di Antonio Errico
Più indietro di così, non poteva andare. Più dentro, più in fondo di così. Più che arrivare all’origine, al suo corpo, alla sua ombra, alla sua fantasima, alla sua dolcezza, alla sua paura, Carmen Gasparotto non poteva. Più che mettere l’angoscia e la bellezza sopra il foglio, più che sprofondare dentro gli antri di memoria, più che compiere il miracolo del veni foras, della resurrezione dei morti, Carmen Gasparotto non poteva.
Non è un confronto con l’origine, il suo racconto. E’ un corpo a corpo, un duello sull’argine franante del ricordo.
La sua scrittura squarcia il tempo, spalanca e disarticola ogni spazio, poi ricompone il tempo, ricostituisce la dimensione dello spazio.
La sua scrittura è un vortice, una vertigine; è angoscia e sapienza; è delirio e pacatezza; è sensazione e passione, emozione. Lancinante. E’ memoria: eppure vorrebbe essere oblio. E’ sentimento: eppure vorrebbe essere ragione: nuda ragione. La memoria come grumo ribollente di senso. Come motivo, come movente, come ossessione. ( Ma non si può scrivere senza un’ossessione). Ma poi, in qualche istante, in qualche riga, è anche dolcezza: infinita, sublime. Entusiasmante.
Ecco, sì, la dolcezza della memoria. Dolceamara, acre, saporosa.
La crudele dolcezza della memoria.