Salento: non si vive di solo turismo…

di Guglielmo Forges Davanzati

La disoccupazione a Lecce, come accade nel resto d’Italia, è essenzialmente disoccupazione giovanile, coinvolgendo la fascia d’età compresa fra i 15 e i 24 anni. Su fonte Centro per l’impiego, si registra che il tasso di disoccupazione giovanile nella provincia di Lecce si assesta intorno al 55%, ed è in costante aumento. Nella città di Lecce esso risulta pari al 43%, a fronte del 29.6% del 2011. Il tasso di inattività, che riguarda soprattutto la componente femminile della forza-lavoro, si aggira intorno al 44%, ed è anch’esso in continuo aumento. Si tratta, con ogni evidenza, di uno scenario estremamente preoccupante, soprattutto se combinato con gli elevati flussi migratori, che coinvolgono prevalentemente soprattutto individui con elevato livello di istruzione. L’occupazione è sempre più precaria: in un anno, dal 2014 al 2015, il numero di voucher erogati è passato da 1.5 milioni a 5 milioni.

I processi di deindustrializzazione (e di delocalizzazione) degli ultimi anni hanno contribuito a un significativo cambiamento della struttura produttiva e della specializzazione produttiva del Salento, con conseguenti effetti sulla dinamica del mercato del lavoro locale. L’economia della provincia di Lecce è ora un’economia nella quale è sempre più rilevante l’incidenza dei servizi e l’incidenza del turismo. La struttura produttiva accentua, in negativo, le sue caratteristiche storiche: piccole dimensioni aziendali, sostanziale assenza di innovazioni, bassa propensione alle esportazioni, gestione spesso familiare delle imprese. Per quanto sembra di capire, la scommessa degli amministratori locali è puntare su un modello di crescita trainato dal turismo: il Comune di Lecce, in particolare, nel corso degli ultimi anni, ha incrementato i finanziamenti destinati a quel settore (oltre che al mantenimento dell’ordine pubblico) e ridotto le risorse destinate alle politiche giovanili. Si tratta di una scommessa estremamente rischiosa, per le seguenti ragioni.

  1. Come ampiamente documentato su basi empiriche, i flussi turistici, dopo una prima fase di espansione, tendono ad arrestarsi in tempi molto brevi. Ciò soprattutto a ragione dell’impatto antropico sul territorio e dei danni ambientali che conseguono. In altri termini, all’aumentare delle presenze turistiche l’attrattività del territorio tende a deteriorarsi e, con essa, la qualità dell’offerta turistica.
  2. La gestione delle imprese turistiche nel Salento non risponde, salvo rare eccezioni, a criteri di efficienza e professionalità. Si tratta, molto spesso, di attività imprenditoriali avviate da individui che non hanno competenze adeguate per la loro gestione (si pensi alle competenze linguistiche).
  3. Il turismo è tipicamente il settore nel quale è più diffusa l’esistenza di lavoro nero e disoccupazione nascosta. Quest’ultimo è un fenomeno per il quale lavoratori formalmente occupati erogano una produttività nulla: il caso delle imprese familiari è emblematico in tal senso. Si assume un familiare perché è tale, indipendentemente dal suo contributo alla produzione e quindi all’effettiva necessità dell’impresa di averlo come dipendente.

Una svolta, in tal senso, sembra necessaria: il solo turismo non può essere, né lo è mai stato, il solo fattore trainante la crescita economica. Come certificato nell’ultimo Rapporto della Camera di Commercio, i bassi tassi di crescita registrati negli ultimi anni, al netto della crisi, dall’economia della provincia di Lecce, così come i bassi tassi di occupazione e l’elevato tasso di precarietà del lavoro sono in larga misura correlati alla crescente incidenza del settore dei servizi e alla deindustrializzazione del territorio. A ben vedere, non è una circostanza sorprendente. Le economie che sperimentano i più alti tassi di crescita – e la maggiore occupazione – sono (e sono state) le economie nelle quali è (o è stato) rilevante l’incidenza del settore manifatturiero. Ciò a ragione del fatto che le imprese (soprattutto di grandi dimensioni) che operano nel settore manifatturiero sono, di norma, le imprese più innovative, nelle quali i salari sono maggiori e migliori sono le condizioni di lavoro. Occorrerebbe – se si vuole cambiare marcia – cominciare a riflettere sull’opportunità di incentivare il ‘salto dimensionale’ delle nostre imprese. E si potrebbero immaginare, in questa prospettiva, due percorsi, che rinviano a politiche macroeconomiche con effetti di medio-lungo termine.

  1. a) Un accordo per la creazione di distretti produttivi, che agevoli l’agglomerazione di imprese e che, per questa via, incida sul tessuto produttivo locale favorendo percorsi virtuosi di crescita dimensionale e di maggiore propensione a innovare. L’aumento dei salari, connesso all’aumento delle dimensioni aziendali, contribuirebbe a mantenere elevata la domanda interna.
  2. b) Una maggiore valorizzazione del rapporto amministrazione comunale – Università, a partire dalla registrazione del curiosum leccese dove l’Università è stata, negli ultimi anni, sostanzialmente ignorata dall’amministrazione comunale. Un rapporto che è stato definito da “separati in casa” e che, così come si è sedimentato, nuoce sia all’Università sia soprattutto all’economia locale. Disporre di una Università ben quotata nei ranking internazionali, e con una rilevante quota di studenti sul totale dei residenti, in una città di piccole dimensioni è una circostanza abbastanza rara in Italia. Una sede universitaria in una città di piccole dimensioni genera una duplice esternalità: crea un indotto (si pensi agli affitti degli studenti o alle attività convegnistiche); produce ricerca. Evidentemente, se, come spesso accade, la ricerca è acquisita da imprese non locali, si tratta, per il territorio, di uno spreco. La ricerca effettuata in loco e qui acquisita può, per contro, divenire un fattore rilevante di crescita economica, dal momento che vi è da attendersi flussi di innovazioni e, quindi, aumento dell’occupazione e aumento della domanda di lavoro qualificato.

In questa prospettiva, l’aumento dell’occupazione – in particolare giovanile – viene fatto dipendere da un meccanismo virtuoso di crescita della domanda interna (con effetti verosimili di breve periodo) e di aumento dei flussi di innovazione, entrambi gli effetti derivanti dalla crescita delle dimensioni medie d’impresa nell’area considerata. Ciò nella convinzione che all’ottavo anno di recessione non sembra una buona idea affidarsi alla spontaneità dei meccanismi di mercato e, segnatamente, non appare ragionevole attendersi ulteriori incrementi (o non decrementi) dei flussi turistici. E’ ben noto che il boom turistico potrebbe terminare o ridimensionarsi significativamente e, se non altro per questo, occorrerebbe cominciare ad attrezzarsi per attivare politiche economiche di segno diverso.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 16 aprile 2017]

 

 

 

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