Guido Cavalcanti. Perch’i’ no spero di tornar giammai

di Antonio Prete

Ritratto di Guido Cavalcanti (Firenze, 1258 – Firenze 1300), olio su tavola di Cristofano dell’Altissimo (1525-1605), 69×44 cm., Firenze, Galleria Degli Uffizi.

È il verso che apre una delle più note ballate di Guido Cavalcanti, verso ripreso e rimodulato da Eliot ad apertura di Mercoledì delle ceneri.

Amante degli studi e della speculazione filosofica, guelfo bianco attivo nell’agone politico fiorentino, Cavalcanti è figura rilevantissima nella cerchia dei poeti che condivisero, in amicizia, quello che uno di loro, Dante Alighieri, definì “dolce stile”: una lingua della poesia che insieme era teoresi d’amore e figurazione fantastica del desiderio. Una lingua che nel verso congiungeva meditazione e canto, pensiero e ritmo, sapere e melodia : un meraviglioso “legame musaico” – per usare l’espressione del Convivio dantesco – che sarebbe stato un modello per il costituirsi di una tradizione lirica italiana, da Petrarca a Leopardi. Il rapporto profondo – di scambio intellettuale, e di dissenso teorico – che Cavalcanti ebbe con Dante appartiene alla storia animatissima delle dottrine d’amore come si disegnarono sul finire del Duecento, tra presenza teologica d’impianto tomistico, fisica dei sensi e razionalismo averroista. Le Rime di Cavalcanti sono, in questa grande scena, l’esperienza singolare e strenua di tensioni diverse che danno alla forma della canzone o della ballata o del sonetto leggerezza e insieme asperità, unendo speculazione dottrinaria ed esplorazione del desiderio, delle sue ferite, del suo corporeo irrimediabile affanno. Un’esplorazione che si fa percezione amara del dolore, della solitudine, della lontananza. Mentre il movimento del verso, con le sue melodiose sonorità, raccoglie dell’esperienza amorosa il sentimento di una dolcezza che è in dialogo con la douçor della poesia provenzale e permarrà come costante nel discorso amoroso della successiva poesia italiana.

Ma ecco l’avvio della ballata:

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