di Antonio Errico
Se fosse estate com’è estate adesso, e avessi finito un anno della superiore, in certi pomeriggi di calura rapinosa com’è in questi pomeriggi la calura, mi metterei a leggere qualcosa.
Tanto per esempio, “La morte di Virgilio” di Hermann Broch.
Certo, non si può dire che sia una lettura d’evasione; è piuttosto un intrico di boscaglia, un fondale marino, un labirinto di specchi, un sentiero di montagna al limite del precipizio, un fuoco d’artificio sparato all’improvviso nel corso della festa. E’ una lettura che richiede sacrificio. Ma poi s’incontrano certe pagine, si incontrano certi passi, che ripagano il sacrificio che si fa. Si fa esperienza di un linguaggio, di un lessico, una sintassi, che sono la sintesi suprema del congiungimento di armonia e disarmonia, liricità e frammentazione, possanzae fragilità, impetuosità e pacatezza, arroganza e umiltà concettuale, linguistica, semantica.
“La morte di Virgilio” si legge una sola volta nella vita, come solo una volta nella vita si legge la “Recherche”di Prousto l’ “Ulysses”di Joyce.Non solo perché uno a leggerli una seconda volta non ce la può fare, ma anche, soprattutto, perché c’è un particolare di essi che si inchioda nella memoria, si attacca sulla pelle, diventa parte della tua esperienza di vivere, della tua storia intima, profonda, e può bastare.