Le traduzioni poetiche di Vittorio Pagano

di Antonio Prete

Le traduzioni poetiche di Vittorio Pagano, per il ventaglio delle forme ritmiche, delle cadenze, delle sonorità messe in campo, e per la ricchezza della tela metaforica e immaginosa che restituiscono e reinventano, sono da considerare come un episodio alto dell’ospitalità che la nostra lingua ha dato alla poesia francese, alle sue esperienze vertiginose e supreme, ancora oggi in dialogo con le nostre ragioni, con il nostro fantasticare e cercare.

La vicenda avventurosa della confluenza di queste traduzioni nel volume accolto da Girolamo Comi nelle edizioni dell’Albero, anno 1957, è ricostruita puntualmente, con ricchezza di particolari, nel lavoro critico di Simone Giorgino. Qui, sulla soglia, vorrei invece sostare – in compagnia del lettore che si accinge a entrare in questo tumulto di vite e di versi – su quegli aspetti del lavoro poetico-traduttivo di Pagano che sottraggono, per così dire, la fatica del tradurre all’epoca in cui è stata compiuta, gli anni Cinquanta del Novecento, e la consegnano a noi, oggi, con i segni di una vitalità e contemporaneità che ci fa sentire prossimi quei poeti simbolisti, abitanti della nostra stessa lingua, turbati e commossi ed esaltati e acquietati dallo stesso nostro sentire. Perché tradurre è ospitare l’altro nella tenda della propria lingua, ma allo stesso tempo è permettere che l’altro, pur sottratto alla propria lingua  e ricondotto in una nuova lingua, continui a vivere nel suo timbro proprio, nella sua invenzione, nella sua intima riconoscibilità. Togliere a un poeta quel che lui ha di più proprio, cioè la sua lingua, e nel contempo preservarlo, pur facendolo abitare un’altra lingua, nella sua identità, ed energia, e pronuncia, e accento, è un azzardo possibile solo se chi traduce – e questo è il caso di Pagano – è a sua volta un poeta, e traduce da poeta, cioè facendo dell’esercizio del tradurre un’azione poetica. Che vuol dire mettere in campo tutti gli attrezzi e tutte le illuminazioni e tutti gli ardimenti della propria officina di poeta. Per questo il giovane Leopardi, nel Proemio della sua traduzione del secondo libro dell’ Eneide, si rivolge al lettore dicendo : “Messomi all’impresa, so ben dirti avere io conosciuto per prova che senza esser poeta non si può tradurre un vero poeta…”. Come il poeta, nel comporre, mette in atto un vero e proprio affrontamento della propria lingua – Baudelaire, descrivendo il lavoro del poeta nella sua stanza, parla di “fantasque escrime”, fantastica scherma con le parole, con i loro suoni –  così il traduttore combatte con le resistenze dell’altra lingua : verso per verso, immagine per immagine, metafora per metafora. Ma lungo la vicenda di questo affrontamento, il poeta che si sta traducendo, da estraneo, diventa via via familiare, da lontano si fa prossimo e contemporaneo.  Certo, immagini, figure, idee stesse, sottratte al loro suono, al loro ritmo, rischiano di svanire, o perlomeno di sbiadire. Insomma, se la poesia è, come Dante già nel Convivio sottolineò, “per legame musaico armonizzata”, cioè vive dell’ unità strettissima di senso e suono, il traduttore, dislocando e trasmutando il dire poetico in altri suoni, rompe quell’unità, la fa deflagrare, dissipando la sostanza del poetico. E allora la sua impresa sta tutta nel saper compensare questa perdita, questa rottura del suono-senso, e ricomporre quella frantumata unità nel tessuto della propria lingua. In modo che chi legge nella nuova lingua possa sentire quel poeta come lo sentivano, o lo sentono, quelli che erano, o sono, della sua stessa lingua (anche su questo “tale…quale” inteso come caratteristica propria del tradurre ha riflettuto Leopardi, che, pur non avendo mai tracciato le linee di una teoria della traduzione, ha disseminato nello Zibaldone e nei proemi e nelle note alle sue traduzioni molte folgoranti considerazioni in merito alla pratica del tradurre).

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