di Augusto Benemeglio
- 1. La sua anima s’incrinò al primo urto
Uno subito pensa che Charles Baudelaire non meritava quella madre, né quelle eterne angustie finanziarie; non meritava quel gretto “Consiglio di famiglia alla Monti” che lo deprivò della sua libertà d’agire, né quell’amante tirchia; non meritava di morire di sifilide a soli quarantasei anni… Tuttavia questo raffinato esteta che frequentava le più miserabili prostitute di Parigi, che aveva il gusto della miseria e della sporcizia, che respirava vicino al magro corpo di Louchette, al suo alito di malfamata “orribile ebrea”; questo solitario che aveva una paura spaventosa della solitudine, e non usciva mai senza un amico, che aspirava a una casa, a una vita familiare, questo apologista dello sforzo “abulico”, incapace di costringersi ad un lavoro regolare, questo poeta che ha lanciato a piene mani inviti al viaggio, all’avventura, come un tour operator, questo prigioniero di se stesso che ha sempre anelato all’evasione, sognato paesi sconosciuti, e l’unico viaggio che ha fatto gli è parso un lungo supplizio… in fondo queste cose l’ha cercate con il lanternino, le ha volute, e, alla fine, forse, ha meritato in pieno la propria vita infame.
Quando il padre morì, aveva sei anni, viveva nell’adorazione di sua madre; affascinato, circondato di riguardi e di cure, non sapeva ancora di esistere come persona, ma si sentiva unito al corpo e al cuore della madre da una sorta di partecipazione primitiva e mistica; si perdeva nella tiepida dolcezza del loro amore reciproco. “Tu eri unicamente mia – le scriverà più tardi. Eri tutt’insieme un idolo e un camerata”. Ma nel novembre del 1828…, quando lui ha solo sette anni, questa donna tanto amata si risposa con un militare di carriera e lui viene messo in collegio. Dirà Buisson: “Baudelaire era un’anima molto delicata, molto fine, molto originale e tenera, un’anima che si incrinò subito, come un cristallo, al primo urto della vita.” Viene gettato nell’esistenza “personale” (“Quando si ha un figlio come me, -scriverà più tardi- non si riprende marito”), scopre di essere “uno”, e che la vita gli è stata data per nulla. Al suo furore di vedersi scacciato si mischia un senso di decadimento profondo. Ne “Il mio cuore messo a nudo”, che iniziò a scrivere in un Natale in cui preferì rimanere in collegio (aveva quindici anni) che venire a casa per le vacanze, dirà: “Ho sempre provato un sentimento di solitudine totale, fin dall’infanzia. Nonostante la famiglia, soprattutto in mezzo ai compagni, sentimento d’un destino eternamente solitario”. Non solo non rinnega questo sentimento di disappartenenza a tutto, ma il giovane Charles vi si immerge, vi si precipita con rabbia, vi si rinchiude e, dal momento che ve lo hanno condannato, vuole che la condanna sia definitiva. Abbandonato, respinto, Baudelaire, vuole orgogliosamente far suo questo isolamento; per non doverla subire, rivendica la propria solitudine, ne fa una sorta di “compagna” prediletta, una scelta sua, personale. Lui sarà diverso da tutti gli altri. C’è già in nuce in tutto ciò “L’albatro”, la figura simbolica del poeta, che può solo volare, ma quando è costretto a camminare diventa ridicolo.