di Francesco D’Andria
Ormai anche la casa dei miei è stata venduta e le occasioni di tornare a Taranto sono drasticamente diminuite. Ma le processioni dei Misteri rappresentano ogni anno un richiamo al quale non è possibile resistere: sapere che in quelle ore del Venerdì Santo tanti concittadini sono in pellegrinaggio per le vie della mia città, molti a piedi scalzi, o reggendo le stanghe dei simulacri, mi impedisce di dormire e di restare a letto. Infine, verso le tre e mezza del sabato, mi alzo e in macchina, da Lecce, raggiungo la mia città addormentata, sino alle strade che, dal Lungomare, tagliano via Anfiteatro. Lo squillo lontano delle trombe nella notte mi dice che la processione è uscita da S. Francesco e si distende lungo la strada. E’ l’ora più bella: non c’è troppa folla, i gruppi più esuberanti dei giovani, ormai sfiniti, sono andati a dormire e, lungo il percorso, è possibile cogliere momenti di intenso raccoglimento e di commozione, visibili nei volti dei presenti, in particolare delle donne di Taranto, di quelle più anziane, in cui si leggono storie di durezze e di dolori indicibili. E poi il lento miracolo dell’alba che fa cambiare luci e colori, allo stesso ritmo delle bande: è vero che bisogna assolutamente seguire quelli che suonano dietro la Sindone, come mi suggeriva mio padre; ma a me sembra che tutte esprimano al meglio le melodie che ritorno a sentire in quest’alba del Sabato Santo.
“Allegre, allegre” ci diceva mia madre, quando, con mio fratello, ci attardavamo nel vestirci o nel terminare i compiti: una espressione tipica del nostro dialetto, per dire di fare in fretta e, osservando i “perdoni” nel lento procedere della nazzicata, pensavo che la lentezza di questo passo era l’esatto contrario dell’espressione di mia madre. Questa lentezza era un modo geniale di rappresentare la tristezza di questo giorno, in cui tutti i movimenti dovevano spezzare i ritmi delle normali abitudini quotidiane. E l’unico modo di trovare uno spazio alla riflessione.