Di mestiere faccio il linguista 7. Incertezze linguistiche

di Rosario Coluccia

Leggiamo queste frasi: «una gran quantità di persone … parlano italiano»; «una serie di verifiche… non avevano dato alcun esito»; «ringrazio inoltre il personale delle biblioteche di […] per la loro pazienza e competenza»; «oggi sono colpita che di quanto accadde io non mi feci una ragione plausibile»; «complementarietà». Badate ai grassetti, segnalano l’uso improprio o errato della lingua italiana. Elenco i fenomeni. Accordo tra soggetto singolare e verbo plurale nei primi due casi (da evitare ma è frequente, se il nome collettivo [quantitàserie] è seguito da di + nome plurale); accordo tra sostantivo singolare e agg. possessivo plurale nel terzo caso (sbagliato); uso di che “polivalente” nel quarto caso (improprio); dittongo «ie» nell’ultimo (sbagliato. Si deve dire complementarità, senza dittongo. Come interdisciplinarità, pecularità, singolarità, e così via).

Questi esempi si leggono in scritti scientifici di miei colleghi (di tutt’Italia, non salentini). Linguisti, filologi e letterati di professione quando scrivono a volte si distraggono e usano impropriamente la lingua, sbagliano addirittura. Confesso. Per curiosità e per civetteria ho raccolto svarioni linguistici commessi da professori universitari nella redazione di articoli scientifici. Sembra un’iniziativa perfida, ma non lo è. Assicuro che non ho mai usato (né mai userò) quei  materiali per un giudizio pubblico o per un concorso; né mai rivelerò i nomi dei miei colleghi in difficoltà. Tutto è consegnato ad un file segreto che mai nessuno conoscerà, a parte me, neppure sotto tortura.

Bando all’ironia, poniamoci domande serie. Come può accadere che scriventi che dovrebbero conoscere bene la nostra lingua, commettano errori? Lo scritto dà modo di riflettere, se sbagli e te ne accorgi puoi rimediare. Allora potremmo pensare che i fenomeni elencati prima non siano dovuti a semplice distrazione, c’è qualcosa che sfugge, al di là delle statistiche apparentemente positive. In teoria, i numeri che indicano quanti nostri concittadini siano in grado di usare correntemente l’italiano (i cosiddetti italofoni, mi scuso per il tecnicismo) sono confortanti. Per secoli siamo stati un paese politicamente e linguisticamente disunito, con una ridotta percentuale di italofoni. Gli altri, la maggioranza, quasi tutti analfabeti, possedevano solo il loro dialetto, comunicavano solo con quello. Questa situazione era normale nella società dei secoli passati, di tipo agricolo-pastorale e con scarsa mobilità. Poi, dopo l’unità e ancor più dopo la seconda guerra mondiale, tutto è cambiato. Gli anni del “miracolo economico” hanno prodotto un “miracolo linguistico” non meno importante, l’italiano è progressivamente diventato la lingua di tutti, per la prima volta nella storia. Fattori socio-economici sono alla base di questo risultato straordinario, a partire dall’aumento dell’istruzione scolastica: dal 1979 ad ogni cittadino si garantiscono otto anni di istruzione obbligatoria, siamo per questo un paese avanzato. E oggi, secondo le statistiche, il 94% degli italiani è in grado di usare l’italiano, lingua viva percorsa da innovazioni e mutamenti che a volte ci lasciano perplessi.

Non tutto è risolto: possediamo la lingua ma siamo incerti sul suo uso, dubbi di lingua tormentano chi parla e chi scrive. Perché tanta incertezza? La spiegazione è presto data: in passato cerchie ristrette di letterati e di grammatici indicavano la strada linguistica da seguire e fornivano l’esempio da imitare. Oggi tanti modelli si confrontano, i mezzi di comunicazione amplificano usi diversi: un conduttore televisivo, un politico, un calciatore, una velina parlano ognuno a proprio modo e possono influire moltissimo sul comportamento (anche linguistico) di milioni di individui.

Vengono alla ribalta della lingua forme e usi nuovi, diversi da quelli tradizionali. Ricordiamo con tenerezza, ci appaiono ingenue, alcune frasi che nel 1990 il maestro elementare Marcello D’Orta registrò nei temi dei suoi scolari napoletani e poi pubblicò in un libro di successo, «Io speriamo che me la cavo» (se ne fece anche un film, protagonista Paolo Villaggio): «Mio padre non so quanti hanni ha, però non è troppo vecchio: un poco è anche giovane!»; «Al Nord il maltempo è sempre cattivo, piove e nevica sempre, le persone si svegliano umide».

Oggi si sente e si legge molto di più, si diffondono prepotentemente strutture diverse da quelle tradizionali. Dappertutto troviamo frasi segmentate, con dislocazione e ripresa del tipo: «il libro, l’ho letto»; «il giornale, lo compro io»; o anche: «l’ho letto, il libro»; «lo compro io, il giornale». Riflettete: queste frasi sono diverse dalle semplici «ho letto il libro» e «compro il giornale», mettono l’enfasi sull’azione, è come se dicessero «stai sicuro, ho letto davvero il libro» e «non comprare tu il giornale, ci penso io». Abbiamo periodi spezzati del tipo: «l’università, quel professore non se ne cura proprio»; «io, non mi piace la panna». Sono sintatticamente impropri, ma comunicano efficacemente. Perfino Manzoni una volta fa parlare così la monaca di Monza, incuriosita dalle vicende di Lucia: «Padre guardiano […], lei sa che noi altre monache, ci piace di sentire le storie per minuto». È il più famoso anacoluto della nostra storia letteraria, ma è efficace. Lo sapeva Lucio Dalla, quando cantava: «e si farà l’amore, ognuno come gli va».

Abbiamo visto prima un esempio di che polivalente, nello scritto di un professore. Eccone altri, in cui che sostituisce altre congiunzioni. Con valore finale (affinchéperché): «vieni che ti do un bacio» (un ragazzo che dicesse alla sua bella «vieni affinché io ti dia un bacio» riceverebbe certo un rifiuto); temporale (nel quale): «maledetto il giorno che ti ho incontrata» (non diremmo pure noi così, come Verdone?); perfino consecutivo: «voglio una vita che non è mai tardi, voglio una vita che non dormi mai» (canta Vasco Rossi, e tutti si emozionano).

Sentiamo spesso e perfino leggiamo costrutti censurati dalle grammatiche. 1) mi “affettivo”: «mi faccio una passeggiata, una bella dormita»; 2) ci attualizzante, originariamente avv. di luogo: «ci ho fame, ci ho sonno, ci hai ragione»; spesso in unione con essere e avere: «oggi c’è sciopero dei treni»; «oggi non c’è lezione»; 3) sono collegati i tipi niente + sost.: «oggi niente lezione», e no + sost.: una pubblicità asseriva: «no Martini, no party», vicino casa ho letto un cartello scritto a mano che garantiva: «clementini nosemi».

Tra i miei lettori c’è un attento professore in pensione, novantenne (non ne faccio il nome per discrezione). Il professore mi scrive (una bella grafia, non usa il computer): «mi sembra che, nel parlato come nello scritto, sia stato quasi abolito l’uso del modo congiuntivo. Cosa ne pensa?». Il professore ha ragione, il regresso del congiuntivo è evidente, in particolare nelle interrogative indirette: «non so se questo è vero», e nelle ipotetiche dell’irrealtà: «se venivi prima, ti dicevo tutto».

Per capirci. L’italiano, finalmente lingua di tutti, non è solo quello letterario. Fenomeni vari si affacciano sulla scena, le lingue non sono immobili né monolitiche. Non possiamo rifiutare a priori né accettare tutto indiscriminatamente. Ecco le bussole. 1. Respingere gli errori, senza alcun dubbio: a partire dalla scuola, i professori correggano gli alunni che sbagliano. 2. Accettare che si possa parlare e scrivere in modo diverso a seconda delle circostanze e dei differenti livelli di formalità, lo scritto formale è diverso dai messaggini e dalle conversazioni spontanee. In pubblico e con estranei ci si comporta in modo linguisticamente diverso rispetto alla comunicazione in famiglia o con gli amici: quando si parla con i coetanei certe forme sono ammesse, quando si scrive un tema bisogna usare l’italiano formale.

Più in generale, come comportarsi di fronte alle novità? Alcune cadranno, altre forse in futuro prevarranno, decideremo noi, siamo noi i padroni della lingua (l’abbiamo visto nella prima puntata). L’incertezza, il bisogno di individuare la strada giusta spiega il successo straordinario del «Pronto soccorso linguistico» che Francesco Sabatini, presidente emerito dell’Accademia della Crusca, domenicalmente offre dagli schermi di RAI 1. Ancora. L’Accademia della Crusca (www.accademiadellacrusca.it) mette a disposizione del pubblico un servizio di consulenza rivolto a coloro che cercano informazioni e chiarimenti grammaticali e lessicali, spiegazioni di fenomeni linguistici, origine e storia delle parole. La redazione esamina i quesiti, risponde in rete a quelli più diffusi e più interessanti. È dedicato alle scuole e agli amatori della lingua il semestrale «La Crusca per voi», fondato da Giovanni Nencioni e diretto oggi da Paolo D’Achille. L’Accademia dei Lincei ha varato da alcuni anni il progetto «I Lincei per una nuova didattica nella scuola: una rete nazionale», dedicato ai professori che nella scuola insegnano scienze, matematica e italiano, le materie intellettualmente più formative. I corsi si tengono anche in Puglia, a Lecce e a Bari, professori di molte scuole vi partecipano senza alcuna ricompensa, impiegano così il loro tempo. La scuola italiana è ricca di bravi docenti, smentiamo i luoghi comuni.

Con intelligenza possiamo tutti imparare ad usare una lingua corretta, che varia a seconda delle situazioni comunicative. Con scelte appropriate, scrivendo e parlando adeguatamente, a seconda delle circostanze. Così si costruisce il nostro futuro linguistico.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 14 agosto 2016]

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