di Antonio Prete
Il tempo scuro di quel che accade. Tempo inatteso, e impetuoso nella sua violenza. Che è quotidiana scansione del male: vite troncate nella solitudine, sofferenze che si allargano, un crescendo che rimbomba, e che nel numero sembra cancellare la possibilità della compassione per il singolo, e per i molti. Tempo che recide quell’altro tempo, recentissimo, nel quale la strada era di tutti, e nelle sale dei cinema o nei concerti sedevamo accanto a ignoti, e ci abbracciavamo negli incontri e negli addii, negli arrivi e nelle partenze. Una tenebra, intorno, che più dilaga più mostra impietosa la primavera che sta per scoppiare senza la nostra prossimità, seguendo, com’è naturale, il suo ritmo, il suo tempo. Che non è questo nostro tempo scuro, ormai in scarto amaro nei confronti della stagione, estraneo al fiorire.
Sta con noi, questo nuovo scuro tempo, sta dentro di noi. Il tragico non permette distrazioni, o fughe.
Leggere questo tempo vuol dire raccogliere antichi richiami. Quello, per esempio, che invitava a stare al mondo considerando l’orizzonte della finitudine: il limite come ritmo del vivere, e dell’agire proprio e comune. O che considerava la natura nelle sue leggi, nella sua necessità, di cui l’uomo non è che un momento, una forma di vita che le appartiene. Leggere questo tempo vuol dire riprendere interrogazioni che per tutta la nostra epoca hanno attraversato il sapere, e le coscienze, senza diventare grande scelta politica, e neppure costume. Si possono compendiare, queste domande, in una sola: come abitare in sapienza e armonia la terra, accordando il respiro della nostra specie con il suo respiro? Formulazione astratta, certo, ma questa domanda ha la sua ragione in una lunga storia di dominio: l’asservimento dell’ordine naturale, del bios, alle leggi, e alle logiche, della produzione. Alla voluttà del consumo.