di Rosario Coluccia
Nei mesi scorsi, funestati dalla pandemia, la rete si è rivelata infrastruttura regina, ha consentito di attenuare le conseguenze dell’isolamento a cui siamo stati costretti. Abbiamo capito che, senza muoversi fisicamente, è possibile avere contatti con banche e uffici, consultare il dottore e ricevere prescrizioni mediche, non interrompere la pubblicazione dei quotidiani e dei settimanali, lavorare a distanza e tenere in piedi la macchina produttiva e amministrativa della nazione, fare mille cose diverse senza prendere auto e bus, risparmiando tempo, inquinando meno, con un un miglior bilanciamento tra qualità della vita e impegni. Una sfida mai vista di concepire in forme nuove il lavoro, la produttività e il rendimento. Alcune statistiche dicono che nel periodo del confinamento (non “lockdown”, per favore!) il 45% delle aziende ha consentito ai propri dipendenti di lavorare da casa. E anche adesso che con gradualità tutto riapre, in molti campi si continua a lavorare da casa, non per necessità né per obbligo, spesso con ottimi risultati. Telegiornali e giornali per definire questo modo nuovo di lavorare ricorrono a “smart working”, che alla lettera significa ‘lavoro intelligente’, ma i media britannici e americani usano “working from home” (“lavoro da casa”) da cui l’acronimo “WfH”. Noi potremmo dire “lavoro agile”, per indicare che si può lavorare con una certa comodità anche fuori dall’orario d’ufficio, magari in piena notte (ovviamente in forme regolamentate e legate ai risultati, non è un invito alla fannullaggine). O magari potremmo parlare di “lavoro a distanza”, o “lavoro da casa”, o “telelavoro”, che richiama espressioni analoghe in altre lingue: “télétravail” nel francese, “teletrabajo” nello spagnolo, “teletrabalho” nel portoghese. È inutile ricorrere allo pseudoanglicismo, l’italiano è più trasparente, tutti capiscono.