Continua il definanziamento dell’istruzione e della ricerca

di Guglielmo Forges Davanzati

Le recenti dimissioni del Ministro Fioramonti segnalano una linea di continuità nella gestione delle politiche formative, che data almeno dalla cosiddetta riforma Gelmini e dai provvedimenti di definanziamento dell’Università voluti dal Ministro Tremonti, a partire dal 2008-2009. Le dimissioni sono state motivate dalla mancata approvazione, da parte del Consiglio dei Ministri, del finanziamento di soli tre miliardi di euro per salvare l’Università italiana. Tre miliardi di euro, è bene sottolineare, nel bilancio dello Stato italiano sono un importo assolutamente irrisorio. Si pensi al fatto che sono stati impegnati, nella Legge di stabilità, circa 900 milioni di euro per ‘salvare’ la Banca Popolare di Bari.

L’OCSE stima che, nel caso italiano, la spesa pubblica per ricerca e sviluppo è diminuita del 9 per cento tra il 2010 e il 2016 sia per la scuola che per l’università, mentre gli investimenti per l’università sono stati ridotti del 14 per cento dal 2008 al 2014. Il Consiglio nazionale universitario ha rilevato che i fondi erogati per la ricerca scientifica ammontano, a fine 2019, all’importo irrisorio di meno di 500 milioni di euro, in larga misura allocati per interventi occasionali, in primis i dipartimenti “di eccellenza” e al reclutamento per ricercatori precari. Il cosiddetto finanziamento strutturale diminuisce da almeno un decennio, passando dai circa 7 miliardi del 2014 a poco più dei 6 miliardi del 2019.

La traiettoria di definanziamento della struttura formativa italiana è di lungo periodo. A titolo esemplificativo, si può ricordare che l’Italia arriva tardi a innalzare i livelli di istruzione e ci arriva solo con il Governo Giolitti, agli inizi del Novecento, con la “Legge Daneo-Credaro”. Si punta, in quegli anni, a potenziare prevalentemente l’istruzione tecnica, nella convinzione che la crescita economica debba essere demandata alla crescita della produttività del lavoro, derivante dalla maggiore diffusione di competenze. L’elaborazione teorica di Francesco Saverio Nitti contribuisce a dare legittimazione scientifica queste tesi, rinviando alla convinzione per la quale l’aumento della produttività del lavoro dipende essenzialmente da maggiore istruzione e da migliori condizioni di lavoro, oltre che da più alti salari.

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