Ci ritroviamo ancora una volta insieme a celebrare la “Giornata del Ricordo”, istituita dal Parlamento italiano nel marzo 2004 per commemorare, a distanza di sessant’anni, le drammatiche vicende del confine orientale dell’Italia, vicende che costituiscono una delle pagine più dimenticate e più buie della nostra storia recente.
Il Capo dello Stato Giorgio Napolitano, celebrando qualche anno fa questa “Giornata” al Quirinale, ha voluto mettere in evidenza “la tragedia collettiva del popolo della Venezia Giulia e della Dalmazia: migliaia di famiglie perseguitate ed estromesse dalle loro case, migliaia di italiani giustiziati, gettati nelle foibe carsiche, vittime di un disegno annessionistico della Jugoslavia di Tito, un moto di odio e di una furia sanguinaria che assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica”, ed ha aggiunto: “Dobbiamo rompere un silenzio durato troppo a lungo…Non dobbiamo tacere, dobbiamo assumerci la responsabilità di aver negato o teso a ignorare la verità per pregiudiziali ideologiche e cecità politica, e di averla rimossa per calcoli diplomatici e convenienze internazionali”.
Queste forti e chiare parole del Capo dello Stato ci invitano a riflettere: in effetti ancora oggi, dopo tanti anni, persiste una scarsa conoscenza dei fatti avvenuti nella Venezia Giulia e nella Dalmazia alla fine della seconda guerra mondiale, negli anni dal 1943 al 1947: Ancora pochi mesi fa mi è capitato di sentirmi dire da un amico, peraltro persona colta e con tanto di laurea, al quale avevo detto di essere nata a Fiume, “Ma allora tu non sei italiana!”. E tuttora, ogni volta che devo rinnovare un documento, devo lottare con l’impiegato addetto perché non scriva tra le generalità “nata in Jugoslavia” o “nata in uno stato estero”, ignorando che Fiume è una città italiana che solo dopo il trattato di pace tra Italia e Jugoslavia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947, è stata ceduta alla Jugoslavia.
Perciò oggi io vorrei condividere con voi i miei ricordi di quegli anni, i ricordi di una ragazza diciottenne, nata e vissuta a Fiume con la sua famiglia fino al 1946. Una vita normale (la scuola, lo studio alle scuole elementari e poi al ginnasio-liceo, le amicizie giovanili, la prossima maturità classica…), in una famiglia come tante (la mamma maestra, il papà impiegato statale), una vita complicata negli ultimi anni di guerra da varie difficoltà (i viveri scarseggiavano ed erano tutti razionati, i bombardamenti della città erano quasi quotidiani, negli ultimi mesi del ’43; nelle case mancavano il riscaldamento, il gas e spesso anche la luce elettrica). Tuttavia avevamo superato la fase più drammatica: nel 1945 la guerra era finalmente finita e tutti guardavamo all’avvenire con maggiore fiducia. Le truppe tedesche, che avevano occupato militarmente la città dopo l’8 settembre 1943, se ne stavano andando, dopo aver tentato (per fortuna senza riuscirvi) di far saltare in aria il porto e la stazione ferroviaria. Purtroppo i tempi peggiori, per noi, dovevano ancora venire!
La mattina del 3 maggio 1945 fummo svegliati da strani rumori e grida nella via; mi affacciai alla finestra e vidi un lungo corteo di persone che portavano berretti militari con la stella rossa, vestiti con divise molto approssimative e piuttosto lacere, armati di fucili, pistole e mitra; erano allegri, cantavano e sembrava che festeggiassero qualcosa. Non erano italiani, e neppure americani o inglesi, come quelli che avevano liberato (lo sentivamo alla radio) le principali città italiane. C’erano, in quel corteo, molte bandiere, dei tricolori bianchi, rossi e blu con una grande stella rossa: ancora non lo sapevamo, ma quelle bandiere avrebbero presto sostituito il nostro tricolore a Fiume e in tutta l’Istria e la Dalmazia. Nessuno si aspettava tutto ciò: le autorità italiane e gli stessi alleati anglo-americani furono colti di sorpresa e non fecero in tempo ad arrivare neppure a Trieste, che fu anch’essa occupata dai partigiani del maresciallo Tito.
Ben presto venimmo a sapere che, in quella stessa notte e nei primissimi giorni dopo l’occupazione, erano stati uccisi nelle loro case tutti i componenti del Comitato di Liberazione Fiumano; il senatore Riccardo Gigante fu arrestato r di lui non si seppe più nulla fino a due anni fa, quando fu scoperta la sua sepoltura a pochi chilometri da Fiume, in una fossa comune; scomparve nel nulla anche suo fratello Silvino, preside del liceo classico “Dante Alighieri” (il mio liceo), un uomo mite e dedito agli studi, finissimo traduttore di opere letterarie dall’ungherese, conosciuto ed apprezzato in Italia e all’estero; di lui professori ed alunni andavano molto fieri. Venne arrestato e poi fucilato anche un altro senatore fiumano, Icilio Bacci, e fu assassinato, insieme alla moglie, l’ex podestà Carlo Colussi, molto stimato dai cittadini; l’antifascista AngeloAdam, uno dei pochi ebrei fiumani sopravvissuto a Dachau e rientrato da poco tempo in città, venne arrestato con la moglie e la figlia, e di tutti e tre si persero definitivamente le tracce. Nei giorni e nei mesi successivi ci furono italiani di ogni ceto sociale (operai, artigiani, impiegati, professionisti) che, senza alcun processo, venivano arrestati e sparivano nel nulla. Durante i mesi di maggio e giugno 1945 furono arrestati e deportati per destinazione ignota almeno 78 membri della locale Questura, 50 della Finanza e 10 dei Carabinieri; nel periodo che va dal 3 maggio 1945 al dicembre 1947 il totale delle vittime accertate, per quanto riguarda Fiume e dintorni, ammonta a 647 persone; di molte non si sono più avute notizie, di altre si sono trovati i miseri resti nelle foibe della zona carsica.
Gli stessi tragici fatti avvenivano nei medesimi anni a Trieste (dove l’occupazione titina durò solo quaranta giorni, ma causò decine e decine di morti), a Gorizia, a Pola e in tutta l’Istria, a Zara e nella Dalmazia.
Nelle foibe, quegli inghiottitoi naturali tipici dei terreni carsici, che si perdono per chilometri nel sottosuolo, venivano gettati i corpi degli uccisi, e, molto spesso, persone ancora vive.
Padre Flaminio Rocchi, nato a Neresine sull’isola di Lussino nel golfo del Quarnaro, fu tra i primi ad avere il coraggio di parlare delle foibe e di far deporre finalmente una pietra e un modesto cippo sulle foibe di Bassovizza e di Monrupino, le uniche rimaste in territorio italiano. Ecco come questo frate.rievoca in un suo scritto la tragedia delle foibe:
“…Vengono rastrellate singole persone, famiglie, gruppi. alla fine saranno dodicimila. Sono contadini vissuti tra le viti e gli ulivi, pescatori curvi sulle reti lungo la costa istriana, minatori del villaggio dell’Arsa, preti col vecchio breviario latino in mano, padroni che vestono a festa, farmacisti e medici che hanno il potere della salute, bidelli che spazzano le aule e innalzano la bandiera, impiegati che riempiono il formulario italiano, barbieri che ospitano le chiacchiere in bottega; proprietari denunciati dai mezzadri, maestri che dipendono da Roma, donne semplici, quelle del focolare e del bucato, bambini colpevoli solo perché hanno lo stesso sangue, giovani italiane che cantano le canzoni di Venezia e di Napoli, carabinieri, poliziotti del sud comandati a difendere la gente e le case, qualche soldato sbandato e spaurito…Sono legati due a due per le braccia, per i piedi, oppure a catena di cinque, di dieci…Si avviano vivi verso la propria tomba…”.
Quei poveri morti hanno pagato gli errori e le prepotenze compiute nei riguardi delle minoranze slave passate sotto la sovranità del regno d’Italia dopo la guerra del 1915-18.
Nella Venezia Giulia, soggetta attraverso i secoli alle più diverse dominazioni (dalla repubblica di Venezia all’impero austro-ungarico ed infine all’Italia) non c’era una netta separazione tra gli abitanti di lingua italiana e quelli di lingua croata o slovena. In genere le città, come Gorizia, Fiume, Trieste, Pola, avevano una popolazione nella grandissima maggioranza italiana. Trieste e Fiume, in particolare, erano città multietniche: soprattutto durante la dominazione absburgica austriaci, ungheresi, croati si riversarono numerosi nelle due città, attratti dalle loro floride condizioni economiche. Tutte queste diverse nazionalità impararono a coabitare pacificamente, integrandosi fra loro senza particolari difficoltà, pur cercando di mantenere intatte le loro caratteristiche. I fiumani, per esempio, sono stati sempre orgogliosi della loro italianità e l’hanno gelosamente custodita anche durante la dominazione austro-ungarica, sotto la quale Fiume godette di uno statuto particolare. Grazie al decreto dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria del 1779, la città fu dichiarata Corpo Autonomo della Corona d’Ungheria: separatum coronae adnexum corpus. In virtù di tale decreto Fiume aveva il diritto di usare la lingua italiana negli atti pubblici, di eleggere rappresentanti italiani al parlamento ungherese, nonché podestà e giunta municipale italiani, e di avere scuole italiane, accanto a quelle ungheresi e croate. Molti fiumani parlavano, oltre all’italiano, anche l’ungherese, il croato e il tedesco.
Nell’Istria, invece, erano abitate da italiani le cittadine costiere (Capodistria, Cittanova, Pirano, Parenzo, Rovigno, Albona), tutte città portuali fondate dalla repubblica veneziana, mentre nelle zone più interne, meno sviluppate economicamente, gli abitanti erano in maggioranza croati o sloveni.
L’impero austro-ungarico ebbe il merito di saper usare, in questi territori, una politica di giusto equilibrio, che riuscì a creare una certa armonia nei rapporti tra le varie popolazioni.
Non fu così durante l’amministrazione italiana, soprattutto dopo l’avvento del fascismo: Mussolini considerava gli slavi appartenenti a razze del tutto inferiori e non rispettò assolutamente i diritti delle minoranze. Fu subito imposto l’uso della sola lingua italiana e vi erano pene severe per coloro che usavano in pubblico la lingua croata o quella slovena.. Tutti i bambini dovevano frequentare le scuole italiane e le altre scuole furono abolite; era proibita la diffusione e la vendita di libri e riviste slave; addirittura i cognomi slavi furono italianizzati d’ufficio “per restituire alla forma italiana i cognomi che si supponeva fossero stati abusivamente alterati durante la dominazione straniera”, come prescriveva il R.D. 10 gennaio 1926; ai genitori era proibito imporre nomi di battesimo slavi ai neonati, “per non porli in una posizione spiacevole, equivoca e pregiudizievole” (sentenza della Corte d’Appello di Trieste del 15 dicembre 1925: un padre avrebbe voluto chiamare il proprio figlio Gorazd, ma gli fu imposto di chiamarlo Gerardo). Nelle chiese, durante le funzioni e nelle prediche, i sacerdoti non potevano usare la lingua croata e ciò, specie in Istria dove i contadini conoscevano poco l’italiano, creava non poche difficoltà: l’arcivescovo di Gorizia, lo sloveno mons. Francesco Borgia Sedej, e dopo di lui il vescovo di Trieste mons. Luigi Fogar, negli anni ’30, tentarono di sostenere i diritti dei loro fedeli slavi, ma furono costretti a lasciare le loro diocesi. Sulle persecuzioni subite dagli sloveni a Trieste e dintorni, unicamente per aver cercato di difendere la lingua e la cultura slovena, scrive con molta efficacia e realismo lo scrittore triestino di lingua slovena Boris Pahor nelle sue opere Necropolis e Qui è proibito parlare, tradotte solo da pochi anni in italiano.
La situazione si aggravò ulteriormente nella primavera del 1941,quando le truppe italiane invasero la Croazia, costituendo il Regno indipendente di Croazia, con le nuove province di Lubiana e della Dalmazia. Naturalmente la prima conseguenza dell’aggressione militare fu la nascita di un forte movimento partigiano jugoslavo, capeggiato dal maresciallo Tito, e la relativa durissima repressione da parte dell’esercito italiano: tra il 1941 e il 1943 furono fucilati centinaia di ostaggi, incendiate migliaia di case, interi villaggi; furono deportate in campi di concentramento 30.000 persone, molte delle quali, soprattutto donne e bambini, morirono di stenti e di malattie (solo nel campo dell’isola di Arbe, in Dalmazia, morirono più di 4.500 persone). Il vescovo di Trieste mons. Antonio Santin levò la sua voce per chiedere la sospensione delle rappresaglie, ma non fu ascoltato. La popolazione slava subiva, ma sottosotto cresceva l’odio verso gli italiani.
Nessuno dei veri responsabili ha pagato per questi massacri, come non hanno pagato gli uccisori delle foibe, e questo è stato un errore molto grave da ambedue le parti, sia italiana che jugoslava. Si alimentarono così nei superstiti l’odio e il desiderio di vendetta, che esplosero, anche in maniera irrazionale, alla fine della guerra.
Le difficoltà, nelle terre istriane, si presentarono subito dopo l’occupazione titina del maggio ’45, occupazione che si estendeva fino a Trieste. Gli alleati anglo-americani non volevano che il confine con la Jugoslavia comunista arrivasse così vicino all’Europa. Dopo varie trattative, durate dal 1945 al 1947, si giunse ad un accordo: la penisola istriana fu divisa in due parti, separate dalla cosiddetta Linea Morgan, la zona A e la zona B. La prima, sotto l’amministrazione militare alleata, comprendeva Trieste, una parte di Gorizia, una fascia confinaria fino a Tarvisio e la città di Pola; la seconda, con Fiume, l’Istria e le isole del Quarnaro, fu affidata all’amministrazione jugoslava. Successivamente questa divisione divenne definitiva e fu sancita dal trattato di pace del 10 febbraio 1947, che attribuì alla Jugoslavia anche Pola.
Mentre i Grandi discutevano fra loro e, sulla carta, tracciavano linee e confini più o meno definitivi, nessuno si preoccupava della gente che entro quei confini aveva la sua casa, la sua famiglia, il suo lavoro: non gli alleati, per i quali la questione era del tutto formale; non il governo italiano che, avendo perso la guerra, aveva poca voce in capitolo; ancora meno il governo jugoslavo, che mirava soltanto ad accaparrarsi ampie fette di territorio
Più il tempo passava, e più era chiaro che gli abitanti di Fiume, di Pola e dell’Istria, di Gorizia e di Zara avrebbero pagato (loro e solo loro) il prezzo della guerra e della sconfitta.. E questo pochi italiani lo sanno e lo ricordano.
Nei territori occupati dalla Jugoslavia la vita diventava sempre più difficile: i viveri erano sempre più scarsi e fioriva la borsa nera; era stata imposta una moneta d’occupazione che poteva circolare solo nei territori occupati; molto attiva era l’OZNA, la polizia politica comunista, che poteva arrestare e decidere, senza alcun processo, chi era “nemico del popolo” e quindi da eliminare, e chi no.
La situazione si fece ancora più critica nel 1948, quando agli abitanti dei territori ceduti alla Jugoslavia fu imposta “l’opzione”, cioè la scelta tra la cittadinanza italiana e quella jugoslava; ma chi optava per la cittadinanza italiana poteva anche essere espulso dal suo paese. Infatti nell’art. 19 del Trattato di Parigi era scritto: “lo stato al quale il territorio è ceduto potrà esigere che coloro che si avvalgono dell’opzione si trasferiscano in Italia entro un anno dalla data in cui l’opzione venne esercitata”.
Si presentava dunque inevitabile la necessità di dover lasciare le nostre terre; sia pure con la morte nel cuore a poco a poco gli italiani cominciarono a prepararsi alla partenza. Abbandonare le nostre case, i luoghi dove eravamo nati e cresciuti, gli amici di una vita, le piccole cose quotidiane cui eravamo legati da sempre, le tombe dei nostri morti…Non fu facile, eppure non si poteva fare altro. 350.000 italiani lasciarono la Venezia Giulia e la Dalmazia, senza voltarsi indietro e senza sapere a cosa andavano incontro, verso un’Italia che attraversava ancora i momenti difficili del dopoguerra.
Fiume era una città di 60.000 abitanti: almeno 55.000 persone lasciarono la città, a volte portandosi dietro solo “i propri indumenti personali fino ad un massimo di 50 kg, nonché l’importo di lire 20.000”, come prescriveva la legge.
Partì il Vescovo mons. Ugo Camozzo, portando nascosta sulla sua persona la bandiera italiana del vescovado e un frammento di pietra del Tempio Votivo di Cosala; partirono i seminaristi e i sacerdoti, alcuni dopo aver scontato anni di carcere (come il mio parroco ultrasettantenne, il salesiano don Gerolamo De Martin, condannato a tre anni di carcere e poi espulso); abbandonarono il loro bianco convento sulla collina le suore di clausura benedettine; se ne andarono anche le suore del Sacro Cuore e le suore francescane del Pio Ricovero “Branchetta” per anziani; partirono pure le suore vincenziane dell’Ospedale, che erano state costrette a deporre il loro abito religioso. Partirono gli operai dei Cantieri Navali, quelli del Siluruficio e delle altre industrie; liberi professionisti e lavoratori dipendenti, commercianti, artigiani; partirono lasciando tutto quello che avevano realizzato nella vita, andando incontro, loro e i loro figli, ad un avvenire del tutto incerto. Partirono con tutti i mezzi di trasporto a loro disposizione, per terra e per mare: treni, carri merci, camion, autobus, navi (come la gloriosa motonave “Toscana”, che per un mese fece la spola tra Pola, Venezia ed Ancona per evacuare i 30.000 italiani di Pola), perfino con grossi barconi , come il peschereccio partito da Orsera con un carico di istriani che raggiunse addirittura la Sardigna.
Lasciarono la Venezia Giulia e la Dalmazia 350.000 persone. Ad accogliere tutti questi esuli erano stati allestiti in Italia 109 campi profughi, per lo più situati in edifici fatiscenti, lontani dalle città: vecchie caserme in disuso, depositi abbandonati, ex campi di concentramento fascisti, perfino ex manicomi. In queste strutture, dove i profughi dovettero rimanere anche per dieci, quindici anni, bisognava arrangiarsi come si poteva per creare degli ambienti abitabili e ricavarsi almeno un minimo di privacy; con coperte, lenzuola, cartoni i grandi cameroni furono divisi in spazi più piccoli, nei quali dovettero adattarsi intere famiglie. Tutti erano costretti a vivere sotto gli occhi di tutti, in condizioni igieniche assolutamente disastrose.
Furono anni assai difficili: per gente abituata a vivere comodamente, in città moderne, ben ordinate ed organizzate (a Fiume le abitazioni erano dotate di acqua corrente, fognatura ed illuminazione a gas già alla fine dell’800) era mortificante doversi adattare in ambienti così squallidi.
A tutto questo si aggiungeva la difficoltà di trovare lavoro, per cui molti degli esuli dovettero sottomettersi ad una seconda, sofferta, umiliante emigrazione, soprattutto verso gli Stati Uniti, il Canada e perfino l’Australia e la Nuova Zelanda (l’Italia e l’Europa erano ancora troppo provate dalla guerra per poter offrire lavoro). Lì dovettero accettare i lavori più umili e faticosi, come il taglio degli alberi e il trasporto dei tronchi nelle foreste canadesi o la costruzione delle linee ferroviarie nei posti più sperduti dell’Australia. Ma si adattarono a tutto pur di riuscire a ricostruirsi una vita, mettendo a frutto la tradizionale tenacia, l’esperienza e la dedizione al lavoro caratteristiche delle loro terre d’origine. Ovunque si sono formate, in Italia e all’estero, comunità di giuliano-dalmati ben inseriti nella società locale, che tutt’oggi si distinguono nei più vari campi della cultura e della scienza, del lavoro e dello sport.
Ma gli anni difficili, le sofferenze passate hanno lasciato il loro segno. Ognuno di noi esuli sente un vuoto nel suo cuore, un vuoto che non potrà mai colmare. Ci mancano le nostre belle città, ci mancano i luoghi dove siamo nati e dove volevamo morire, dove sappiamo di non poter mai più tornare. Perché i luoghi che abbiamo abbandonato, che ci hanno costretti ad abbandonare, non esistono più, non hanno più neppure lo stesso nome, la stessa lingua, la stessa fisionomia. Fiume e l’Istria sono ormai terre della memoria, esse vivono solo nel nostro ricordo e solo noi le vediamo come erano e come sarebbero potute diventare.
Spero che queste mie parole abbiano contribuito a farvi conoscere tante vicende che meritano di essere riscoperte e soprattutto di vivere nella nostra memoria.
“La memoria – afferma lo scrittore triestino Claudio Magris – è carità e giustizia per le vittime del male e del dolore…essa significa andare alla ricerca dei deboli calpestati e cancellati, di quella pietra rifiutata dai costruttori di cui il Signore, come sta scritto, farà la pietra angolare della sua casa, ma che giace sepolta sotto le rovine e i rifiuti e va ritrovata e custodita con amore e rispetto”.
[ne “Il Galatino”, a. XLIII, n. 4 del 26 febbraio 2010]