di Paolo Maria Mariano
Mi capitò di prendere un treno a Varsavia, verso sud, verso Cracovia, un giorno che sembrava salutare con più luce di altri. La pianura non mostrava confine e gli alberi erano radi. La terra non sembrava feconda come certe pianure italiane, né era aspra come la taiga russa. Sembrava adatta per andare a cavallo.
Qui, verso sud, era avanzato Sobieski a cavallo, con i suoi soldati polacchi, per riunirsi ad austriaci, a italiani, a bavaresi, a sassoni. Alla fine erano decine di migliaia e Sobieski li aveva guidati contro gli ottomani più numerosi, che assediavano Vienna. Fu la Bitwa pod Wiedniem. Sobieski stesso guidò la sua cavalleria: tremila cavalieri leggeri e duemila ussari alati coperti di pelli di leopardo, di cotte di maglia e di piastre dipinte di blu, perché altrimenti sarebbe stato difficile distinguerli dai turchi e dai tartari. Era il 12 settembre 1685, Sobieski aveva cinquantaquattro anni, i mustacchi rivolti verso il basso, la pancia un po’ prominente. Era il terzo re con quel cognome che si chiamava Jan.
I cavalieri polacchi sciamarono dalle colline intorno a Vienna, muovendosi da Grandberg. Perirono in tanti ma vinsero.
Due secoli e mezzo dopo i cavalieri polacchi sarebbero morti cavalcando senza speranza contro i panzer tedeschi – come cetacei che si buttano per oscuri motivi sulla battigia – perdendo. Avevo chiesto a Jan S. di quei magnifici pazzi che non avevano trovato di meglio da fare se non correre a cavallo contro i cannoni semoventi che l’efficiente industria meccanica tedesca costruiva. Passeggiavamo per le strade di Varsavia. Jan non mi disse molto di più di quanto non potessi trovare in racconti già noti. Era molto piccolo allora. Si era rifugiato in un villaggio a nord, verso la foresta, con la famiglia. Erano riusciti a stare abbastanza al riparo e a sopravvivere. Quando ne parlava, la timidezza naturale si acuiva: mangiava ancora di più le parole e spezzettava le frasi, ancor più di quando l’ho poi visto un po’ brillo in una sera polacca di qualche anno dopo, rosso in viso, oramai in pensione ma ancora desideroso di riconoscimento per un lavoro fatto in disparte per il solo timore di essere chiaro, per insicurezza. Non insistetti: non ne voleva parlare, anche se non lo diceva esplicitamente per non sembrare scortese. Smisi di chiedergli informazioni.
Mi rimase in mente l’immagine degli zoccoli dei cavalli che schiacciavano l’erba. Gli animali non sapevano cosa fossero le bocche di cannone di fronte a loro, come i loro simili non l’avevano saputo a Balaclava. Avevano froge aperte, schiuma sul corpo. Portavano i loro cavalieri, quegli uomini che li accudivano nelle stalle, dando loro la biada, strigliandoli, spalando lo sterco, cambiando i ferri e limando gli zoccoli. Galoppavano perché erano pungolati a farlo. Galoppavano e andavano a morire. Non li riguardava il conflitto degli uomini come non riguardava gli alberi e le erbe. Sarebbero potuti andare liberi nei prati senza neanche essere costretti a portare qualcuno sulla groppa. Avrebbero dovuto. Che cosa importa al cavallo delle beghe del cavaliere? E cosa importa a un cavallo d’esser cavalcato?
Che cosa avrei detto se fossi stato io, ma fossi stato un cavallo?
Perché devo tirare un carro? Spingitelo da solo! Me lo hai chiesto con cortesia? Io posso vivere correndo per la pianura, gli zoccoli contro la terra dura, brucando l’erba, rimanendo fermo sulla riva dei fiumi ad annusare i profumi, a sentire l’acqua che passa lenta sul greto. Posso galoppare, andar di trotto, al passo quando la luna brilla in cielo e il vento mi riempie le narici. E voglio portare in giro le farfalle quando sono stanche di volare, non te, cavaliere tronfio e inetto. Tu invece vuoi che corra come non puoi, che salti inutilmente stupidi ostacoli che tu non sai saltare; ma tu scommetti con i tuoi simili e vuoi che ti aiuti a fare bella figura davanti a gente plaudente con passetti ordinati. La chiami arte dell’equitazione ed io non so cosa voglia dire. E poi vuoi che ti porti in guerra e lì qualche volta dici di cercare anche una morte che chiami bella perché dimentichi che la morte è morte e basta, e soffre chi rimane vivo. La guerra è il trionfo della macelleria, forse solo quello. Spero solo che trovi presto qualcosa di più utile di me e mi lasci sui miei prati, dimenticando aperta la porta di una stalla dove possa ripararmi dal freddo e dalla pioggia quando cade fitta sulla pianura.
Così pensavo nello scompartimento vuoto, mentre il treno viaggiava piano e lì, oltre il vetro, lontano nella pianura, tra i riflessi della luce del sole, la fantasia sembrava far scorgere ancora Sobieski, quel giorno che il cielo era limpido e Cracovia s’avvicinava, Cracovia che è accogliente e guarda alla Storia senza l’angoscia della distruzione che ha Varsavia. Andai al Sukiennice – ricorda quel nome, viandante che ti fermi a Cracovia – poi passeggiai intorno alla Rynek Glowny e mi sedetti al tavolo di un bar. Chiesi un’aranciata e biscotti. Mi passò addosso l’ombra di una carrozza carica di turisti. I biscotti avevano sapore di cannella e di gocce di cioccolato. Intorno c’era pace.
[“Il Galatino” anno L n. 7 – aprile 2017, p. 4]