di Gigi Montonato
Il libro di Gianluca Virgilio Infanzia salentina (Edit Santoro 2019), giunto alla sua seconda edizione arricchito di episodi, è un piccolo romanzo di formazione che ha per protagonista un adolescente della più tipica famiglia borghese della provincia salentina della seconda metà del Novecento, papà professore di liceo, mamma casalinga, una sorella. Una formazione che si evolve tra famiglia, scuola, giochi, amici, primi innamoramenti ed esercizi di scrittura.
Le vicende, narrate sul filo della memoria, si svolgono in gran parte a Galatina, con qualche uscita a Corigliano d’Otranto, paese della madre, e a Santa Maria di Leuca, dove la famiglia trascorre un mese all’anno di vacanza. Anche la città, Galatina, viene coinvolta nel processo formativo coi suoi luoghi, le sue vie, le sue piazze, i suoi palazzi, i suoi personaggi più popolari. Direi che perfino la città si forma in parallelo, con la costruzione di nuove case ed opere pubbliche. Le fasi passano attraverso occasioni famigliari, il trasferimento dalla casa in affitto alla casa di proprietà, la sistemazione della biblioteca paterna, lo stradario cittadino. Biblioteca e stradario soprattutto si pongono come contenitori di cultura.
Il protagonista non ha particolari problematiche, è il ragazzo tipo. Un po’ preoccupato da un’inadeguatezza del tutto ancorata all’età del dubbio: saprò mai scrivere per dare un senso a questa mia vita, così simile e così diversa allo stesso tempo da quella di tanti coetanei? Gli basta andare fuori dalla propria contrada e si imbatte nel nuovo, in un ragazzo che si meraviglia che l’altro non sappia questo o quest’altro e conclude “ma allora, non sai fare proprio niente?”.
Il processo formativo si può dire concluso quando finalmente il protagonista è in grado di raccontare la vicenda, essendo la scrittura funzione, finalità, piacere. E’ proprio la scrittura che dà un senso ad una vita che altrimenti sarebbe anonima, insignificante. Esso si accorge di averlo concluso quando il problema dello scrivere non se lo pone più in quanto tale, quando per lui “colui che scrive non [appare] più un surrogato d’uomo, ma un uomo, la materia dello scrivere non più un surrogato della vita, ma la vita stessa”. E se pure l’autore trasferisce questa presa di coscienza a quando è già adulto, è in quel “diario” che il padre gli suggeriva di scrivere quando era ragazzo che ha inizio, quando avrebbe voluto scrivere tutto e scriverlo bene. La scrittura, insomma, come metafora della vita, come formazione, perché l’uomo è tale quando sa raccontarsi e scrive come respira.
[“Presenza taurisanese”, a. XXXVII – n. 8/9 – Agosto-Settembre 2019, p. 9]