di Rosario Coluccia
In un manoscritto confezionato in Salento nella seconda metà del Trecento conservato nella biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, nel margine inferiore di un foglio, in posizione capovolta rispetto al resto dello scritto lì contenuto, si trova la seguente annotazione (riproduco la trascrizione che ne ha fatto lo scopritore, Daniele Arnesano): «Lunedì 29 ottobre [1268] rinchiusero i signori all’interno di Gallipoli, fino a giovedì 4 aprile [1269]. In questo giorno infatti gli abitanti di Gallipoli li consegnarono al Giustiziere e il Giustiziere li deportò e li impiccò a Brindisi lunedì 22 aprile, ed erano 17 gli impiccati a Brindisi, a davanti a Gallipoli erano 8, nel 1269, indizione XII, cioè i signori Glicisio e Tommaso Gentile e i suoi tre figli». Queste parole scriveva, usando l’alfabeto greco per mettere su carta il «volgare» salentino da lui parlato, un personaggio che si chiamava papas Angelo, appartenente alla numerosa e colta etnia bizantina che, fin dall’alto Medioevo, si era stabilita nel Salento e nelle altre regioni meridionali (Sicilia, Calabria, Lucania). Il sostantivo «volgare» che ho usato prima è un termine della linguistica e della filologia che indica semplicemente la lingua parlata dal popolo, non ha nessuna connotazione spregiativa. Nei secoli che vanno dal Trecento fino al Cinquecento avanzato non pochi testi salentini in volgare (documenti giuridici, preghiere e invocazioni religiose, appunti quotidiani, perfino poesie) furono scritti usando non l’alfabeto latino ma quello greco, meglio conosciuto da chi quei testi redigeva. Così fece papas Angelo, vergando quelle frasi che si riferiscono a un fatto storico preciso, legato alla lotta tra Svevi e Angioini per il dominio dell’Italia meridionale.