Yves Bonnefoy:  il paese della lontananza

di Antonio Prete

Di Yves Bonnefoy  potrei dire quello che Nietzsche diceva di Leopardi: amo poeti che pensano. Infatti la  poesia di Bonnefoy è un pensiero che mentre evoca presenze interroga i confini stessi del pensiero. Mentre ospita un albero, una pietra, uno spicchio di cielo, un colore scrostato di pittura, si spinge sulla soglia dell’invisibile, leggendo le sue ombre. Mentre ascolta un passo nella sera, un rumore di vento o d’acqua, mentre accoglie figure provenienti da un sogno, cerca un radicamento nel qui, nella opacità della terra. E allo stesso tempo libera l’ala dell’altrove, il pensiero dell’impossibile. E tutto questo accade nel ritmo aperto, da adagio meraviglioso, del verso. O nel ritmo di una prosa che ha portato la tradizione francese dell’ essai, del saggio, verso forme nuove. Verso forme in cui la descrizione di un’opera d’arte è racconto, il ricordo è meditazione, l’analisi è evocazione di figure e di luoghi, insomma la scrittura è esercizio di una libertà inventiva estrema, ma anche discreta, quasi confidenziale: esperienza che mette in campo un sapere conoscendo la fragilità del sapere, la sua debolezza dinanzi alla presenza insondabile del vivente.

Insieme con la poesia Bonnefoy ha coltivato una meditazione assidua sul linguaggio, e in particolare sul linguaggio dell’arte. E ha intrattenuto un rapporto inventivo e rigeneratore con i luoghi: l’Italia, la Grecia, anzitutto. E con i poeti, al di là dell’ordine temporale e linguistico: Esiodo o Kavafis, gli Inni omerici o Seferis, Virgilio o Baudelaire, Shakespeare o Mallarmé, Racine o Keats. Ma anche con i filosofi, da Kierkegaard ai prossimi, contemporanei: Bataille, Jean Wahl. E, soprattutto, con gli artisti, da Piero dalla Francesca a  Giacometti.

Della sua poesia, se volessimo usare un’abbreviazione, si potrebbe dire: è lo spazio dove l’albero e il vento, la pietra e il cielo, diventano destino. Accedono, cioè, a una forte e insieme silenziosa presenza: presenza intesa come appartenenza a un comune destino di viventi. Tutto -alberi, fiumi, figure-  è bagnato da una luce irreale, che rende però ogni cosa prossima e insieme indecifrabile.

Sono diversi i libri di Bonnefoy tradotti in italiano. Tra questi vorrei almeno ricordare la  traduzione delle prose di Racconti in sogno (Egea, 1992) condotta da Cesare Greppi, finissimo e profondo poeta e traduttore, la cui sensibilità è prossima ai testi poetici che traduce. Di recente è uscita una bella scelta di poesie (composte dal 1953 al 2001), nella traduzione e cura di Fabio Scotto (Crocetti, 2003): il lettore può percorrere il cammino di Bonnefoy poeta, da Movimento e immobilità di Douve (del 1953) a Ieri regnante deserto (del ’58), da Pietra scritta (del ’65) a Nell’insidia della soglia (del ’75), da Rue Traversière (del 1977)  via via fino a Le assi ricurve (del 2001). Inoltre è appena uscita la riedizione, per Guanda, di Ieri regnante deserto e di Pietra scritta nelle traduzioni della prima meritevole  traduttrice italiana del poeta, Diana Grange Fiori, con una introduzione scritta ora dallo stesso Bonnefoy: pagine, queste, che sono uno splendido  racconto del suo cammino, delle sue diverse stazioni, oltre che una riflessione intensissima sul linguaggio della poesia. Ma qui voglio parlare di uno dei libri più belli di Bonnefoy, L’arrière-pays, scritto dal poeta nell’estate del 1971, e ora , col titolo L’entroterra, tradotto finalmente in italiano, e benissimo, da Gabriella Caramore, con un saggio introduttivo composto per l’occasione dal poeta. Il volume, che  esce  presso Donzelli, riproduce e anzi accentua l’eleganza e la compostezza grafica dell’ultima edizione Gallimard e ha un’introduzione della stessa  Gabriella Caramore. Un’introduzione scritta con la passione e la misura stilistica di chi sa affacciarsi nelle zone più segrete, e direi, sorgive, della poesia e del pensiero di Bonnefoy e sa camminare con lui interrogandosi sul senso della poesia, della sua lingua, del  nostro abitare con lei su questa terra. L’ Entroterra è il paese dello sfondo –e lo sfondo può essere quello di un quadro, di un paesaggio, di un ricordo, di un sogno- ed è anche il paese dove prendono forma corpi e cose con cui dialogare, presenze che testimoniano del nostro stare al mondo in una solitudine animata da voci. Sapendo di appartenere a un qui ed ora che accoglie sempre l’ altrove, il “laggiù”, l’ignoto. E’ come se Bonnefoy, nel raccontare del suo viaggio in Grecia e in Italia, avesse voluto dare forma visibile a quello che Baudelaire  chiamava “nostalgie du pays inconnu”, nostalgia del paese ignoto. Perché dietro il paese che si dispiega agli occhi del viaggiatore, si disegna il profilo di un altro sconosciuto paese. In questo viaggio, che scruta architetture, sosta all’ombra di chiostri, osserva volti dipinti su tele, simmetrie di volumi, luci e ombre di facciate, profili di colline, alberi solitari, e medita intorno alla rinascimentale “dolce prospettiva”, in questa ricerca  quel che davvero si continua a inseguire è un altro luogo, un altro paese, inesistente e tuttavia sognato, invisibile e che tuttavia si manifesta con apparizioni improvvise di scorci, di tracce, di allusioni. Nel viaggio, nell’osservazione assidua delle cose dipinte e naturali, quel che di fatto si cerca è una forma visibile che ci introduca alla conoscenza dell’esistenza umana, del suo segreto. Nel cammino, indicato dalla grande arte rinascimentale italiana, l’attenzione è rivolta a “non dimenticare il qui nell’altrove”, a non stemperare e smarrire il senso del vissuto proiettandolo laggiù, in un oltretempo. In questo, e negli altri suoi libri, Bonnefoy racconta le vicissitudini di un’esperienza del vedere che non è disgiunta dall’esperienza dell’ascolto: osservare l’angolo scrostato di un affresco, o l’ombra cancellata, o l’albero in cima al poggio, significa disporsi all’ascolto di voci che vengono da lontano, di immagini che salgono dal buio dell’oblio e prendono forma, di frasi che vengono da libri letti, da classici amati, e tornano cercando di situarsi in un nuovo significato, in una nuova sorprendente luce. L’Entroterra è un libro proustiano, certamente, ma ancorato in quella chiarezza che viene dalla frequentazione assidua della pittura di Piero, dell’architettura dell’Alberti e del  Brunelleschi. L’iniziazione al dialogo interiore avuta dal poeta nel viaggio in Italia si racconta nel libro con scansioni, passaggi, visite, illuminazioni. Nella consapevolezza che il “luogo” che si cerca ha rifrazioni infinite, sta anzitutto dentro di noi, e ha il ritmo del ricordo, o anche del sogno. Il lettore, trascorrendo di pagina in pagina, s’accorge che la vera domanda posta dal poeta è come accedere alla bellezza non nella solitudine ma nella condivisione. Perché la bellezza dell’arte, e del paesaggio, è presenza comune, e in questo senso la sua protezione, la sua custodia è compito di tutti. Lo sguardo del poeta, il racconto della sua esperienza, è una forma, e un esempio, di custodia. Una custodia che non attenua certo la labilità del tempo, non ferma la rovina che il tempo comporta –dell’arte, del paesaggio, di noi stessi- ma permette di stare sulla terra sentendosi parte di un mondo che moltiplica, attraverso la bellezza, le presenze, le loro voci, la loro compagnia.

 

Questa voce è stata pubblicata in Letteratura, Scritti critici di Antonio Prete e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *