di Pietro Totaro
Ho avuto la fortuna di conoscere l’opera di Luigi Mariano. Una conoscenza parziale, corroborata, però, dal fatto di aver potuto ammirarne parte dei risultati dal vivo. Per altri, l’immagine fotografica ha in qualche modo supplito. Di una cosa sono sempre stato certo: l’artista niente ebbe a spartire, nonostante le sue riuscite e ripetute incursioni nell’astrattismo, con la corrente formalista, corrente che pure, proprio negli anni in cui il Mariano partecipava, a Venezia, alla prima Biennale del dopoguerra, cominciava a definirsi sotto la spinta di Lionello Venturi. Luigi Mariano non poteva essere formalista, per cultura e, soprattutto, per etica. E, tuttavia, una certa accezione della forma si attaglia bene alla sua lunga ricerca artistica. È quella che interviene nella concezione dell’estetica che fu elaborata dal Pareyson per il quale “l’arte è un facere che è perficere”, cioè un fare inventando il “modo di fare” o meglio del formare. Uno, in particolare, fra i temi che gli furono cari e che frequentò a lungo rappresenta bene questa visione: quello espresso nelle xilopitture. Giustamente, in un altro contributo a questo numero del “Titano”, Giovanna Rotondi Terminiello, annovera nell’ambito figurativo le xilopitture, termine coniato dal padre Pasquale Rotondi quando si trovò a confrontarsi con questa peculiare invenzione dell’artista. Altrettanto giustamente, Konstantin Eltz-Morél, in un altro contributo critico, le definisce incisioni xilografiche astratte e suggerisce – sulla base degli scritti di Luigi Mariano riportati in “Luigi Mariano: la materia ed il colore“ a cura di P.M. Mariano e G. Rotondi Terminiello, Firenze, 2014 – che esse nascessero come risposta allo “smarrimento provocato dall’incertezza sociale degli anni Settanta del Novecento italiano” e col loro espressionismo volessero rappresentare un astratto rifugio dai rumori tragici del mondo.
È un paradosso la discrepanza tra le due interpretazioni? No! Le xilopitture sono figurative nella loro materia, sebbene non propriamente nell’immagine; sono però astratte nell’invenzione. Tecnicamente si tratta di xilografie a “forme” perse, realizzate con legno di testa. Il legno è quello d’ulivo, l’albero che ha definito nei secoli la storia della sua terra e che porta in sé i segni di quella storia. Per quanto riguarda il “modo di fare”, le sezioni sono mantenute nella loro originale forma, poi più volte incise e inchiostrate alla ricerca di una nuova forma che non tradisce tuttavia quella primigenia, spesso assimilabile ad un’impronta digitale, unica, irripetibile. E così l’osservatore percepisce l’espressività del contrasto, talvolta nell’incendio dei colori, poi riconosce la forma naturale, i segni minuti degli anelli d’accrescimento, delle crepe, dei corrosi contorni e fra questi, talvolta in sordina, talvolta squillanti, i segni dell’artista che ha levigato ed inciso ed ancora quelli legati alla tensione superficiale degli inchiostri, l’altra materia che insieme al legno ed alla carta contribuisce alla forma dell’opera. Il tutto a costituire un dialogo tra la materia e l’artista e tra l‘opera e il suo osservatore. Quest’ultimo, inesauribile interprete dell’opera, la esegue riconoscendone i segni; infine, costretto a porsi delle domande, diviene inconsapevole attore della poetica dell’autore. Scrisse Luigi Mariano: “In ogni opera è formulata una domanda che è un compendio sfuggente della vita: e anche la risposta vibra oltre la ragione”. Parlava di poesia, si riferiva, ritengo, anche alla sua arte.
[“Il Titano. Supplemento economico de “Il Galatino” n. 12 del 25 giugno 2019, p. 15]