di Guglielmo Forges Davanzati
Un argomento caro ai sovranisti italiani – ovvero a coloro che propongono il recupero della sovranità nazionale anche mediante l’abbandono unilaterale da parte dell’Italia dell’euro – riguarda il fatto che l’unificazione monetaria europea avrebbe determinato un’ondata di acquisizioni di imprese italiane da parte di imprese di altri Paesi europei.
Non vi è dubbio che questo si è verificato, ma non vi è dubbio che ciò si è verificato non per l’adesione dell’Italia al progetto di unificazione europeo, ma per effetto della lunga recessione della nostra economia (a iniziare dai primi anni novanta) e della conseguente perdita di potere politico del nostro Paese. Ciò fondamentalmente a ragione del fatto che – essendo l’Unione monetaria europea un’unione formale di Paesi in concorrenza fra loro – sono i Paesi con i sistemi produttivi più competitivi ad avere maggiore potere politico. Fin quando l’Unione europea rimarrà tale, è alquanto ingenuo criticarla sul piano delle asimmetrie nel rispetto delle regole, giacché una siffatta critica confonde la dimensione del potere con la dimensione morale: è palese, infatti, che in generale, e ancor più in un assetto conflittuale, le regole risentono dei rapporti di forza e il modo in cui sono costruite e il modo in cui vengono o meno rispettate lo stabilisce il Paese (o il gruppo di Paesi) con maggiore potere politico.
I casi probabilmente più eclatanti di acquisizioni estere (si badi: non solo da parte di imprese di altri Paesi europei) sono Montedison – ora francese – Pirelli – prima russa poi cinese – Magneti Marelli – ora giapponese. Si tratta di fenomeni che dovrebbero essere inquadrati in una più generale dinamica di concentrazione dei capitali, sia per quanto attiene agli assetti proprietari, sia per quanto attiene alla loro localizzazione: fenomeni inarrestabili a meno di non immaginare improbabili misure di controllo della circolazione internazionale dei capitali.