di Abele Longo
Dopo la silloge L’una e due, Paolo Vincenti ci propone L’una e tre. Come se la lancetta del pendolo che è la vita, avesse scoccato un solo minuto appena, un minuto di eternità che crea un piccolo caos, le “discordanze” del sottotitolo. Pur ritrovando de L’una e due la stessa distinzione in due parti, alcuni tralci e cellule tematiche, l’effeto qui è dirompente. Entrambe le parti contengono componimenti brevi e icastici, con un verso ridotto all’essenza nella prima parte, “Disco”, che omaggia il postmoderno nelle sue varie declinazioni; mentre l’influenza dei poeti greci e latini della tradizione epigrammatica, invece, caratterizza la seconda parte parte, “Danze”.
Sono schegge su cosa siamo o vorremmo essere, frammenti non per forza collegati di un puzzle di cui non riusciamo a venirne a capo. La prima parte riprende il “disco”, che già suonava in liriche più ampie de L’una e due, ma conferendo questa volta più ritmo; un terzinato con l’accento sulla seconda: “patito, perduto, spostato/sconvolto, scaduto, splittato”; passando al quaternario con accento sulla terza: “Disco noia/disco rabbia/disco gioia” – al su e giù, in battere o levare, al tonico/distonico… versi che si fanno musica e andrebbero letti ad alto volume (ci si chiede se non avrebbe giovato l’inclusione di indicazioni di brani da ascoltare durante la lettura). Viene il sospetto che l’autore abbia scritto in stato di ebbrezza, sotto l’effetto della musica, appunto.
Cosa dice il disco? Immagine, metafora del tempo, dei suoi corsi e ricorsi, senza inizio né fine. Vico, naturalmente, ma come dicevamo il postmoderno; ovvero spezzato ogni concetto di storia lineare, spazzata la speranza di andare in paradiso o di sbarazzarsi del Capitale, rimane la consapevolezza del fragore di un’esistenza senza più grandi narrazioni (“nel tempo instabile/tutto è imprevedibile/io dissipo tenebre”). In un crescendo ci troviamo catapultati nel senso di disagio, incompatibilità o scollamento con i tempi.