di Antonio Errico
I pregiudizi sono come i peccati: mortali e veniali. I pregiudizi mortali sono quelli che si commettono nei confronti delle creature. Tutti gli altri forse possono essere considerati veniali. I pregiudizi nei confronti dei libri, forse sono veniali.
Così, considero veniale il pregiudizio che ho avuto nei confronti di Va’ dove ti porta il cuore. Forse un pregiudizio comune alla mia generazione. Un romanzo sentimentalistico, si pensava, patetico, melenso; confezionato ad arte per il mercato; una roba da venti milioni di copie vendute non può essere altro che un pacchetto regalo. Sdolcinamenti. Luoghi comuni. Frasi fatte. Questo si pensava. Quando il romanzo uscì, nel Novantaquattro, la critica militante confermava questa ipotesi, e in molti casi la determinava.
Poi, qualche giorno fa, leggendo la notizia che Susanna Tamaro, a causa della sindrome di Asperger, ha rinunciato a viaggi, incontri, conferenze, ho provato un profondo pentimento per non aver letto il libro. Allora l’ho tirato fuori da un punto remoto degli scaffali e ho incontrato un romanzo sorprendente, completamente diverso da come l’avevo immaginato. Non c’è una pagina, una sola pagina, che non sia attraversata dalla delicatezza.
La delicatezza per il principio e per la fine: una delicatezza leggera, sottile. Per guardare il mondo, per vegliare, per sognare, per restare in silenzio, per amare. Una delicatezza per attraversare le stagioni che vengono e che vanno, per fermarsi sulla soglia ad aspettare un passaggio di colori, oppure niente, a volte. Una delicatezza per partire e per tornare, finché si può partite, finché si può tornare, e poi una delicatezza per ogni pensiero, per gli esseri, le cose, ogni attimo del presente e del passato, per ogni esile figurazione di futuro, per tutte le parole dette e tutte quelle taciute, per le carezze incontrate, per quelle perdute.
Una delicatezza per la vita e per la morte.