di Antonio Errico
Maestri non si nasce; a un certo punto si diventa. Ma poi di esserlo non si smette mai. Per la semplice ragione che non si intende mai rinunciare a una relazione di prossimità, di reciprocità, di appartenenza. Perché forse insegnare significa questo: essere vicino a qualcuno, essere con qualcuno: appartenergli, sentirlo appartenente. Significa condividere le poche certezze, le molte incertezze. Farsi molte domande, cercare insieme risposte; poi rifarsi le domande, cercare altre risposte. Poi consegnare le tante domande e le poche risposte ad un altro, perché il cercare continui. All’infinito.
Nel suo ultimo libro che s’intitola Lezioni di volo e di atterraggio, Roberto Vecchioni scrive che i segreti, quelli veri, sono tutti in una fortezza da cui ogni tanto escono messaggeri a cavallo che sono scampoli di un mistero chiuso là dentro. “Strappargli qualche parola, uno stralcio d’indizio, questo è il nostro bisogno, il nostro dovere, il nostro imperativo esistenziale”.
A un certo punto, Roberto Vecchioni è diventato maestro, e da quel punto in poi non ha smesso mai di esserlo. Ha insegnato nei licei per quasi quarant’anni; ha tenuto corsi nelle università. Ha insegnato con le sue canzoni, con i suoi libri. “ Lezioni di volo e di atterraggio”. Certo, di atterraggio. Perché bisogna imparare e insegnare a volare, ma bisogna anche e forse soprattutto imparare e insegnare ad atterrare. Forse è più difficile imparare ad atterrare che imparare a volare e quindi insegnare a fare l’una e l’altra cosa. Bisogna imparare a ritornare con i piedi sulla terra dopo aver arato le nuvole, e forse anche a dimenticare di esserci stato sulle nuvole. Bisogna imparare ed insegnare l’andirivieni fra la concretezza e l’immaginazione, fra le storie vere che ci coinvolgono ogni giorno e quelle fantastiche che ci portano lontano.