di Francesco D’Andria
Mentre la sciagura del virus cinese devasta le nostre comunità e svuota le cento città d’Italia, un dramma silenzioso è vissuto, nell’indifferenza generale e senza alcun risalto mediatico, da una speciale categoria di professionisti. Sono persone che si sono formate nelle nostre Università, nelle Facoltà di Beni culturali e nelle Scuole di specializzazione in Archeologia e che operano, nell’ambito dell’Archeologia Preventiva, all’interno dei cantieri pubblici legati alle grandi opere di trasformazione del territorio ed alla creazione delle reti di sottoservizi, assunti dalle società appaltatrici dei lavori come Italgas, Acea, Tim. Di concerto con gli uffici delle Soprintendenza, svolgono un impegnativo lavoro di “sorveglianza archeologica”, per identificare e così permettere di tutelare i reperti che le attività di scavo portano alla luce. Un’opera di grande rilievo culturale che ha permesso di salvare dalla distruzione una infinita quantità di testimonianze della nostra storia: basti citare per tutte le scoperte nel sottosuolo di Roma avvenute nel corso dello scavo della Metropolitana e, per restare in Puglia, lo scavo delle tombe messapiche a Manduria, alcune decorate da raffinati motivi dipinti in rosso.
Questi professionisti rappresentano una percentuale consistente del numero di archeologi attivi oggi in Italia: si calcola che essi siano circa 5000, così distribuiti: 400 circa nel Ministero Beni Culturali (MIBACT), 371 nelle Università, ed 86 negli Istituti del Consiglio Nazionale delle Ricerche. I liberi professionisti sono perciò la maggioranza, superando di parecchio le 4000 persone, (in Puglia si contano alcune centinaia) con una netta prevalenza femminile e sono organizzati in associazioni come ANA (Associazione Nazionale Archeologi), Archeoimprese ed altre, impegnate a difendere condizioni di lavoro caratterizzate dal precariato e dalla scarsità di garanzie retributive nei rapporti con la committenza, lavorando essi a Partita IVA o su contratti di breve durata.
Sono solo gli effetti -alla prova di un passaggio storico altamente critico- di un guaio che abbiamo combinato una quindicina di anni fa, quando si è diffusa la contagiosa diabolica idea di convincere i giovani che il loro ruolo fosse quello di diventare “professionisti” e di indurli ad inseguire i pifferi magici della cosiddetta “Archeologia preventiva” nei particolari termini in cui fu scritta nella Legge 109/2005.
Non è che ci fosse il nulla prima di allora: c’era già almeno dalla fine degli anni Settanta un sistema privato di archeologia “in appalto” che vedeva in Italia Archeologi con tutti i crismi della formazione accademica impegnati attivamente nel mondo del lavoro anche privato, un sistema che in uscita dalle Università e sotto la guida delle Soprintendenze funzionava niente male, ma che richiedeva di essere normato.
Per normarlo avevamo due possibi modelli alternativi ai quali ispirarci: quello inglese delle vecchie Units e poi delle ditte commerciali operanti sotto controllo di un ufficio pubblico o quello francese di prevalente (anche se per la verità non proprio esclusiva) statalizzazione dell’operatività archeologica. Entrambi nei rispettivi Paesi hanno funzionato ad avrebbero avuto buone probabilità di funzionare anche da noi, in quanto entrambi ispirati a criteri di organizzazione entro strutture stabili e plurali, nelle quali le esperienze e le competenze personali -oltre alle capacità economiche- convergono.
In Italia abbiamo invece in un arco di tempo fino al culmine della Legge 110/2014 scelto e pervicacemente perseguito il sistema della professionalizzazione forzata nel suo significato deteriore: quello dell’isolamento degli individui e del non riconoscimento di alcun valore nelle forme di aggregazione stabile, economicamente sostenibile, con capacità esecutive di cantiere e non meramente consulenziali.
Così abbiamo in massima parte spezzato le gambe -o comunque penosmente dato un taglio anche quanto a capacità di nuove assunzioni con contratti di lavoro regolari- a ditte, cooperative o società di capitali, che già c’erano, distruggendone l’esperienza di una generazione.
E adesso piangiamo.
Ma nessuno che abbia il coraggio di additare quale sia stato l’errore.
Già molto, e di questo sono grato, che emergano voci di coscienza critica rispetto alla riforma del 2016 del sistema delle Soprintendenze, che anche in questo caso ha nella dispersione delle risorse umane il suo aspetto più preoccupante.
Un altro aspetto di quella riforma mi sentirei di additare come pernicioso ma forse ancora rimediabile, un aspetto che ha avuto ricadute evidenti nella gestione dell’emergenza COVID-19: a differenza forse di altri Beni Culturali, quelli archeologici -soprattutto per quella grande e quotidiana parte dell’esercizio della tutela che si riferisce a beni che non sono ancora esattamente noti o addirittura per niente noti prima di essere sottoposti ad un procedimento- richiedono necessariamente un livello decisionale che sia di pari grado con quello delle principali norme di gestione del territorio, vale a dire un livello decisionale regionale.
Aver tolto il livello decisionale regionale alla tutela archeologica -contemporaneamente disperdendone le risorse- è a mio avviso l’altro guaio dopo alla innaturale professionalizzaione individualistica del “mestiere di Archeologo” che ci ha portati al punto in cui siamo.