di Gianluca Virgilio
Ci sono scrittori che accompagnano la nostra vita, divenendo tacite guide dei nostri giudizi e comportamenti, a cui rimaniamo fedeli non per assuefazione, bensì per un desiderio di conoscenza che sembra continuamente alimentato dal rapporto con loro. Se non aprissimo più le pagine di certi libri, non tradiremmo questi scrittori-guida, tradiremmo noi stessi, dimenticheremmo quello che siamo e non sapremmo più orientarci nella vita. Questi scrittori sono i grandi scrittori, Dante, Proust, Musil, Leopardi, Gadda, ma sono anche quelli che ci hanno insegnato a leggerli, sono alcuni critici-mediatori, senza l’opera dei quali noi faremmo fatica a capire tante cose. Antonio Prete ha avuto questa funzione nei miei confronti, mi ha insegnato a leggere Leopardi (e non solo) in un certo modo.
Frequentavo l’ultimo anno di liceo quando, nel 1980, vide la luce Il pensiero poetante di Antonio Prete. Naturalmente non ne sentii parlare al liceo dove, quando va bene, le cose arrivano dieci anni dopo. Ma quando di lì a poco cominciarono i miei studi universitari, Il pensiero poetante fu il libro attraverso il quale approdai alla lettura dello Zibaldone, “l’immenso volume”, “quel mio smisurato scartafaccio” (Lettera 1021 dell’Epistolario), che nella mia giovanile immaginazione doveva contenere, come di fatto potei constatare durante un’intera estate, meraviglie più numerose che nelle Mille e una notte. Capivo per la prima volta che non v’è questa gran differenza tra poesia e prosa, tra pensiero e tecniche in cui esso si esprime, capivo Leopardi quando diceva che “uno che per far versi si nutrisse solamente di versi sarebbe come chi si cibasse di solo grasso per ingrassare, quando il grasso degli animali è la cosa meno atta a formare il nostro…” (Zibaldone, 29); soprattutto capivo ciò che rendeva così vive le pagine leopardiane: questo “incontro tra “poesia pensante” e “pensare poetante”, che non dava origine né a una nuova filosofia né a una nuova poesia, ma semplicemente a una terza soluzione, tanto più incompresa in quanto fuoriusciva dal “recinto disciplinato delle discipline” che “non sopporta contaminazioni, scambio di strumenti, mescolanze di procedimenti conoscitivi”: questa terza soluzione era appunto il pensiero poetante (Il pensiero poetante, pp. 87-88).