di Antonio Errico
Il 21 maggio del 2005, David Foster Wallace cominciò il suo discorso ai laureandi del Kenyon college, raccontando la storiella di due pesci.
Disse: ci sono due giovani pesci che nuotano e a un certo punto incontrano un pesce anziano che va nella direzione opposta, fa un cenno di saluto e dice: “Salve, ragazzi. Com’è l’acqua?”. I due pesci giovani nuotano ancora un poco, poi uno guarda l’altro e fa: “Che cavolo è l’acqua?”.
Il succo della storiella dei due pesci, dice Wallace, è semplicemente che le realtà più ovvie, onnipresenti e importanti, sono spesso le più difficili da capire e da discutere.
Probabilmente è vero.
Ogni giorno, ogni ora, forse anche in ogni istante, facciamo i conti con alcune fondamentali realtà ma non sempre si riesce a capire per quali motivi i conti a volte tornano e a volte no.
Allora ci si dice che la realtà è quella. Basta. Come i due giovani pesci di cui raccontava David Foster Wallace, non sappiamo dire cos’è l’acqua: ci siamo dentro. E’ la realtà che ci avvolge con tutte le sue forme, nella quale ci coinvolgiamo, senza farci molte domande, senza congetturare sulle differenze. Anche quando rivolgiamo ad essa critiche, anche quando ci opponiamo, lo facciamo in quanto sentiamo che ci appartiene, intensamente. Qualche volta accade anche che la critica e l’opposizione siano determinate dalla nostalgia per quello che è stato, per il modo in cui siamo stati in un tempo precedente. Ma poi ci rendiamo conto che anche prima avevamo nostalgia di un altro prima. Forse è anche normale che sia così, per ogni persona, per ogni generazione.