Memorie dell’esodo istriano (Parte prima)

di Maria Marinari Moro

Oggi vogliamo celebrare insieme la « Giornata del ricordo », che è stata istituita dal Parlamento italiano nel marzo del 2004, per ricordare, magari con un po’ di ritardo, a tutti gli italiani che il 10 febbraio 1947 fu firmato il trattato di pace tra Italia e Jugoslavia. Con questo trattato venivano assegnati definitivamente alla Jugoslavia i territori italiani di Fiume, Pola, Zara e le isole del Quarnaro. Ciò ebbe come conseguenza che centinaia di migliaia di italiani colà residenti abbandonassero le loro terre d’origine, le loro case, i loro beni, tutte le speranze di una vita costruita con fatica e sacrifici, e divenissero esuli nell’Italia e nel mondo. Si calcola che a partire siano state tra le 250.000 e le 300.000 persone, che preferirono l’incertezza di un futuro in un’Italia appena uscita dalla guerra, ferita dai bombardamenti, quasi priva di risorse, alla convivenza con un popolo che si dimostrò, fin dai primi momenti dell’occupazione, ostile agli italiani e per nulla propenso a rispettare i loro diritti.

Io sono nata a Fiume e ho vissuto personalmente, insieme con la mia famiglia, quel triste periodo. Attraverso le mie parole spero di farvi capire il dramma di tante famiglie come la mia, famiglie comuni, dalla vita assolutamente normale, costrette dalle vicende della guerra ad allontanarsi per sempre dalla loro città.

La mia storia comincia nel maggio del 1945: avevo compiuto da poco i diciotto anni, frequentavo la terza classe del Liceo Classico e mi preparavo a sostenere gli esami di maturità. La nostra scuola, come tanti altri edifici della città, era rimasta semidistrutta dagli innumerevoli bombardamenti che si erano abbattuti su di essa negli anni della guerra. Nelle poche aule rimaste in piedi si dovevano alternare tutte le classi, per cui le lezioni erano limitate a una decina di giorni al mese. Anche il numero dei frequentanti si era molto ridotto, perché le leggi razziali fasciste, fin dal 1941, avevano espulso dalle scuole pubbliche sia gli alunni che i professori ebrei (e a Fiume c’erano parecchie famiglie ebree); inoltre i maschi erano obbligati a frequentare dei corsi paramilitari in attesa di un eventuale richiamo alle armi ed alcuni erano già arruolati nell’esercito. Così la mia terza liceo era formata solo da una decina di ragazze. Nonostante le difficoltà di quei particolari momenti noi cercavamo di tenerci unite, di studiare insieme, anche se spesso non era facile trovare la necessaria tranquillità; per di più ci mancavano i libri di testo e dovevamo passarceli dall’una all’altra (allora non esistevano le fotocopie!)

Molte altre cose ci mancavano: le scarpe, i vestiti (ricordo un cappotto di mia madre che, rivoltato, passò a me e l’anno dopo fu di nuovo rivoltato). Ci mancava il riscaldamento, ma soprattutto avevamo fame, perché tutti i viveri erano razionati, a cominciare dal pane: 100 grammi al giorno di un pane nero, pesante, fatto di un miscuglio di chissà quali farine. Eppure lo facevamo sparire in quattro bocconi!

La città di Fiume non aveva un retroterra che le desse la possibilità di vivere autonomamente: c’era solo l’area cittadina, circondata dagli alti reticolati che costituivano, insieme con il fiume Eneo, il confine con la Jugoslavia; e davanti il mare. Non c’era campagna, non c’erano terreni coltivabili, tutte le provviste dovevano venire attraverso la ferrovia che ci collegava con Trieste (continuamente interrotta dai bombardamenti) oppure dal mare. In tempo di pace la verdura, la frutta, le patate ci venivano anche dai porti della Puglia con grossi barconi; pochi prodotti di uso quotidiano erano forniti dai paesini croati d’oltre confine (latte, formaggi, ricotta), ma ormai anche queste provviste scarseggiavano.

Il periodo della guerra aveva comportato molti sacrifici, ma ormai si capiva che la guerra volgeva al suo termine; i tedeschi, che avevano occupato militarmente la città dopo l’8 settembre 1943, si preparavano ad andarsene, dopo aver minato il porto e la stazione ferroviaria. Infatti, nella notte tra il 2 e il 3 maggio 1945 le truppe partigiane jugoslave del maresciallo Tito entrarono nella città e se ne impadronirono, cogliendo di sorpresa le autorità italiane e gli stessi tedeschi.

Immediatamente, la notte stessa del 2 maggio, cominciarono le rappresaglie: agendo secondo un piano accuratamente preparato, i partigiani titini uccisero molti fra i più noti personaggi della città. Alcuni, come il senatore Riccardo Gigante, ex podestà di Fiume, avevano ricoperto cariche durante il regime fascista, ma suo fratello Silvino, che fu arrestato con lui, era il preside del nostro Liceo Classico ed era un uomo mite e dedito allo studio, conosciuto, in Italia e all’estero, come finissimo traduttore di opere letterarie dall’ungherese. Tutti e due furono prelevati dalle loro case, portati sulle colline vicine a Fiume ed uccisi, i loro corpi non furono mai ritrovati. Altre persone uccise quella notte erano conosciute per il loro antifascismo, come gli esponenti del Movimento Autonomista fiumano (sostenevano che Fiume doveva restare “città autonoma” sotto l’Italia ed avevano largo seguito in città). Furono eliminati anche membri del Comitato di Liberazione Nazionale, che avevano collaborato coi partigiani, ma non approvavano l’annessione di Fiume alla Jugoslavia. Fra l’altro, scomparve la cassa dell’Ospedale civico e il Direttore del nosocomio venne ucciso. Anche nei giorni e nei mesi successivi ci furono persone di ogni ceto sociale (operai, artigiani, impiegati, professionisti) che venivano arrestate e sparivano nel nulla.

E la stessa cosa successe a Trieste (dove l’occupazione durò solo un mese, ma causò decine di morti), a Gorizia, nell’Istria.

Cominciava così il triste periodo delle “foibe”, quegli inghiottitoi naturali tipici dei terreni carsici che si perdevano per chilometri nel sottosuolo. Nelle foibe venivano gettati i corpi degli uccisi, a volte anche persone ancora in vita, persone che si erano macchiate di gravi colpe, ma spesso anche uomini e donne uccisi senza un perché, per invidia, per odio, per vendicarsi di ingiustizie subite in altri tempi, da altri uomini. A voi giovani voglio ricordare una ragazza istriana, Norma Cossetto, una studentessa universitaria di ventitré anni, che stava preparando la tesi di laurea: prelevata da casa, non vi tornò più; fu ritrovata dopo settimane nella foiba di Villa Surani. Suo padre e un parente, che giravano disperati a cercarla, furono anch’essi uccisi e gettati in un’altra foiba. A Norma, su proposta del suo professore di latino Concetto Marchesi, è stata data la laurea “honoris causa” dall’Università di Padova; l’anno scorso il Presidente Ciampi ha consegnato alla sorella una medaglia d’oro alla sua memoria. E vorrei anche ricordare le tre sorelle Radicchi (Albina di ventuno, Caterina di diciannove e Fosca di soli diciassette anni) ritrovate nella foiba di Terli. Di quali delitti potevano essersi macchiate ragazze di quell’età?

La vicenda delle foibe non è stata ancora studiata dagli storici in maniera approfondita; per molti anni la loro stessa esistenza è stata del tutto ignorata, se non deliberatamente nascosta. Sono caduti nelle foibe italiani e slavi, fascisti e partigiani, perfino ebrei appena rientrati dai campi di concentramento. Furono uccisi e gettati in quelle voragini uomini e donne di ogni ceto sociale e condizione: carabinieri, guardie di finanza e semplici guardie campestri, medici condotti, maestri e ufficiali postali, possidenti, tutti quelli, insomma, che davano in qualche modo fastidio in quelle particolari circostanze. Tutti furono vittime di un odio feroce, che aveva le sue origini negli anni di guerra ed anche prima. Quei poveri morti hanno pagato gli errori e le prepotenze compiute nei riguardi delle minoranze slave passate sotto la sovranità italiana dopo la guerra del 1915-18.

Nella Venezia Giulia, passata attraverso i secoli sotto diverse dominazioni, dalla Repubblica di Venezia all’Impero austro-ungarico e infine all’Italia, non c’era una netta separazione tra gli abitanti di lingua italiana e quelli di lingua croata o slovena. In genere le città, come Gorizia, Trieste, Fiume e Pola, avevano una popolazione nella grandissima maggioranza. italiana. Trieste e Fiume erano città, come diremmo oggi, multietniche; soprattutto durante la dominazione austro-ungarica molte popolazioni (austriaci, ungheresi, sloveni, croati) si riversarono nelle due città, attratti dalle loro floride condizioni economiche (Trieste era il porto principale dell’Austria e Fiume era l’unico sbocco al mare per l’Ungheria). Tutte queste diverse nazionalità impararono a coabitare pacificamente, integrandosi fra loro senza particolari difficoltà. Durante i miei studi io ho avuto compagni e compagne di scuola di origine ungherese, croata, austriaca; compagni ebrei e protestanti e, tranne che per la frequenza dell’ora di religione, nessuno ha mai fatto alcuna differenza tra di noi. Italiane erano le cittadine costiere dell’Istria (Capodistria, Cittanova, Pirano, Parenzo, Rovigno, Albona), tutti porti costituiti dalla Repubblica di Venezia e caratterizzati dai bianchi edifici in stile veneziano. Le zone più interne dell’Istria, invece, zone agricole e poco sviluppate economicamente, erano abitate da popolazioni di lingua croata.

I diritti di queste minoranze non vennero assolutamente rispettati durante il fascismo, che considerava gli slavi razze assolutamente inferiori. Fu imposto l’uso della sola lingua italiana, furono chiuse le scuole croate, furono italianizzati i cognomi slavi (e in questo campo avvennero cose a dir poco ridicole: il cognome Lovrovic fu trasformato in una città in Lovrini, in un’altra in Lovrani o anche in Lovroni; Sirk diventò a Trieste Sirca, a Gorizia Sirtori e in Istria Serchi; e nell’euforia riformatrice persino il cognome Furlan, tipico cognome friulano ancora adesso molto diffuso, divenne Furlani!); era proibito imporre ai neonati nomi slavi; anche nelle chiese durante le funzioni c’era il divieto di usare la lingua croata. La popolazione subiva, ma sotto sotto cresceva l’odio verso gli italiani. La situazione si fece ancor più grave nella primavera del 1941, quando le truppe italiane invasero la Jugoslavia e si impadronirono di vasti territori, costituendo le nuove province di Lubiana e della Dalmazia. Naturalmente la prima conseguenza dell’aggressione militare fu la nascita di un forte movimento partigiano e la relativa durissima repressione da parte dell’esercito italiano: tra il 1941 e il 1943 furono fucilati centinaia di ostaggi, incendiate migliaia di case, interi villaggi; furono deportate in vari campi di concentramento oltre trentamila persone, molte delle quali, soprattutto donne e bambini, morirono di stenti. Io stessa ho udito la descrizione, da parte di un giovane soldato italiano, della distruzione di un villaggio e della fucilazione di tutti gli uomini, davanti agli occhi delle mogli e dei figli. Il ragazzo (aveva pochi anni più di me) piangeva nel ricordare … ma “doveva obbedire agli ordini”. Perfino il Vescovo di Trieste intervenne per chiedere la sospensione delle feroci rappresaglie.

Nessuno dei veri responsabili ha pagato per questi massacri, così come non hanno pagato gli uccisori delle foibe, e questo è stato un errore molto grave di ambedue le parti, sia italiana che jugoslava. In questo modo si alimentarono nei superstiti l’odio e il desiderio di vendetta, che esplosero, anche in maniera irrazionale, alla fine della guerra. La guerra, come ben sapete anche voi giovani, che appartenete ad una generazione che non l’ha conosciuta direttamente, la guerra non risolve i conflitti tra i popoli, anzi ne crea degli altri ancora peggiori, e lo vediamo continuamente anche ai nostri giorni. Ma purtroppo gli uomini non imparano niente dalla storia.

Dopo questa parentesi, torniamo ora a Fiume occupata dalle truppe jugoslave. Il clima nella città era tutt’altro che tranquillo: i viveri erano sempre scarsi e razionati; le vetrine dei negozi erano piene di bandiere con la stella rossa e di ritratti del maresciallo Tito, ma gli scaffali delle merci erano irrimediabilmente vuoti, I nuovi occupanti si erano insediati nel Municipio, divenuto Casa del Popolo, e parlavano spesso, attraverso i loro manifesti, di “fratellanza fra i popoli”, ma non agivano di conseguenza. Si viveva in una situazione di precarietà, in continuo allarme, nel timore di nuovi arresti e sparizioni. Gli occupanti miravano soprattutto ad impadronirsi dell’amministrazione locale e, appena potevano, sostituivano gli impiegati italiani con personale croato fedele al nuovo regime, fatto affluire appositamente in città. Era molto attiva l’OZNA, polizia politica comunista, che poteva arrestare e decidere senza alcun processo della sorte di chiunque.

Intanto anche gli alleati anglo-americani si erano resi conto di aver concesso troppo ai titini, lasciando loro il possesso di tutta l’Istria, compresa Trieste, e crearono la cosiddetta Linea Morgan, che prevedeva la divisione della Venezia Giulia in due zone, la zona A e la zona B. La prima comprendeva Trieste, una parte di Gorizia, una fascia confinaria fino a Tarvisio e, all’estremità meridionale dell’Istria, Pola; questa zona ricadeva sotto l’amministrazione militare alleata. La seconda, comprendente Fiume, l’Istria e le isole del Quarnaro, era affidata all’amministrazione jugoslava. Successivamente questa divisione divenne definitiva e fu sancita nel Trattato di pace tra Italia e Jugoslavia del 1947, che cedette alla Jugoslavia anche Pola.

Era ormai chiaro, per i fiumani e per gli istriani,che il destino delle loro terre era segnato, e questo aumentò il disagio della componente italiana della popolazione, che incominciò seriamente a pensare di abbandonare la città e di trasferirsi in Italia. Le difficoltà aumentarono dopo il 1948, quando fu concessa agli italiani la “facoltà di opzione”, cioè la scelta tra la cittadinanza italiana e quella jugoslava. Però, chi optava per la cittadinanza italiana era guardato con sospetto e rischiava anche di perdere il posto di lavoro…

I primi a partire furono dirigenti industriali e impiegati colpiti dai licenziamenti. A Fiume c’erano varie industrie: i Cantieri Navali, il Siluruficio, la Raffineria di oli minerali ROMSA, le Fonderie Skull, una grande Manifattura Tabacchi. Numerosi erano anche i proprietari di esercizi commerciali, più o meno grandi, e gli artigiani: molti di essi, soprattutto gli orefici, assai apprezzati anche fuori di Fiume, si erano visti espropriare i negozi con tutta la merce o confiscare le attrezzature indispensabili per il proprio lavoro ed erano ridotti al ruolo di commessi stipendiati nel loro stesso negozio. Mio padre, funzionario delle Poste, fu uno dei primi ad essere licenziato e fu costretto così a partire , portando con sé “i propri indumenti personali fino a un massimo di 50 kg, nonché l’importo di lire 20.000”, come prescriveva l’ordinanza che stabiliva le regole per ottenere il lasciapassare indispensabile per la partenza. Fra quelli che abbandonavano la città i più fortunati erano i dipendenti statali, cui il contratto di lavoro assicurava di poter riprendere il posto di lavoro in Italia, o i dipendenti di alcuni enti (banche, assicurazioni) che in Italia avevano delle filiali. Ma medici, avvocati, liberi professionisti, artigiani, commercianti, dipendenti privati partivano lasciando tutto quello che avevano realizzato nella loro vita e andavano incontro ad un avvenire assai incerto. Noi giovani eravamo ancora fiduciosi, anche se eravamo consapevoli di dover lasciare amicizie iniziate fin dagli anni dell’infanzia; i bambini più piccoli non si rendevano, naturalmente, conto della situazione. Ma vedevamo la preoccupazione dei nostri genitori, che dovevano caricarsi di pesanti responsabilità e prendere delle decisioni che avrebbero gravemente influito sul futuro dei loro figli. Ancora più dolorosa era la situazione degli anziani: lasciare la città in cui erano nati e vissuti, dove avevano la loro casa, gli amici di una vita, tutte le piccole cose quotidiane cui erano legati da sempre, le tombe dei loro morti … Eppure 300.000 persone lasciarono la Venezia Giulia e la Dalmazia, senza voltarsi indietro. Fiume aveva 60.000 abitanti: il 90% di essi partì per l’Italia. Un fatto così non si era mai verificato durante i precedenti passaggi di dominazione: gli italiani erano sempre rimasti nelle loro terre, anche sotto l’Impero Austro-ungarico, e si erano saputi integrare nella nuova società che si andava formando, rispettati da tutti per la loro serietà e competenza nel lavoro.

Invece questa volta partirono con tutti i mezzi, per terra e per mare: treni (non comodi treni passeggeri, ma carri merci), camion, navi (come la gloriosa motonave “Toscana” che fece la spola per un mese tra Pola ed Ancona per evacuare i quasi trentamila polesani, l’intera città). Affrontarono incredibili peripezie, come i tredici pescherecci istriani che, nella primavera del 1948, partirono da Pirano verso la Sardegna, circumnavigarono in venti giorni la penisola e sbarcarono a Fertilia, l’ultima città fondata dal fascismo; là, in teoria, avrebbe dovuto trovare accoglienza un consistente numero di profughi, ma, in realtà, non trovarono altro che un ammasso di edifici non ancora ultimati.

Che cosa attendeva gli esuli in Italia? Essi non furono sempre accolti a braccia aperte, perché i comunisti italiani non erano troppo teneri con tutta quella gente che abbandonava un paese a regime comunista; ma, per fortuna, si trattò di episodi isolati. Il governo italiano aveva allestito circa novecento campi profughi sparsi per tutta la penisola, per lo più situati in ambienti fatiscenti: vecchie caserme in disuso, depositi abbandonati, ex campi di concentramento fascisti, persino ex campi di sterminio nazisti, come la risiera di San Saba a Trieste. Ce ne furono anche in Puglia, di questi campi: ad Altamura, a Santeramo, a Barletta e a Bari; centri di raccolta furono istituiti a Brindisi e anche nel convitto “Palmieri” e nella scuola elementare “De Amicis” a Lecce; pure a Galatina alcune famiglie di profughi da Zara furono accolte nel convento abbandonato dei Cappuccini. In tutte queste varie strutture bisognava “arrangiarsi” per creare degli ambienti abitabili: i grandi cameroni furono divisi, mediante coperte, lenzuola, cartoni, in spazi più piccoli, nei quali dovevano alloggiare intere famiglie. Non esisteva privacy, tutti erano sotto gli occhi di tutti; le condizioni igieniche, poi, erano semplicemente disastrose. E in questi campi i profughi rimasero per mesi, anche per anni; molti bambini nati in quei campi, a quindici anni erano ancora lì. Le pubbliche amministrazioni e anche i semplici cittadini accolsero con gesti di solidarietà l’arrivo dei profughi e cercarono come potevano (non dobbiamo dimenticare che erano gli anni dell’immediato dopoguerra) di alleviare i loro disagi.

Indubbiamente furono per tutti anni assai difficili: per gente abituata a vivere con certe comodità, in città moderne e ben ordinate, era doloroso doversi adattare ad ambienti assai poco accoglienti. Molti, in particolare gli istriani, avevano potuto portare con sé solo qualche valigia con gli indumenti indispensabili. Altri avevano avuto la possibilità di traslocare anche i mobili, almeno in parte. Solo verso gli anni ’50, in seguito a un piano governativo di edilizia nazionale, furono costruiti alloggi per i profughi: a Roma sorse il “Villaggio giuliano”, a Bari il “Villaggio Trieste”, a Brindisi il Collegio “Tommaseo” con annesso un Istituto Tecnico Nautico (le maggiori navi italiane, sia da guerra che mercantili, erano spesso comandate da ufficiali usciti dall’Istituto Nautico dell’isola di Lussino, nel golfo del Quarnaro).

Ma quello che più angosciava tutti era la mancanza di lavoro. A poco a poco certe categorie di lavoratori riuscirono a sistemarsi, specialmente quelli che avevano una qualifica: cominciava anche in Italia la ricostruzione e si profilava un periodo di maggior benessere. Tuttavia ancora per molti trovare un lavoro era assai difficile, per cui in numero sempre crescente gli esuli dovettero puntare verso una seconda, sofferta, umiliante emigrazione, soprattutto verso gli Stati Uniti, il Canada e perfino l’Australia (l’Europa era troppo provata dai disastri della guerra per poter offrire lavoro agli stranieri). Gli emigranti dovettero accettare lavori molto faticosi: in Australia montavano le traversine dei binari o i cordoli dei marciapiedi; in Canada erano addetti al taglio degli alberi nelle foreste o al trasporto dei tronchi; in America si dovevano contentare dei lavori più umili. Ma si adattarono a tutto, facendo anche diversi mestieri contemporaneamente, pur di riuscire a ricostruirsi una vita per loro e per i loro figli. Svilupparono tra loro una grande solidarietà, cercando di rimanere vicini gli uni agli altri, quasi a trovare un compenso a quello che avevano perduto, e formarono ovunque, in Italia e all’estero, comunità di giuliano-dalmati ben inserite nella società locale.

Molti dei profughi si sono distinti in vari campi, diventando noti imprenditori (la famiglia Luxardo di Zara, produttrice del famoso liquore “Maraschino” esportato in tutto il mondo; la “Lidia’s Italian Table” a New York, una catena di ristoranti dove si mangia istriano e italiano, aperta da Lidia Bastiancich, esule da Pola); stilisti di fama (come Tai Missoni, pure di Zara); seri professionisti, medici, docenti universitari.

Anche la mia famiglia è riuscita a sistemarsi dignitosamente in Italia, prima a Pisa e poi a Roma. Abbiamo potuto portare con noi anche i nostri mobili e ci siamo potuti sistemare in alloggi modesti, ma tutti per noi. Io avevo conseguito la maturità classica nel mio Liceo a Fiume e ne avevo ricevuto un attestato redatto in croato, con tanto di timbro con stella rossa e la scritta “Morte al fascismo, libertà ai popoli!”. A Pisa, dopo aver fatto tradurre il mio certificato di maturità da un perito del Tribunale, mi son potuta iscrivere all’Università e lì ho conosciuto il mio futuro marito, un giovane galatinese che frequentava la Scuola Normale Superiore. Ci siamo sposati, ci siamo trasferiti a Galatina, dove abbiamo insegnato per diversi anni, dove io ho trovato molti amici che ormai mi considerano loro concittadina e dove continuo a vivere serenamente e completamente appagata: ormai, dopo oltre cinquant’anni, posso considerarmi a tutti gli effetti galatinese.

 

Ma è proprio vera questa mia ultima affermazione? Non è rimasto in me nessun rimpianto del passato?

Nessuno di noi profughi può mai dire di essere completamente appagato, perché ciascuno di noi si porta dietro come un vuoto dentro il cuore: ci mancano ancora adesso, dopo tanti anni, le nostre città, i luoghi dove siamo nati e dove volevamo morire, dove sappiamo di non poter più tornare. Tutti gli emigranti, prima o poi, tornano a casa e ritrovano il loro paese con le sue strade, le sue case e il suo cimitero, i parenti rimasti, gli amici dell’infanzia e della giovinezza. Noi no, a noi è stata tolta per sempre questa possibilità. Quando sento qualcuno che racconta: “Ho passato le mie vacanze in Croazia, ho visitato Rijeka, Opatija, Lovran, Kopar, Split, Dubrovnik” provo una dolorosa fitta al cuore e tra me e me faccio la traduzione: “Hai fatto le vacanze nella verde Istria e nella bianca Dalmazia, sei stato a Fiume, ad Abbazia, a Laurana, a Capodistria, a Spalato e a Ragusa” e vorrei gridare a quelle persone: ”Forse ci siete stati, ma non sapete niente di quelle terre, della loro storia millenaria. Esse hanno avuto antichi nomi romani, in seguito nomi italiani che fino a cinquant’anni fa erano riportati su tutte le carte geografiche. Là si parlava italiano, un dolce melodioso dialetto veneto; per quelle terre hanno lasciato la vita migliaia di italiani, i cui nomi sono scolpiti nei monumenti ai Caduti dei nostri paesi. Adesso anche il nome dei nostri paesi ci è stato rubato.

 

Ilona Fried, docente di letteratura italiana all’Università di Budapest, così ha scritto a conclusone della sua importante opera intitolata «Fiume città della memoria»: “Ciò che è accaduto ai singoli individui e alla città è ormai immutabile… Quelli che hanno abbandonato Fiume (Rijeka) non ci torneranno più, né loro né i loro discendenti… La struttura della popolazione è cambiata. Gli ultimi arrivati non conoscono più la cultura accogliente di una volta, capace di attirare e assorbire…”.

 

Fiume e l’Istria sono ormai “terre della memoria”: esse vivono solo nel nostro ricordo e solo noi le vediamo come erano e come sarebbero state se non ci avessero costretti ad abbandonarle. Alle nostre città hanno rubato l’anima, e l’anima è difficile che ritorni.

A conclusione vorrei leggervi una poesia scritta da un istriano, Mario Orlandini, che compendia in modo assai suggestivo i sentimenti di tutti i profughi:

Ho lasciato per sempre la mia terra

ma non ho rimpianti.

Mi sono portato via

il bianco degli scogli in marina,

il profumo dei grappoli d’acacia,

il pianto sul viso dell’infanzia lontana,

quel non so che del temporale d’estate,

l’euforia del primo bicchiere.

Non ho rimpianti

perché la mia terra

non è più la mia terra.

 

 

[Testo della conferenza tenuta all’Istituto Tecnico Commerciale “ Michele Laporta “ di Galatina il 10 febbraio 2007, in occasione della Giornata del Ricordo]

 

 

Bibliografia

Marisa Madieri, Verde acqua, Einaudi, Torino 1987.

Gianni Oliva, Profughi, Mondadori, Milano 2005.

Raoul Pupo, Il lungo esodo, Rizzoli, Milano 2005.

Anna Maria Mori, Nata in Istria, Rizzoli, Milano 2006.

 

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