di Antonio Errico
Quella scrittrice dall’identità sconosciuta che sostiene di chiamarsi Elena Ferrante, nel corso di un’intervista concessa a Simonetta Fiori, ha detto che considera “un rischio per la letteratura e per qualsiasi attività creativa muovere dall’idea che esistono caselle bell’e pronte da cui si estrae ciò che è coerente con qualche canone più o meno trionfante”.
Così, in tre righe, ha rivelato una sintesi essenziale e sostanziale di quella dimensione che convenzionalmente viene definita con il termine di creatività e che sempre convenzionalmente viene confusa con tutto quello che in qualche modo si propone come uno scarto dal consueto.
Ma creatività è quello che dice Elena Ferrante. Si può dire creativo soltanto quello che non solo si colloca fuori dalle caselle, ma che addirittura ignora le caselle o che comunque le rifiuta. Si può dire creativo soltanto quello che scardina i canoni, li sovverte, li polverizza, oppure, anche in questo caso, li ignora o li rifiuta. Tutto il resto è rimaneggiamento, artificio.
Creativo è un esito che va oltre. Non oltre il prodotto già esistente, ma oltre il pensiero che ha realizzato il prodotto. La creatività si può valutare considerando l’innovazione rispetto alla sostanza, al senso profondo ed essenziale delle cose. Anche rispetto alla forma, indubbiamente. Ma se è solo rispetto alla forma non basta. Il significante non è sufficiente. E’ indispensabile che il nuovo si riferisca soprattutto alla sostanza. Per decenni, nel corso del Novecento, in molti territori dell’arte si è fatta esperienza di sperimentalismi finalizzati soltanto a mostrare forme diverse, a battere e ribattere il mazzo delle carte di espressioni e formule. Ma più si rifletteva sul senso di quella sperimentazione e più si doveva ribadire che il più grande sperimentatore rimaneva l’Alighieri, per la semplice ragione che nella sua opera era riuscito ad integrare e a far interagire, perfettamente, la forma e la sostanza.