rotture/ d’ogni più delicata trama d’affetti”.
Allora la scorciatoia termina qui, dentro il vicolo cieco di questa quieta consapevolezza di precarietà, di finitezza.
A questo punto la sua poesia non ha più ansia. C’è quasi una rinuncia, una desistenza. Resta la memoria dell’ebbrezza, di un lampo di felicità per quel qualcosa – un sentimento, un’essenza – alla quale si è sentito vicino. Resta il rammarico per il prezzo che ha pagato, per la pena che ha sofferto, per quella trama d’affetti lacerata. Ha passato la vita a crescere parole, mentre non si accorgeva di tutto quello che accadeva intorno, che fioriva e che sfioriva. Probabilmente è questa la verità a cui porta la scorciatoia della poesia: la scoperta della cenere di un fuoco che non si è visto ardere.
Ora tutto diventa lontano, “i volti amati si sfrondano/ delle loro vicende,/ non restano che i nomi”.
Diventa lontana l’infanzia e il grido dei fanciulli, la sua città con le mura grigie grigie, le piccole figlie di puttana spidocchiate dalle madri in via De Angelis, è lontana Madrid e “lo stagno senza viole/ dove morì Pilar”, è lontana Ninetta, Isobel è lontana, Valentina è lontana; sono lontani i caffè, la smania di esistere, le calde forme del passato, e i brividi lucenti, e i cieli dell’avventura, le donne da leggere e i libri da accarezzare, la fidanzata fantasma che “ si pettinava i capelli sulla lunghezza d’onda d’un telefono in fiore”, il gettone del sole che tramonta, i profili delle nuvole, i carri lenti, il pianto di un bambino a Bari vecchia, le poesie scritte alla luna, tutto diventa infinitamente lontano, si raggruma nel terribile dolore della lontananza.
Certamente avrà pensato alle ultime parole del suo Don Chisciotte , quando Sancho Panza dice ad Alonso Quijano che la maggior pazzia che un uomo può fare in questa vita è di lasciarsi morire così, su due piedi, senza che nessuno l’uccida e non lo finisca altra mano che quella della malinconia.
Ma con un’amarezza e una malinconia che contagiano ogni espressione del creato, Bodini adesso dice: “odio financo il delicato verde dell’estate/ che attornia le mie finestre”.
Financo. Un avverbio che traduce la condizione dell’estremo, che spacca in due il guscio del concetto, e rivela il sentimento dell’odio, ad un tempo viscerale e razionale, verso tutto il resto, verso tutto l’universo. L’odio diventa ancora più greve e irrimediabile nel contrasto con l’espressione della delicatezza, che forse costituisce un conscio o inconscio rammarico. Per un’ associazione di sensibilità viene da pensare a quei versi della “Chanson de la plus haute tour” di Arthur Rimbaud che dicono : “Oisive jeunesse/ à tout asservie/ par délicatesse/ j’ai perdu ma vie”. (Oreste Macrì parla di questa délicatesse a proposito della “ Canzone semplice dell’esser se stessi”, e di quei versi : “ io fuggo da ogni cosa delicatamente ./ Provo a essere solo. Trovo/ la morte e la paura” ).
Alla fine scompare anche la paura. Rimane solo la condizione di una morte attesa , quasi come speranza amara, spossata. “Venga la mano di chi so e liberi/ dall’angoscia i miei risvegli”.
La sua stagione poetica tramonta così: con un linguaggio che confessa tutta la sua stanchezza, che vuole essere minimo e nitido, distante dall’immaginario favoloso, dalla fantasia sfrenata che costituisce l’inconfondibile identità della poesia di Bodini.
Ma di quali risvegli parla Vittorio Bodini. Forse dei reali risvegli dai suoi sonni ( dai suoi sogni) lividi, angosciosi.
Forse dei risvegli dal sogno entusiasmante e inquieto di una poesia con la quale voleva arrivare a verità che non ha mai raggiunto, perché sono irraggiungibili.
Forse – probabilmente – la parola risvegli contiene le stratificazioni semantiche di tutto questo. Perché Vittorio Bodini ha mischiato le carte della poesia e della vita, fino a non riuscire a distinguere più quali fossero quelle che si giocano con la vita, quali quelle da giocare con la poesia. Non ha saputo distinguere, Vittorio Bodini, la natura del sangue e quella dell’inchiostro, che cosa fosse un tramonto e cosa un verso che scriveva il tramonto, la differenza che c’è tra la luna che si guarda con stupore e lo stupore di abbracciarla con una sola parola.
Talvolta accade che non si riconoscano le differenze, che non si sappia distinguere.
Ai poeti veri talvolta accade.
Perché ai poeti veri a un certo punto accade di scoprirsi solo uomini che sentono freddo.