di Antonio Prete
Gli scritti e gli interventi di Gianni Scalia su Pier Paolo Pasolini, qui raccolti, raccontano gli interni di un dialogo, nelle cui parole si rifrangono sia le vicissitudini dell’epoca apertasi dopo il fascismo – e che di quel fascismo ha protratto talvolta forme e maschere – sia le pieghe di un’amicizia che riflette gli assilli e le sfide di una generazione intellettuale. Una generazione che si trovò a dover riscontrare i limiti della fiducia concessa alle ideologie, anche a quelle protestatarie e sovversive, e seppe cogliere gli inganni delle pulsioni puramente oppositive, si appoggiassero queste a forme di politico “engagement” o a fervide utopie. Una generazione mossa dal vento tempestoso e benefico del confronto di idee – proseguendo in questo l’avventura delle riviste avviata con gli inizi del Novecento – ma anche animata dalla volontà di interrogare con rigore e passione il proprio tempo, le mutazioni in atto, gli annunci e i presagi di svolte, le forme che il potere, le sue istituzioni e le sue fantasmagorie, via via assumevano.
L’amicizia di Scalia con Pasolini in parte partecipava dei legami che univano i soggetti di quella piccola comunità intellettuale che fu nel cuore degli anni Cinquanta la rivista “Officina”, in parte aveva una sua propria storia, fatta di dialoghi personali e corrispondenze. Le pagine di questo libro testimoniano il fuoco e insieme l’affezione di una prossimità che, dopo l’assassinio del poeta, si trasforma in difesa accesissima e limpida dei modi e del linguaggio e delle posizioni con cui Pasolini aveva attraversato il suo tempo, portando lo scandalo, la necessità dello scandalo, nel cuore della rassegnazione, con un furore quieto e non violento. Quell’impeto, che aveva qualcosa di sacro, nella dissacrazione, di religioso, nella più pura laicità, continua a interpellarci. Perché quel tempo è ancora il nostro tempo.