di Antonio Errico
Per anni uno pensa che “Sillabari” di Goffredo Parise sia il capolavoro del racconto breve italiano, del frammento narrativo che azzarda lo sconfinamento nei territori della poesia. Invece, all’improvviso, scopre che non è così. Lo scopre incontrando un libro che non conosceva, di Dino Buzzati, intitolato “In quel preciso momento”. Il libro di Parise resta un capolavoro, certamente. Quello di Buzzati lo è di più, anche se probabilmente non lo si può nemmeno definire capolavoro. Forse si potrebbe definire un abisso. Una montagna dall’altezza che non si può misurare. Un libro terribile come una fiaba. Crudele. Dolcissimo. Superbo. Umile. Vertiginoso. Inquietante. Che non si può e non si deve leggere se non si è disposti a misurarsi con l’assurdo, a cambiare la propria idea del mondo, della vita, di se stessi. Un libro spietato, forse paragonabile soltanto al “Libro dell’inquietudine” di Fernando Pessoa. Una sfida all’indicibile. Un corpo a corpo fino all’ultimo respiro fra la parola e le cose, e i sentimenti, e le emozioni, le intimità dei pensieri, le ragioni. Luoghi che si trasformano, si deformano nel tempo di un istante della notte e poi tornano com’erano, come per una magia. Creature che si fanno personaggi allucinati e poi ritornano creature, come per il miracolo di un Dio.
In certe pagine, in certi passi, viene da pensare che la scelta del racconto breve costituisca una rappresentazione dell’esistenza e della Storia, che si compongono di frammenti realizzando un mosaico unitario i cui significati diventano – o sembra che diventino- decifrabili e interpretabili, e poi ritornano ad essere frammenti indecifrabili, che si sottraggono ad ogni possibilità di interpretazione. Metafore dell’enigma.
In certe pagine, in certi passi, viene da pensare che la narrazione per frammenti sia una rappresentazione della frammentarietà del Novecento e della precarietà di coloro che quel secolo hanno abitato. Si pensa questo, per esempio, quando si ha l’impressione che nel racconto non ci sia un finale, e invece il finale c’è ma è nascosto in una sospensione, oppure in un implicito, oppure in una ambiguità semantica irrisolvibile. Ecco. Forse è stato proprio così il Novecento: senza un finale riconoscibile, un implicito complicato, un tempo dai significati oscillanti, ambigui, contrastanti.