di Antonio Errico
Gentilezza vuol dire cortesia, garbo, grazia, delicatezza, premura, cordialità, sollecitudine, riguardo. I suoi contrari significano scortesia, sgarbatezza, scostumatezza, inciviltà, maleducazione.
Leggo sui giornali che in una scuola media della provincia di Treviso, Mara Pillon, docente di italiano, insegna gentilezza. Nella aule delle scuole d’Italia, non è la sola a farlo, probabilmente, più o meno esplicitamente.
Non saprei dire se la gentilezza si può insegnare. Non saprei dire se la gentilezza non sia, in fondo, l’unica materia che si può insegnare. Nel senso che il conoscere è sempre gentilezza, delicatezza, riguardo per qualcosa, per qualcuno: nei confronti della natura, per esempio, o della memoria, dell’altro, di se stessi, dei giorni che si vivono, dei luoghi in cui si vive. Che hanno necessità di gentilezza, di sollecitudine, premura, in modo che non si corrompano, non si sciupino, in modo che qualsiasi relazione con gli esseri e le cose possa costituirsi come un’occasione per attribuire un senso ulteriore alla loro esistenza e alla propria.
D’altra parte, ci si potrebbe domandare quale apprendimento si ricavi da una conoscenza della storia dell’arte, della letteratura, da una conoscenza della storia in generale, o della filosofia, della biologia, della fisica, della psicologia, di una disciplina qualsiasi, di una qualsiasi scienza.
Se l’apprendimento è fondamentale, profondo, che rimane per tutto il tempo che dura l’esistenza, se impronta le visioni del mondo, se orienta il pensiero e i comportamenti, se stabilisce un equilibrio fra quello che si è e quello che si vorrebbe essere, fra le possibilità e le aspirazioni, la realtà e l’immaginazione di una realtà diversa, allora si tratta di un apprendimento che provoca, realizza gentilezza: un protendersi verso il proprio piccolo universo con l’intenzione di preservarlo o di renderlo migliore.