di Rosario Coluccia
La lingua italiana ha una storia antica. I primi documenti risalgono a oltre mille anni fa. Dapprima testi brevi, formule testimoniali, scritti di carattere religioso o pratico; poi, poco per volta, le manifestazioni dell’italiano diventano più complesse e in un certo senso più “ambiziose”. Nel Trecento nascono capolavori immortali, le opere dei grandissimi Dante, Petrarca, Boccaccio; nel Cinquecento la nostra lingua si dota di una grammatica con regole molto ben organizzate, delineate da Pietro Bembo nelle Prose della volgar lingua (1525); nel Seicento possiede un suo vocabolario, quello degli Accademici della Crusca, Accademia nata a Firenze nel 1583 (la prima edizione del Vocabolario fu stampata nel 1612). L’Accademia e il suo vocabolario diventarono il modello a cui si rifecero altre lingue europee di grande prestigio: ai principi del Vocabolario della Crusca si atteneva il progetto del Dictionnaire de l’Académie française, fondata nel 1635 sotto re Luigi XIII dal cardinale Richelieu (la prima edizione del Dictionnaire fu offerta al re di Francia nel 1694); la Real Academía Española, istituita nel 1713, dichiarò espressamente di aver imitato la Crusca per fissare il proprio vocabolario, il Diccionario de la lengua española (prima edizione nel 1780).
Non immediatamente ma sempre più frequentemente, la lingua di Dante, Petrarca, Boccaccio cominciò a definirsi “italiano”, non più “fiorentino” o “toscano”. Su quelle basi, poco per volta, si edificava la lingua della nazione intera. Tuttavia per secoli quella scelta restò limitata ai ceti colti, numericamente esigui pur se culturalmente rilevanti; mancavano le condizioni politiche, economiche, sociali, di sviluppo della scolarità necessarie per la creazione di una lingua effettivamente nazionale. A lungo l’italiano fu soprattutto la lingua usata dalla parte istruita della società e dagli scrittori. Tutti gli altri, illetterati e non scolarizzati, si esprimevano solo in dialetto. Al primo censimento dell’Italia unita il 78% della popolazione risultò totalmente analfabeta. L’istruzione elementare, dove c’era, garantiva soltanto una sommaria alfabetizzazione e l’istruzione postelementare, che poteva portare all’uso della lingua italiana, era riservata allo 0,9% delle fasce giovani.