di Guglielmo Forges Davanzati
Il Presidente di Condindustria, Carlo Bonomi, si è recentemente espresso a favore di misure di ulteriore ‘flessbilità del lavoro’, argomentando che – attribuendo all’impresa maggiore discrezionalità in ordine alle decisioni di assunzione e licenziamento – tali misure avrebbero un impatto positivo sull’occcupazione. La posizione di Bonomi è estrema e non tiene conto di alcuni dati di fatto. Innanzitutto, l’Italia è, fra i Paesi OCSE, quello che ha proceduto con la massima intensità a deregolamentare il mercato del lavoro e il contratto di lavoro. Non si sono registrati, come conseguenza, significativi aumenti dell’occupazione e autorevoli fonti ufficiali hanno da anni decretato che l’occupazione non si crea mediante ‘riforme’ del mercato del lavoro. In secondo luogo, Bonomi non tiene conto del fatto che la crisi italiana del 2020 è essenzialmente una crisi da caduta della domanda interna e che la precarizzazione del lavoro – associandosi a basso potere contrattuale dei lavoratori – comprime i salari e i consumi. Anche per questa ragione queste misure sono sconsigliabili.
La misura standard per catturare il grado di flessibilità del lavoro è l’employment protection legislation, che in Italia ha assunto valori costantemente decrescenti nell’ultimo decennio assestandosi a punteggi inferiori alla media OCSE: in altri termini, il nostro mercato del lavoro è già ampiamente flessibile. Ulteriori riduzioni dell’EPL avrebbero almeno due effetti macroeconomici di segno negativo: