C’è una soglia da cui muove l’ affinità tra letteratura e antropologia: l’interrogazione dell’ altro. In questa interrogazione un mondo si dispiega, mostrando le relazioni tra i viventi, i loro legami, i loro rapporti con il linguaggio, la tradizione, il mito, l’invisibile, il sacro. In questa interrogazione è colui che interroga a subire spaesamenti, dislocazioni, decentramenti. Una linea unisce le riflessioni sull’altro condotte nella poesia, nella narrativa, nella etnografia: la consapevolezza che lo sguardo dell’altro può mettere in questione il sé. Lo sguardo dell’altro come principio di conoscenza. Ecco le Lettere persiane. Che ci fa un Persiano a Parigi? Lo sguardo del Persiano, perché privo di complicità con l’oggetto, è un’esplorazione credibile. Eppure anche in quello sguardo, straniato e puro allo stesso tempo, trema il riverbero della radice, dell’appartenenza, trema una non innocenza. Dietro le descrizioni parigine di Usbek c’è, in lontananza, il dramma di Roxane nell’harem. Letteratura e antropologia sono saperi affini perché non amano le certezze. Non amano il consistere, lo stare. Hanno in comune quella malattia che Baudelaire chiamava “orrore del domicilio”. Tutte le scritture di viaggio, scintillanti, nostalgiche, contagiate dall’esotico e dal magico, hanno sullo sfondo le considerazioni affidate da Baudelaire ai versi de Le Voyage , aperte dal verso Amer savoir celui qu’on tire du voyage! (E’ un sapere amaro quel che si trae dai viaggi!).
Il viaggio è anche il tentativo di addomesticare l’esotico: conoscere per dissipare l’incantamento. Comunque, anche nella terra del disincanto, l’altro –cioè il lontano, l’estraneo- fa irruzione nel pensiero del soggetto civilizzato. Smuove le sue categorie, i suoi modi di pensare. Già Montaigne: “Essi sono selvaggi come noi chiamiamo selvatici i frutti che la natura ha prodotto da sé nel suo naturale sviluppo” (Essais, libro I, capitolo XXXI). L’altro è percepito come altro dalla nostra civiltà, altro dalla nostra ratio : “Ognuno definisce barbarie quel che non appartiene alle proprie abitudini”, ricorda ancora Montaigne. Eppure, in questa percezione soggettiva e proiettiva, prende campo la descrizione, la scrittura dell’ etnos. Una scrittura che muove certo dal visibile ma nel suo movimento accoglie anche la costruzione fantastica. Un’etnografia immaginaria, utopica, romanzesca annuncia e accompagna un’etnografia per così dire scientifica, rovesciandone i paradigmi, mimandone il tono, gli stilemi. Rabelais e Swift, descrivendo popolazioni immaginarie, anticipano la descrizione delle popolazioni della Gran Garabagna che avrebbe fatto Henri Michaux o dei Gamuna che avrebbe fatto Gianni Celati (nel recentissimo Fata morgana). E un saggio etnografico è da considerare l’operetta leopardiana La scommessa di Prometeo. In questa storia di fantastiche etnografie Swift è colui che narrando di altre culture disgrega le paludate e ipocrite e conformiste certezze della cultura di provenienza. Descrivendo i caratteri delle fantastiche popolazioni di Brobdingnag, Laputa, Lilliput, Houyhnhnmland, Gulliver mostra con ironia l’enfasi e la boriosa ragionevolezza della civiltà occidentale.
Etnografie immaginarie come forme di distanziamento dalla nostra cultura. Di lì a poco la romantica critica della civiltà si svolgerà nell’arco teso tra due regioni del pensiero. Da una parte l’elaborazione di un mito, quello della natura vigorosa e intatta, irrimediabilmente perduta. Dall’altra l’analisi del processo di astrazione –“spiritualizzazione” la chiama Leopardi- che in civiltà scorpora i sensi, “uniforma gli uomini e perseguita le singolarità” (è ancora Leopardi). Contro questa disumanizzazione del singolo, contro una civiltà che coniuga artificio e barbarie, sogno di magnifiche sorti e violenza, prende forma e figura quella geografia del primitivo che disegna una sorta di anteriorità: il primitivo è il non contaminato dalla civiltà, dalla sua ragione, dai suoi legami. A proposito dei Californi, Leopardi dice, e sembra che commenti Montaigne: “sono selvaggi e non sono barbari, cioè non fanno nulla contro natura (almeno per costume), né verso se stessi, né verso i lor simili, né verso checchessia” (Zibaldone, ottobre 1823). Ma via via che il primitivo entra nel pensiero occidentale come seduttiva sponda edenica, come primigenio stato di natura, l’ esplorazione delle sue forme residue e sopravviventi si trasforma in scrittura, diventa cioè narrazione, rappresentazione. E libera, per così dire, il mito dalla sua argentea lontananza, dalla sua trasognata alterità. La scrittura accoglie, ospita, forse qualche volta custodisce e salva dall’oblio. Un’altra geografia prende forma: la Polinesia di Melville e di Gauguin, l’Oriente di Flaubert, l’Africa di Conrad annunciano le tante narrazioni novecentesche che rappresentano la lontananza. Una geografia, una mappa mundi affidata alla parola. Un tentativo di resistere, attraverso le peregrinazioni dirette e il racconto, alle oleografiche seduzioni dell’Oriente, dell’Africa, della Patagonia, ai miraggi dei deserti, alle fascinazioni delle savane, delle giungle, delle tundre. Difficile individuare, in tutte queste scritture, la linea dove finisce l’intreccio con le forme di colonizzazione e dove comincia l’autonoma e sovversiva dislocazione nella terra, e nello sguardo, dell’altro. Difficoltà che persiste anche laddove il colonialismo si sfalda, lasciando lingue, saperi, conflitti. E tuttavia la tensione etnografica della letteratura e la tensione narrativa dell’etnografia portano, nel loro incrocio, insieme alla caduta dell’incantamento intorno al primitivo, al selvaggio, all’intatto, la consapevolezza della necessità di una relazione tra le culture che abbia nel linguaggio, nella sua implicita dialogicità e inventività e corporeità, il centro irradiante. Che interpreti i miti o il totemismo o lo scambio dei doni o le strutture della parentela, la nuova antropologia ha il linguaggio come sostanza della ricerca. E non è infrequente che l’attraversamento interrogativo del linguaggio porti l’antropologo sulle sponde di una scrittura dove lo stile della ricerca coincide con lo stile della prosa, il metodo sia esso stesso narrazione. Tristi tropici di Lévy Strauss e La terra del rimorso di De Martino sono due libri che appartengono di diritto alla storia della scrittura narrativa. Senza dire della immensa rete di fonti, che, venendo dalla ricerca antropologica, trascorre nella scrittura narrativa e nella poesia e diventa loro anima e loro ritmo: The waste land di Eliot è tra gli esempi più noti. Così la critica letteraria si alimenterà dell’indagine antropologica: da Frazer a Northrop Frey il viaggio non è lungo.
Passaggi, incroci, imprestiti, corrispondenze: letteratura e antropologia hanno tra loro storie comuni, dialoghi, innesti. Sommovimenti di campo, sommovimenti nel campo. Il poeta peruviano Arguedas che ritrova la lingua andina della nutrice, dopo essersi dislocato dalla ricerca antropologica verso la scrittura. Leiris che, da etnologo e narratore, darà all’ impressione di viaggio il massimo di responsabilità per così dire oggettiva. Michaux, che racconterà sempre viaggi per così dire mancati, e con le sue descrizioni di popolazioni immaginarie traccerà una parodia della scrittura etnografica, dei suoi modi. Aimé Césaire che, con Sénghor, farà del “ritorno alla terra” non un mito ma un principio di relazione tra le culture, tra le loro identità, i loro timbri, le loro storie. Mentre, da Franz Fanon in poi queste storie –storie di corpi viventi, di degradazione, di subalternità sofferta- leveranno la loro voce, esigendo riconoscimento e presenza laddove c’era stata negazione e dominio.
Studi postcoloniali e studi culturali cercheranno via via le loro fonti nel pensiero che -da Gramsci a Foucault- ha definito la cultura non come un sapere astratto, ma come un sapere incarnato in gesti, lingue, corpi, desideri, sovversioni, sogni.
Per altro verso, negli ultimi anni, l’etnografia ha esposto sempre più la sua relazione con la scrittura. “Che cosa fa l’etnografo? Scrive”, è l’assioma semplice e tuttavia trasgressivo di Clifford Geertz. Una coincidenza, dunque, di scopi, di pratiche, tra letteratura e antropologia? No, un cammino comune, una corrispondenza. Alla fine, per l’etnografo, come per lo scrittore, quel che conta non è il luogo dove si fa esperienza, ma l’esperienza dell’altro, dello sguardo dell’altro, trasformata in saggezza, e questa in scrittura. Quel che conta è il “segreto”, dunque l’indicibile, l’indescrivibile, appreso in terre lontane, tra genti lontane. Come accade all’etnografo del racconto eponimo di Borges (una prosa compresa ne L’Elogio dell’ombra). Costui, alla fine, dopo la lunga esperienza tra gli indiani, rientrato in città, dice che forse non tornerà più nella prateria: “Ciò che mi hanno insegnato i suoi uomini –egli dice- vale per qualunque luogo e per qualunque circostanza”.