di Antonio Errico
Nelle ultime sei righe de “L’Artefice”, Jorge Luis Borges dice di un uomo che si propone il compito di disegnare il mondo. “Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, d’isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto”.
Si appartiene, dunque. Sempre. Comunque. Inevitabilmente si appartiene: a qualcosa, a qualcuno. Si appartiene a una terra, alla gente di quella terra, alla sua Storia, alle sue storie, al suo passato, al suo presente. Si appartiene alla memoria di quella terra: ai simboli, ai valori, ai linguaggi, ai paesaggi, alle tristezze, alle euforie, alle felicità e ai dolori di quella terra. Si appartiene al suo futuro anche. Forse soprattutto al suo futuro. Si appartiene alle sue realtà e alle sue fantasie, alle passioni, alle ragioni, ai sentimenti, forse anche alle leggende, ai miti, ai riti. Spesso si appartiene consapevolmente. Qualche volta può accadere che l’appartenenza si esprima in maniera inconsapevole. Comunque si appartiene. Per esempio. Chiunque abiti il Salento, consapevolmente o inconsapevolmente appartiene ai misteri delle grotte di Badisco, alla desolazione dei ruderi dell’abbazia di Càsole, alle tessere colorate con le quali mille e più anni fa il monaco Pantaleone ha costruito il suo mosaico favoloso, ai fantasmi inventati che nottetempo ritornano nelle torri di scolta a strapiombo sul mare, a quegli altri fantasmi imprigionati nella pietra delle facciate di sontuose cattedrali barocche. Chiunque abiti il Salento appartiene all’universo poetico generato da Vittorio Bodini, Vittorio Pagano, Girolamo Comi, Antonio Verri, Salvatore Toma, Nicola De Donno, Vittore Fiore. Appartiene alla narrazione tessuta da Fernando Manno, Giovanni Bernardini, Luigi Corvaglia, Maria Corti, Rina Durante, Aldo De Iaco. Qualche altro.