di Antonio Errico
Da uno strapiombo roccioso l’uomo guarda lontano. I capelli rossi agitati dal vento. Un soprabito verde scuro. Nella mano destra un bastone da passeggio. Il paesaggio che ha davanti galleggia nella nebbia.
Alle sue spalle c’è una luce chiara. Ma oltre alla luce alle sue spalle c’è solo la roccia dalla quale sta guardando il paesaggio.
Forse perché quello che ha dietro di sé è, ad un tempo, acquisito e perduto, per sempre.
Lo strapiombo sul quale si trova è il presente: un confine tra passato e futuro, un punto da cui ricominciare il cammino.
Quello che ha davanti è il futuro: che non si conosce, indistinto, confuso.
L’unico elemento che in quella natura è definito, riconoscibile, è la sua figura: imponente, decisa, sicura.
Il “Viandante sul mare di nebbia” di Caspar David Friedrich è un’opera del 1818. A volte i tempi si rassomigliano. Spesso si rassomigliano.
Forse siamo come lui: come il viandante di Friedrich.
Siamo come lui, forse: ciascuno per se stesso e tutti insieme, come umanità, civiltà, comunità terrestre.
Forse come lui abbiamo una memoria che rappresenta l’unica certezza; un presente roccioso da cui scrutiamo l’orizzonte per tentare di capire com’ è il paesaggio del futuro verso il quale ci si deve incamminare, indistinto perché ricoperto dalla nebbia dell’incertezza, dell’incognita, del mistero.